di Daniela Lombardi
Qualunque sarà il partito che si affermerà alle prossime elezioni legislative del 25 luglio in Pakistan, sarà di quelli che sono stati legati – e lo sono ancora – al mondo dell’estremismo e del terrorismo. Pare purtroppo essere questo il denominatore comune tra i candidati alle elezioni generali, che tentano di ottenere la maggioranza ed esprimere poi il prossimo Governo ed il futuro Primo ministro, se si ripercorrono le loro storie e si risale anche non troppo indietro nel tempo. Partendo dal favorito, Imran Khan, si scopre che assieme al suo partito, il Movimento per la giustizia pakistano, non ha fatto mai mancare sostegno ad istituzioni da sempre nel mirino internazionale per la loro natura estremistica. In particolare, Khan e i suoi si sono macchiati di un’impresa non certo rassicurante per la comunità internazionale, votando di recente il raddoppio del finanziamento, già accordato in passato sempre su loro pressione, per la madrassa Haqqania. Sulla natura della scuola coranica in questione, non possono esservi dubbi. Basti pensare che proprio qui si formò il famigerato mullah Omar, leader talebano fino alla morte nel 2013. Ma, ancor di più, bisogna tener presente che nella madrassa ha studiato – e ne è stato considerato un vero e proprio ispiratore – Jalaluddin Haqqani, fondatore della rete Haqqani che non ha certo bisogno di presentazioni, in quanto gli attentati ad essa attribuiti sono tra i più sanguinosi della storia dell’area tra Pakistan, Afghanistan e India. Ricco, considerato dai giovani un benefattore, Khan ha sposato una veggente che ha predetto la sua affermazione alle prossime elezioni. I maligni sostengono invece che la sua vittoria sia voluta dagli stessi servizi segreti pakistani e che dunque non sia così difficile fare i veggenti in questo caso, tanto è vero che alcuni siti e giornali locali ne parlano già come del nuovo Primo ministro. Non certo più incoraggianti sono altri nomi in corsa. Spicca quello di Muhammad Ahmad Ludhianvi, leader del partito Ahl-i-Sunnat-Wal Jamaat (Aswj). Anche in questo caso, attentati e violenze nel nome di una visione dell’Islam antisciita, ne avevano causato l’inserimento nella lista delle organizzazioni internazionali terroristiche. In vista delle elezioni, il nome dell’Aswj è immediatamente stato riabilitato e cancellato dalla lista, dunque i suoi esponenti sono liberi di partecipare alla competizione.
Quanto agli ulteriori partiti in corsa per il Parlamento, figurano tra essi la Milli Muslim League, che fa capo a Hafiz Saeed, accusato del massacro di Mumbai del 2008 e Tehrik-i-Labbaik Pakistan di Khadim Hussein Rizvi, che auspica il ritorno del Califfato. Uno scenario abbastanza inquietante, dunque. L’esercito e l’Isi (i servizi segreti pakistani) tirano i fili del gioco. Ma la novità di queste elezioni 2018 è che non lo fanno, come normalmente accade, in segreto. Alcune considerazioni, come si diceva, vengono divulgate apertamente. I giornali parlano, senza aver dovuto troppo investigare, di mazzette distribuite a destra e a manca, anche in luoghi pubblici e senza nascondersi, per determinare l’esito elettorale. L’Isi non cerca giustificazioni e la presenza di un così alto tasso di terroristi in corsa viene motivata come un tentativo di pacificare gli animi e innescare il processo di coinvolgimento delle reti terroristiche nella vita politica. E, tra una componente estremistica e l’altra, la vittoria di “Taliban Khan”, come ormai viene chiamato Imran Khan per la sua vicinanza ai talebani, viene data per certa. Senza bisogno di doti divinatorie.
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