Di Cristina Di Silvio*
DOHA. Alte colonne di fumo nero si sono levate sopra Doha in seguito al raid aereo israeliano che ha colpito i vertici politici di Hamas.

L’immagine, diffusa in tempo reale dalle Agenzie internazionali, racchiude in un solo fotogramma il collasso di un ordine implicito: non solo l’escalation di un conflitto armato, ma il crollo simbolico di un’architettura diplomatica che aveva finora garantito al Qatar il ruolo di mediatore e rifugio politico nel cuore del Golfo.
La giornata di ieri ha segnato una discontinuità strategica netta.
Israele ha condotto un attacco mirato nei pressi della capitale qatariota, colpendo un incontro ristretto tra esponenti di spicco della leadership esterna di Hamas.
Obiettivo principale: Khalil al-Hayya, figura centrale nel meccanismo negoziale con Israele, noto per aver guidato i colloqui indiretti su tregua e scambio di prigionieri. Secondo fonti ufficiali israeliane, l’operazione, pianificata congiuntamente da aviazione, intelligence e unità cibernetiche, avrebbe portato alla “neutralizzazione” di sei elementi operativi di alto profilo.
Hamas, tuttavia, ha confermato la morte del figlio di al-Hayya, del suo capo ufficio, di alcune guardie del corpo e di un agente della sicurezza qatariota, ma ha smentito che i vertici politici siano stati eliminati. La reazione di Doha è stata immediata, aspra e senza ambiguità.
Il Ministero degli Esteri ha parlato di una “violazione codarda della sovranità nazionale”, denunciando l’attacco come un atto ostile e inaccettabile sotto il profilo del diritto internazionale.
È stata richiamata l’ambasciatrice statunitense per chiarimenti urgenti, mentre un comunicato ufficiale ha ammonito circa il rischio di un precedente irreversibile, capace di destabilizzare non solo il Qatar, ma l’intero equilibrio regionale fondato sugli Accordi di Abramo. Sul piano internazionale, la condanna è giunta da più fronti.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno definito l’azione israeliana una “grave infrazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite”.
Arabia Saudita ed Egitto hanno espresso profonda preoccupazione per l’escalation e per la possibilità che il conflitto si espanda oltre i confini canonici del teatro israelo-palestinese.
Londra ha assunto una posizione più sfumata: il primo ministro Keir Starmer ha invocato un cessate il fuoco immediato, la liberazione degli ostaggi e l’incremento dell’assistenza umanitaria, ma Downing Street ha smentito qualsiasi coinvolgimento preventivo nell’operazione.
Gli Stati Uniti, pur informati in anticipo secondo fonti israeliane, hanno assunto un profilo prudente: il Presidente Trump ha definito l’attacco “un evento sfortunato”, evitando ogni endorsement formale e lasciando intravedere un crescente imbarazzo tra alleati.
Nel frattempo, l’esercito israeliano ha ordinato l’evacuazione totale di Gaza City, anticipando un’operazione terrestre massiccia che mira a occupare la roccaforte finale del movimento islamista. L’ordine riguarda oltre un milione di civili, già provati da mesi di assedio, bombardamenti e privazioni sistematiche.
Solo 50 mila persone sarebbero riuscite a lasciare la città nelle prime 24 ore, frenate da bombardamenti sulle presunte “zone sicure”, dall’alto costo del trasferimento (oltre mille dollari per famiglia, secondo fonti umanitarie) e da una crescente sfiducia nelle garanzie offerte dagli attori militari.
I quartieri di Zeitoun, Daraj, al-Tuffah e il centro storico, già devastati nei mesi precedenti, appaiono ora come rovine abbandonate, svuotate della loro funzione urbana, ridotte a residui topografici senza destinazione.
Il raid su Doha, però, segna un salto qualitativo nel conflitto.
Non si tratta più di una guerra limitata a Gaza e alla Cisgiordania: si tratta ora di una guerra che si proietta oltre i confini, che colpisce le retrovie diplomatiche, che trasforma i luoghi del negoziato in bersagli legittimi.
Israele ha abbandonato il paradigma difensivo per adottare una dottrina di deterrenza preventiva, colpendo la leadership politica nemica anche in territori ritenuti fino a ieri intoccabili.
È una traslazione del conflitto in una dimensione transnazionale, dove la distanza geografica non offre più protezione e la neutralità diplomatica diventa un’illusione sempre più fragile.
Sul fronte interno, il primo ministro Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz parlano apertamente di una “guerra globale al terrorismo” e invocano misure straordinarie contro i centri abitati palestinesi, sia a Gaza che in Cisgiordania.

