Di Sara Palermo*
Torino. Il 20 novembre 1945 inizia il processo di Norimberga. La difesa più comune delle gerarchie naziste nei processi a loro carico risiedeva nel fatto che stessero solo “eseguendo degli ordini”.

Un’immagine del processo di Norimberga
Nel luglio 1961. lo psicologo Stanley Milgram dà il via ad uno degli esperimenti più controversi della storia ma che avrebbe mostrato il vero volto della cieca obbedienza: misurare la volontà dei partecipanti allo studio di obbedire ad un’autorità che gli ordinava di compiere atti in conflitto con la loro coscienza personale.

Un’immagine dell’esperimento dello psicologo Stanley Milgram
I partecipanti allo studio, isolati, sprovvisti di qualsiasi contatto con l’esterno, furono indotti a credere che avrebbero dovuto somministrare scosse elettriche a uno studente su precisa indicazione dell’autorità rappresentata dallo sperimentatore.
Queste scosse elettriche sarebbero aumentate gradualmente a livelli che sarebbero stati fatali (se fossero stati reali).
L’autorità contrapposta alla morale contro la violenza. Nonostante le urla delle vittime, l’autorità ha vinto il più delle volte.
Nell’agosto 1971, lo psicologo Philip Zimbardo entra nella storia della psicologia e non solo per le sue scoperte, ma per le drammatiche conseguenze del suo esperimento più famoso.

L’esperimento messo in atto dallo psicologo Philip Zimbardo
Una prigione finta nel seminterrato dell’edificio psicologia della Standford University e 24 studenti universitari pronti ad abitarla, alcuni come detenuti altri come guardie.
L’esperimento sarebbe dovuto durare 14 giorni, ma fu interrotto quasi immediatamente. Dopo appena due giorni i detenuti iniziarono a protestare per la loro condizione, si strapparono i vestiti e si rinchiusero nelle celle.
Le guardie iniziarono a praticare nei loro confronti forme di tortura fisica e psicologica sempre più violente.
Zimbardo, dopo un tentativo di evasione da parte dei detenuti represso con durezza, fu costretto a mettere fine al suo esperimento. I partecipanti cominciavano a mostrare seri segni di dissociazione dalla realtà, disturbi psicologici, fragilità e sadismo a seconda dei casi.
Dopo l’esperimento, Zimbardo definì questo comportamento come “effetto Lucifero”: date determinate circostanze sociali, ognuno di noi può commettere atti orribili, che normalmente non sarebbe in grado forse nemmeno di immaginare.
Questi sono gli avvenimenti che hanno portato gli psicologici sociali a stilare la ricetta per ottenere una cieca obbedienza all’autorità.
Quell’obbedienza che può spingere le persone a compiere qualsiasi azione, anche contro la propria volontà:
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Preparare qualche forma di contratto, scritto o orale che possa controllare il comportamento delle persone
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Dare alle persone ruoli di potere, che rimandino a valori positivi
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Creare delle regole che sembrino avere un senso prima della loro attuazione, ma che siano sufficientemente vaghe da poter essere cambiate all’occorrenza, insistendo sul fatto che regole sono regole e quindi vanno rispettate.
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Alterare la semantica delle azioni, sostituendo la realtà spiacevole con una nuova retorica
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Creare la possibilità di una responsabilità diluita
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Iniziare con azioni piccole, che sembrino quasi innocenti
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Gradualmente alzare l’asticella
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Gradualmente cambiare la natura dell’autorità. All’inizio una figura giusta e ragionevole che possa suscitare un’iniziale compliance.
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Permettere un dissenso verbale, insistendo sull’obbedienza comportamentale
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Offrire un’ideologia che possa giustificare l’utilizzo di qualunque mezzo per raggiungere quegli obiettivi che vengono considerati desiderabili, essenziali. Molte sono le ideologie possibili per una Nazione. Ad esempio, la sicurezza nazionale (la salute pubblica?). Quando i cittadini temono per la loro sicurezza nazionale, sono disposti a rinunciare alle loro libertà fondamentali in cambio di quella sicurezza che il governo promette loro.
Esperimenti di psicologia sociale: isolamento e tortura; carcere e modificazioni comportamentali; reclusione forzata e scarcerazione.
Alcune persone sperimentano la “sindrome del prigioniero”, ovvero condotte di evitamento nei confronti dell’ambiente esterno, proprio come durante il periodo di isolamento coatto, per continuare a vivere secondo i ritmi che si sono imposti per sopravvivere psicologicamente alla prigionia.
Cinque fasi distinguono la sindrome del prigioniero: incredulità, per quello che è accaduto; illusione di ottenere presto la liberazione; delusione per la mancata, immediata, liberazione da parte dell’autorità; impegno in lavoro fisico o mentale, per occupare il tempo; rassegnazione del proprio passato, per ricercare una serenità nella nuova quotidianità.
Nei giorni scorsi è iniziata la Fase 2. In questi giorni di post-lockdown in molti lamentano un senso di spaesamento e di disagio ad affrontare il mondo esterno.

