Programma nucleare iraniano: iniziati a Vienna i colloqui per trovare una soluzione

Di Pierpaolo Piras

Vienna. Su iniziativa del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (SEAE), a Vienna, sono iniziati nei giorni i colloqui sul programma nucleare iraniano con un duplice obiettivo: che gli Stati Uniti ritornino all’accordo precedente e che l’Iran lo rispetti.

Un momento ella riunione a Vienna

Per il momento, sulla carta non è ancora cambiato nulla.

La SEAE ha invitato i viceministri e dirigenti politici di alto livello di Cina, Francia, Germania, Regno Unito, Russia e Iran.

L’intenzione ben palesata intende gettare le basi per dar forma ad un processo il quale dovrebbe idealmente portare al ritorno degli Stati Uniti al precedente accordo, il cosiddetto Piano d’Azione Congiunto Globale (PACG) e riportare l’Iran al pieno rispetto di tutti i suoi obblighi.

Il PACG (Piano d’Azione Congiunto Globale) comunemente noto come accordo sul nucleare iraniano è un accordo internazionale sulla produzione ed modalità di utilizzo dell’energia nucleare prodotta in Iran.

Tale trattato è stato raggiunto a Vienna il 14 luglio 2015 tra l’Iran ed i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti (più la Germania) e l’Unione europea.

Per la prima volta, durante l’Amministrazione di Joe Biden, recentemente eletto Presidente degli Stati Uniti,  i diplomatici statunitensi e iraniani si sono trovati a Vienna, nelle immediate e reciproche vicinanze, anche se non hanno parlato ancora direttamente tra loro.

La tattica diplomatica iniziale è stata quella di aggirare il “first you” (una sorta di parla prima tu) entrando repentinamente nella discussione dei dettagli  tecnici.

Il capo dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran (AEOI), Ali Akbar Salehi, ha espresso ottimismo sul ritorno degli Stati Uniti e dell’Iran al rispetto del Piano d’azione congiunto globale (PACG).

l capo dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran (AEOI), Ali Akbar Salehi

L’incontro è iniziato male. L’ottimismo di Salehi è stato contraddetto dal viceministro degli Esteri, Abbas Araghchi, che guida la delegazione iraniana a Vienna, il quale ha precisato duramente poco prima dell’inizio dei colloqui: “Non abbiamo alcun suggerimento parziale per l’America e non ne accetteremo nemmeno uno”.

Il viceministro degli Esteri, Abbas Araghchi

Ovvero l’Iran persegue un’unica soluzione globale e definitiva, non passando per lunghe e insidiose tappe successive.

La posizione iraniana è determinata fondamentalmente dalla sfiducia nelle intenzioni degli Stati Uniti e nella preoccupazione che gli USA cerchino di ottenere concessioni nucleari dall’Iran in cambio di un parziale sollievo delle pesanti sanzioni, piuttosto che la rimozione di tutti gli atti che ostacolano il rispetto del PACG.

Il chiarimento delle intenzioni americane

Durante lo svolgimento dei colloqui a Vienna, l’inviato speciale degli Stati Uniti in Iran, Rob Malley,  ha commentato che gli Stati Uniti “rimuoveranno quelle sanzioni che non sono inerenti all’accordo”.

Questo sembra aver stimolato efficacemente lo slancio diplomatico.

Ali Rabiee, portavoce del governo di Hassan Rouhani, Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, ha detto che la posizione dichiarata da Malley è “realistica e che induce speranza” e “può essere l’inizio della correzione del processo che ha portato la diplomazia a un punto morto”.

Poi ha aggiunto che l’Iran “accoglie con favore” questa politica degli Stati Uniti, ma sta “aspettando l’attuazione di questo approccio costruttivo”.

In realtà, la risposta di Rabiee rivela la principale preoccupazione dell’Iran per il ritorno ai suoi impegni in materia di PACG.

Mentre i leader iraniani, che si tratti del Presidente Hassan Rouhani o della Guida Suprema iraniana, Ali Khamenei, hanno costantemente espresso la disponibilità a ripristinare l’accordo, sono preoccupati per gli Stati Uniti, che formalmente rimangono, sì, al di fuori dell’accordo, ma cercando di utilizzare la leva nucleare iraniana senza, tuttavia, annullare le numerose sanzioni imposte dagli stessi USA all’Iran.

Il Presidente Hassan Rouhani

La chiave per il successo dei colloqui di Vienna è che gli Stati Uniti e l’Iran accettino un quadro esatto su come ciascuna parte tornerà alla conformità del PACG.

Per gli Stati Uniti, ciò significherà revocare la serie di sanzioni imposte all’Iran dalla precedente amministrazione.

La Casa Bianca di Trump non solo aveva reimpostato le sanzioni all’Iran, ma ne aveva determinato di altre più severe nei confronti del sistema bancario iraniano, delle transazioni economiche legate al petrolio, dei noli sulla navigazione, delle assicurazioni specie nei settori industriali e di altri importanti settori produttivi iraniani.

Va da sé che se questo complesso di sanzioni non venisse revocato, l’Iran non trarrebbe sensibili benefici economici, rendendo molto improbabile il successo di un possibile accordo.

Attualmente, il tavolo di discussione è ancora attivo.

Entrambe le parti stanno giungendo a un’intesa dettagliata su come ciascuna di esse tornerà alla piena aderenza al PACG per almeno un breve periodo di tempo.

