Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. Il 22 settembre la Francia, per voce del Presidente Emmanuel Macron, ha annunciato il riconoscimento formale dello Stato di Palestina nel contesto di una conferenza ONU che ha visto l’adesione simbolica o formale di altri Paesi europei.

L’atto non è passato inosservato, e non poteva esserlo. In un quadro mediorientale già saturo di tensioni, in cui la parola “pace” è da tempo relegata alla retorica più che alla realtà diplomatica, questo gesto ha avuto l’effetto di una scossa tellurica. Non un sisma violento, ma un movimento profondo che cambia la geografia dei rapporti, delle percezioni, delle posture internazionali.
Tra chi ha saputo cogliere la portata reale di questo gesto, Maurizio Molinari – editorialista de La Repubblica – ha offerto una riflessione preziosa, sottolineando come il riconoscimento francese sia, di fatto, un atto di superamento della logica negoziale bilaterale di Oslo. Non è un semplice gesto di solidarietà politica: è un cambio di paradigma.
Se per oltre 30 anni la comunità internazionale ha ritenuto che lo Stato palestinese dovesse nascere dal negoziato con Israele, oggi questa ipotesi sembra per molti versi tramontata – o quantomeno sospesa a tempo indeterminato.
Eppure, è proprio su questo punto che si apre una contraddizione pericolosa.
Abbandonare Oslo, o peggio ancora agire come se quegli Accordi non esistessero più, significa legittimare, sul piano delle regole, ciò che si contesta sul piano delle azioni. In altre parole: se si afferma che il riconoscimento unilaterale è un atto giustificabile a fronte dell’impasse, si autorizza implicitamente anche l’unilateralismo israeliano, compresa – e qui il rischio non è teorico – l’annessione della Cisgiordania.
Il Governo israeliano non ha fatto mistero della propria irritazione per il gesto francese.
I settori più ideologizzati della coalizione di Governo – in particolare quelli legati al movimento dei coloni – vedono nel riconoscimento una minaccia strategica e un attacco politico alla sovranità nazionale.
La reazione più plausibile, già anticipata da alcune dichiarazioni ufficiali, è una mossa di pressione opposta: l’inglobamento unilaterale di parte della Cisgiordania.

Le aree più esposte sono ben note: la Valle del Giordano, la zona E1 tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim, e altri blocchi di insediamenti già ampiamente urbanizzati.
L’annessione – anche parziale – porterebbe a una frammentazione fisica e istituzionale del futuro Stato palestinese, trasformandolo in un mosaico di enclavi senza continuità territoriale, sotto sorveglianza militare israeliana, con mobilità limitata e sovranità declassata a gestione amministrativa.
In uno scenario del genere, la soluzione a due Stati diventerebbe tecnicamente impraticabile e politicamente irrilevante.
E non ci troveremmo davanti a una pace congelata, ma a una nuova fase di crisi sistemica, in cui la comunità internazionale perderebbe ogni leva realistica per riequilibrare la situazione; il diritto internazionale verrebbe violato apertamente e strutturalmente; si aprirebbero contenziosi gravi davanti alla Corte Internazionale di Giustizia; la popolazione palestinese si radicalizzerebbe ulteriormente, tra sfiducia e disperazione; gli accordi di normalizzazione tra Israele e alcuni Stati arabi verrebbero rimessi in discussione o sospesi; potenze esterne come Stati Uniti, Unione Europea e Russia verrebbero trascinate in un conflitto diplomatico permanente, senza spazio per la mediazione.
In questa cornice, il riconoscimento francese – pur nobile nelle intenzioni – rischia di aprire un fronte diplomatico fragile e contraddittorio.
Se il riconoscimento diventa atto unilaterale, si scardina la logica dei negoziati.
Ma se si scardina la logica dei negoziati, si alimenta proprio ciò che si vuole evitare: la guerra come unico strumento di risoluzione del conflitto.
È per questo che condivido il passaggio – quasi un monito – suggerito da Molinari: la via d’uscita non è nei gesti simbolici, ma nel ritorno al metodo del diritto internazionale e al rispetto degli accordi. Oslo non è perfetto. È un processo lacunoso, incompiuto, che ha generato frustrazione e stallo.
Ma è l’unico quadro giuridico che ha tentato di fondare la pace su un consenso condiviso, e non sull’imposizione unilaterale.
Abbandonarlo del tutto significherebbe svuotare ogni credibilità negoziale residua.
E, peggio ancora, legittimare un precedente: che si può agire al di fuori delle regole se le regole non funzionano.
Ma questo stesso principio – usato oggi per giustificare il riconoscimento della Palestina – potrebbe essere usato domani per giustificare l’annessione della Cisgiordania, o peggio, un conflitto aperto in nome della “sicurezza nazionale”.
L’Italia, come altri Stati europei, ha finora mantenuto una posizione attendista.
Ma l’evoluzione degli eventi obbliga a una riflessione nuova.
Non si tratta solo di decidere se riconoscere la Palestina, ma di decidere come inserirsi in un processo che non contraddica se stesso.
Serve un’azione coerente, credibile, multilaterale. Serve una diplomazia del diritto, non delle emozioni.
L’Italia può – e deve – promuovere una ripresa del processo negoziale sotto egida internazionale, rilanciando il ruolo dell’ONU e valorizzando gli Accordi di Oslo come piattaforma da riformare, non da abbandonare.
Può farlo anche attraverso azioni parallele, come conferenze multilaterali, garanzie di sicurezza, incentivi economici per entrambe le parti.
Il riconoscimento francese segna un punto di rottura, ma non deve diventare un punto di non ritorno.
È legittimo voler rompere l’inerzia, ma è pericoloso legittimare le scorciatoie.
La pace, se vuole essere tale, non può nascere dalla contraddizione delle regole, ma dal loro rafforzamento.
In questo momento storico, la vera scelta di campo non è tra Israele e Palestina.
È tra il diritto e il fatto compiuto, tra la diplomazia strutturata e l’azione unilaterale, tra la speranza negoziata e la disperazione armata.
E in questa scelta, l’Europa – e l’Italia – devono mostrarsi all’altezza non solo della storia, ma anche della propria responsabilità morale.
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