Roma attende la Fase 2
Due soli mesi di distanziamento sociale e di obbligo di dimora (“reclusione”) sono stati sufficienti per indurre sentimenti contrastanti, di depersonalizzazione e di sconcerto di fronte alla nuova realtà.
Durante la quarantena tutti noi abbiamo attraversato le 5 fasi della “sindrome del prigioniero”. In tanti non provano il desiderio irrefrenabile di uscire.
La prospettiva di affrontare il nuovo mondo non è sempre allettante. Ad alimentarla la paura di contagio e la convinzione che più gente esce, più tardi finirà l’emergenza.
In realtà il rischio è che molte persone non vorranno più uscire. Eppure, non è di questo che discute prettamente la stampa nazionale.
In questi giorni agli onori della cronaca vi è la sindrome di Stoccolma.
Ma cos’è esattamente la sindrome di Stoccolma?
La sindrome di Stoccolma – che a volte viene anche chiamata “legame traumatico” o “legame terroristico” – è definibile come la tendenza psicologica di un ostaggio a legarsi, identificarsi o simpatizzare con il proprio rapitore.
In altre parole, essa si verifica quando qualcuno che è trattenuto contro la propria volontà inizia a provare sentimenti positivi nei confronti della persona (o del gruppo) che lo/la tiene prigioniero/a.
Rappresenta un paradosso del comportamento umano: l’ostaggio che ne è interessato, infatti, avverte simpatia, comprensione, empatia, fiducia, attaccamento e talvolta perfino amore nei confronti del suo rapitore, quando invece sarebbe più logico che provasse sentimenti come odio, avversione, antipatia, volontà di non assoggettarsi.
Sindrome di Stoccolma: Una storia moderna
A differenza della maggior parte delle sindromi, che vengono scoperte nel tempo man mano che la costellazione dei sintomi primari e secondari viene associata ad una eziopatogenesi comune, l’origine della Sindrome di Stoccolma può essere fatta risalire a un momento storico specifico.
Era il 23 agosto 1973. Jan-Erik Olsson, che era già in libertà vigilata per rapina, entra nella Kreditbanken, una banca della capitale svedese.

