Di Giuseppe Gagliano*
BEIRUT. Il 4 agosto 2020, Beirut è stata squarciata da un’esplosione che ha lasciato cicatrici profonde, non solo nei quartieri vicini al Porto, ma nell’anima stessa del Libano.

Oltre 200 morti, migliaia di feriti, centinaia di migliaia di sfollati e danni per miliardi di dollari.
E’ stato un disastro che ha messo in ginocchio una città già provata da crisi economiche e politiche.
Al centro di quella tragedia, 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio, una sostanza chimica pericolosa, immagazzinata per anni in un hangar del Porto senza adeguate misure di sicurezza.
Oggi, a distanza di oltre 4 anni, nuove rivelazioni gettano luce su un contratto opaco e su una rete di responsabilità che coinvolge non solo il Libano, ma anche la Francia e, potenzialmente, altri attori internazionali.
Le indagini, condotte parallelamente da magistrati francesi e libanesi, si concentrano su come quel carico letale sia finito a Beirut.
Nel 2013, la nave Rhosus, battente bandiera moldava ma di proprietà russa, salpò dalla Georgia con destinazione Mozambico.
A bordo, 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio destinate, secondo i documenti ufficiali, a una Compagnia mozambicana per la produzione di esplosivi industriali.
Ma la nave non arrivò mai a destinazione. Per motivi mai del tutto chiariti – ufficialmente un guasto al motore – la Rhosus si fermò a Beirut, dove il carico fu confiscato e stoccato nel Porto.

Da lì, per sei anni, rimase abbandonato, nonostante ripetuti avvertimenti da parte di funzionari doganali e autorità portuali sulla sua pericolosità.
Ora, nuovi documenti stanno portando alla luce dettagli inquietanti.
Al centro della vicenda c’è un consulente franco-libanese, figura chiave in un contratto che appare sempre più sospetto.
Questo contratto, stipulato per il trasporto del nitrato d’ammonio, solleva interrogativi su chi abbia davvero orchestrato l’operazione.
Le carte suggeriscono che la destinazione finale del carico potrebbe non essere mai stata il Mozambico, ma che Beirut fosse, sin dall’inizio, un punto di approdo intenzionale.
Le indagini stanno cercando di chiarire se dietro questa operazione ci fossero interessi legati al contrabbando, forse diretti verso la Siria, dove il nitrato d’ammonio avrebbe potuto essere usato per scopi bellici.
Non è un’ipotesi nuova: già nel 2021, un’inchiesta giornalistica aveva collegato la Compagnia responsabile del carico a uomini d’affari siriani vicini al regime di Bashar al-Assad, noti per il loro ruolo nel sostenere la guerra civile siriana.
Ma c’è di più. Le autorità francesi, coinvolte per via del consulente e di possibili connessioni con società registrate in Europa, stanno esaminando la rete di aziende di comodo che potrebbero aver facilitato il trasporto.
Una di queste, con sede a Londra, è stata cancellata dai registri poco dopo l’esplosione, un dettaglio che alimenta sospetti di un tentativo di coprire le tracce.
Intanto, in Libano, le indagini procedono a rilento, ostacolate da un sistema giudiziario fragile e da pressioni politiche.
L’ex primo ministro Hassan Diab e altri funzionari sono stati accusati di negligenza, ma nessuno è stato ancora chiamato a rispondere in tribunale. La classe politica libanese, frammentata e spesso complice di un sistema clientelare, sembra più interessata a proteggersi che a cercare la verità.

La vicenda del Porto di Beirut non è solo una tragedia locale, ma un caso che intreccia interessi internazionali, corruzione e instabilità regionale.
Il nitrato d’ammonio, un composto usato sia come fertilizzante che come esplosivo, è da sempre una merce ambita in contesti di conflitto.
La sua presenza a Beirut, in un porto strategico al crocevia di rotte commerciali e politiche, solleva domande scomode: chi sapeva?
Chi ha tratto profitto da quel carico abbandonato? E perché, nonostante anni di avvertimenti, nessuno ha agito per scongiurare la catastrofe?
Le nuove rivelazioni, pur frammentarie, rappresentano un passo verso la verità.
Ma in un Paese come il Libano, dove la giustizia è spesso ostaggio di equilibri confessionali e di interferenze esterne, la strada per la responsabilità è ancora lunga. Intanto, le cicatrici di quell’esplosione – visibili nei palazzi sventrati e nelle vite spezzate – ricordano ogni giorno ai libanesi che la verità non è solo una città, ma un’intera Nazione.
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