Le comunità di Qobeibah e Qatannah, da cui provenivano i due attentatori responsabili della strage di Ramot, sono ora sottoposte a un regime di sanzioni collettive: demolizioni sistematiche, revoche di permessi di lavoro, congelamento di beni familiari.
È un modello repressivo che non distingue tra responsabilità individuale e appartenenza territoriale, alimentando una spirale punitiva che tende a trasformare la sicurezza in rappresaglia.
La pressione politica si estende anche sul piano regionale.
L’attacco al Qatar – storico partner economico e interlocutore privilegiato della leadership statunitense – rappresenta un affronto diretto alla diplomazia del Golfo.
Gli Accordi di Abramo, che avevano cercato di normalizzare i rapporti tra Israele e il mondo arabo sunnita, vacillano ora sotto il peso della radicalizzazione strategica di Tel Aviv.
Bezalel Smotrich, ministro del Governo dell’estrema destra israeliana, ha rilanciato il piano di annessione dell’82% della Cisgiordania, sostenendo di avere l’appoggio di Netanyahu e dello stesso Trump.

“Il momento è arrivato”, ha dichiarato.
Il progetto, corredato da una mappa dettagliata dei nuovi confini, è stato accolto con sdegno dall’Autorità Nazionale palestinese e con allarme crescente da parte dell’Unione Europea.

Gli Emirati hanno già avvertito che l’annessione rappresenterebbe “una linea rossa definitiva”, in grado di compromettere irreversibilmente la visione di integrazione regionale.
Le implicazioni di questo nuovo scenario sono profonde e interconnesse.
Sul piano diplomatico, l’operazione israeliana impone una revisione urgente del ruolo dei Paesi ospitanti come spazi di mediazione: non esistono più zone neutrali.
Strategicamente, la decapitazione preventiva della leadership di Hamas indebolisce i canali negoziali, isolando ulteriormente un’organizzazione che, pur nel conflitto, aveva mantenuto una sua rilevanza nelle dinamiche regionali.
Giuridicamente, la violazione dello spazio aereo e territoriale del Qatar apre la strada a possibili azioni internazionali contro Israele, anche se l’efficacia di tali strumenti appare sempre più limitata.
Operativamente, l’occupazione di Gaza City rischia di innescare una crisi umanitaria senza precedenti, con flussi di sfollati interni, collasso delle strutture sanitarie e paralisi dell’amministrazione civile.

È una guerra che muta pelle, si destruttura, si moltiplica.
Non più scontro tra eserciti convenzionali, ma lotta per la legittimità narrativa, per la definizione dei confini stessi della guerra.
Israele ha scelto la via della proiezione extraterritoriale del conflitto: un’azione che colpisce la leadership politica nemica là dove si sente al sicuro, che ridisegna i confini della guerra moderna secondo logiche di sorveglianza totale, di dominio asimmetrico, di negazione preventiva del futuro avversario.
Ma colpendo il Qatar, Israele ha anche aperto un nuovo fronte – invisibile ma reale – sul piano simbolico.
Ha colpito l’idea stessa di mediazione, ha bruciato un ponte. E nella regione, ora, si teme che il silenzio che ne segue non sia un preludio alla pace, ma l’attesa sospesa prima di una deflagrazione più ampia.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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