L’Iran non vuole più entrare in un processo progressivo “step by step”, ancora vagamente definito, nel quale rischia di cedere i suoi interessi di contrattazione nucleare in cambio di un limitato sollievo dalle sanzioni statunitensi. In questo caso si tratterebbe di una soluzione troppo fragile e quindi di durata precaria.

L’Amministrazione USA non da sollievo all’Iran: Biden ha dichiarato che intende raggiungere un nuovo PACG “più lungo e più forte”, che, però, si estenda entrando anche nel merito del programma missilistico iraniano (recentemente annunciato e propagandato dalle autorità iraniane) e la sua influenza politica in quel vasto e altamente conflittuale teatro regionale, che comprende anche l’Afghanistan.

Il rifiuto di Biden di allentare qualsiasi pressione economica sull’Iran, anche per motivi umanitari (per aiutare l’Iran nella pandemia di COVID-19) ha ulteriormente accresciuto il sospetto di Khamenei che gli Stati Uniti cerchino di mantenere alcune delle sanzioni di Trump da usare come costrizione verso un accordo più ampio con l’Iran.

Gli ostacoli interni di entrambi

Sia a Washington che a Teheran l’accordo viennese ha probabilmente più detrattori che simpatizzanti.

Le ragioni sono diverse.

Nel caso degli Stati Uniti, l’ostilità, ormai storica, generata dalla Repubblica Islamica a causa del suo comportamento già dai primi giorni della sua esistenza, si è diffusa formando una corrente di pensiero con una forte influenza sui parlamentari del Congresso USA.

Oggi, questa schiera di deputati è più preoccupata di adattare la politica americana agli interessi del suo alleato più importante nell’area che all’interessi nazionali dell’America per il Medio Oriente, inteso nella sua globalità.

L’Amministrazione Trump è stata il paradigma di questa corrente di pensiero, pur stando  in sottofondo le relazioni tra Stati Uniti e Paesi arabi da una parte e i legittimi interessi economici e di sicurezza di Israele.

Nel caso iraniano, la questione nucleare riflette ormai da alcuni anni una tendenza fondamentale: la sostituzione dell’ideologia islamica – che come in tutte le rivoluzioni, inizialmente molto attraente ma di gran lunga di meno per le generazioni successive – con uno spiccato nazionalismo che ha sempre avuto un’enorme eco nell’opinione pubblica iraniana.

Da questo punto di vista, qualsiasi limitazione del programma nucleare – che nessuno in pubblico  qualifica ufficialmente di interesse militare – è considerata un’interferenza inaccettabile.

L’esempio nordcoreano non sfugge affatto a questa percezione.

La disaffezione verso la radicalità del regime islamico, specie fra le generazioni più giovani, si traduce con forza significativa ad ogni minuto del negoziato viennese nel timore di “andare troppo lontano” nelle proposte, sia in termini di revoca delle sanzioni che di ritorno agli impegni nucleari.

È convinzione diffusa che entrambi i governi si stiano logorando nella partecipando agli estenuanti incontri e colloqui diplomatici sul tavolo tecnico e che pertanto sarà necessario investire un notevole capitale umano e politico per renderli nuovamente fruttuosi.

A ciò si aggiunge la significativa asimmetria nelle due situazioni politiche interne: un presidente come Joe Biden che inizia a Washington (peraltro un democratico e quindi più sensibile a difendere diritti umani della cui violazione viene spesso accusato il regime degli ayatollah)  ed il Presidente iraniano, Hassan Rouhani, giunto alla fine del suo mandato istituzionale, a Teheran.

Il portavoce dell’Organizzazione per l’energia atomica iraniana Behrouz Kamalvandi

Il secondo ostacolo

Nessuno dubita sul ruolo condizionante i negoziati, esercitato  dalla straordinaria sfiducia e marcata diffidenza vigente tra Usa e Iran, che risale a decenni fa, e che l’amministrazione Trump ha notevolmente rafforzato.

Questa sfiducia segna profondamente il formato negoziale, l’incapacità per la parte iraniana di incontrare fisicamente la delegazione statunitense su ordine esplicito del leader supremo.

Da qui i colloqui di prossimità a Vienna, che però, in extremis, potrebbero segnare un possibile risultato positivo.

Le altre problematiche nell’area mediorientale

Non in ultimo, vige la straordinaria ostilità nei confronti dell’accordo di buona parte dei paesi arabi e, naturalmente, di Israele.

Ma anche qui qualcosa sta cambiando. Sono un importante esempio di ciò, le dichiarazioni di Rayd Krimly, direttore dell’analisi e della lungimiranza presso il Ministero degli Esteri saudita, che ora pone il ripristino dell’accordo come un primo passo e non come una politica governativa ufficiale.

È proprio vero che non ci sia nulla da negoziare?

Sia gli impegni nucleari che le sanzioni da revocare si riflettono espressamente nel PACG. Il ritorno all’accordo dovrebbe limitarsi a sollevare i verbali di quello già esistente.

Eppure, non è così facile.

Le maggiore difficoltà derivano dall’epoca nella quale è stato firmato l’accordo PACG (2015), dalle esperienze vissute dalle parti, molto negative nel caso iraniano, e dalle percezioni politiche che il tempo ha generato in un contesto di odiosa diffidenza tra i due.

Questa complessa situazione geopolitica è aggravata dal gennaio 2015 e si è tradotta in altri modi anche per la diversità dei protagonisti storici dell’accordo, avvicendatisi finora.

Per finire, è sicuramente complicato gestire un negoziato in cui il testo è già stato  concordato dalle parti e ora, essendo esattamente lo stesso, genera invece percezioni e decisioni molto diverse.

Ma è lì che siamo in questo momento.

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