L’arresto di Jan-Erik Olsson
Apre il fuoco su due poliziotti prima di prendere in ostaggio quattro impiegati di banca. Come parte dell’elenco di richieste che presenta alle autorità, Olsson pretende che Clark Olofsson, uno dei suoi amici del carcere, gli venga portato.
Il dramma che si sta svolgendo cattura l’attenzione del mondo. La situazione degli ostaggi sarebbe durata sei giorni prima che la Polizia usasse i gas lacrimogeni per sottomettere Olsson e salvare gli ostaggi.
Tuttavia, nel corso di quelle 130 ore, succede qualcosa di imprevedibile: gli ostaggi iniziano a provare simpatia per il loro rapitore e ad aiutarlo.
Un ostaggio, Kristin Ehnmark, dichiara ai giornalisti che lei e i suoi compagni ostaggi avevano più paura della Polizia che di Olsson.
Tutti quanti testimoniano alle autorità di essere stati trattati gentilmente dal sequestratore “anche se li teneva prigionieri”.
Ad esempio, Olsson ha dato la giacca a Kristin quando ha iniziato a rabbrividire e. quando Elizabeth Oldgren – un altro ostaggio – è diventata claustrofobica, Olsson le ha permesso di camminare fuori dal caveau dove teneva tutti reclusi.
Il sostegno all’uomo da parte degli ostaggi continuò anche dopo che il loro calvario era finito, e alcuni di loro andarono persino a visitarlo in prigione!
Gli psichiatri che hanno curato le vittime hanno confrontato il loro comportamento con il Disturbo Post-Traumatico da Stress, tipico dei soldati di ritorno dalla guerra.
Ma quella diagnosi non era del tutto adeguata, soprattutto perché le vittime degli ostaggi di Kreditbanken si sentivano in debito emotivo con Olsson.
Sentivano che Olsson, non la Polizia, li aveva risparmiati dalla morte e gli erano grati per quanto fosse stato gentile con loro.
Questa singolare serie di manifestazioni comportamentali, che non ricade in nessun’altra accezione clinica, ha portato gli psichiatri a definire questo fenomeno come “sindrome di Stoccolma”.
Quali sono i fattori scatenanti la sindrome di Stoccolma?
La sindrome di Stoccolma si verifica nelle persone che sono state rapite o prese in ostaggio e trattenute contro la propria volontà.
Gli esperti ritengono che sia l’intensità dell’esperienza, non la durata, uno dei principali fattori che determinano se qualcuno sperimenterà la sindrome di Stoccolma.
Inoltre, ritengono che la sindrome di Stoccolma sia più probabile in situazioni in cui i rapitori non abusano fisicamente dei loro ostaggi, ma si affidano alla minaccia costante della violenza.
Questa può essere rivolta alla vittima, alle famiglie della vittima o persino ad altri ostaggi. Se le vittime credono che i propri rapitori porteranno avanti le minacce, ciò le renderà più mansuete e pronte a conformarsi alle regole imposte.
Al contempo, la mancanza di violenza diventa un segno di gentilezza. In altre parole, poiché un rapitore potrebbe ma non agisce le minacce, le vittime gradualmente iniziano a considerarlo come un segno che i rapitori si prendono cura di loro e sono “misericordiosi”.
Questa tensione emotiva crea la caratteristica distintiva della sindrome di Stoccolma, in cui le vittime iniziano a simpatizzare e/o a parteggiare/collaborare coi i sequestratori.
Tuttavia, in diversi casi è possibile rintracciare prove di manipolazione o abuso emotivo.
In questi casi, i rapitori usano tattiche comunicative volte a convincere le vittime a simpatizzare con loro e a soddisfare qualsiasi richiesta.
Ciò può essere indotto, ad esempio, convincendo le vittime che il mondo esterno è più pericoloso che stare con i propri rapitori, ovvero che nessuno si interessa loro e sta tentando di liberarli, ovvero che anche il rapitore è una vittima e che si sta affrontando la stessa battaglia.
Questo fa sentire le vittime come se non avessero nessuna possibilità di scelta, come se non fossero in grado di fuggire dalla situazione.
Motivo per cui le persone con la Sindrome di Stoccolma rimangono fedeli ai propri rapitori. Da un punto di vista psicologico, la sindrome di Stoccolma è puro istinto di sopravvivenza.
L’istinto di sopravvivenza è qualcosa di più delle reazioni di attacco e di fuga, specialmente quando ha a che vedere con traumi complessi: le vittime si attaccano ai rapitori come un modo per far fronte alla loro situazione.
Questo è anche un modo per le vittime di provare a far empatizzare i rapitori con loro, e quindi rendere meno probabile che vengano agite le minacce o che si venga eliminati.
In altre parole, costruire una connessione emotiva diventa il modo in cui una vittima può far fronte alla sua nuova realtà e, si spera, sopravvivere. L’intero processo è inconscio, non prevede alcuna scelta consapevole.
Quali sono i segni distintivi della sindrome di Stoccolma?
La sindrome di Stoccolma è più frequente nelle donne, nei bambini, nelle persone particolarmente devote a un certo culto, nei prigionieri di guerra e nei prigionieri dei campi di concentramento.
Secondo alcuni dati dell’FBI, fino all’8% circa dei casi di sequestro di persona potrebbe essere caratterizzato da tale fenomeno.
La Sindrome di Stoccolma è situazionale, il che significa che è qualcosa che una persona sviluppa in una certa serie di circostanze molto traumatiche (vale a dire, la vittima è stata presa in ostaggio da uno sconosciuto e viene tenuta prigioniera).
Quattro fattori possono portare a ritenere che sia in atto la sindrome di Stoccolma:
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Il sequestratore ha sentimenti positivi nei confronti della vittima
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La vittima prova sentimenti positivi nei confronti dell’aggressore
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La vittima prova sentimenti negativi verso la famiglia, gli amici, le autorità; al contempo non manifesta gratitudine nei confronti dei soccorritori
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La vittima difende, sostiene, aiuta l’aggressore.
La sindrome di Stoccolma è paragonabile alle relazioni di abuso domestiche (violenza famigliare)?
La risposta breve? No. Anche se molte delle cause e dei sintomi della sindrome di Stoccolma sembrano i segni distintivi di una relazione violenta, c’è una differenza significativa: la sindrome di Stoccolma si verifica solo in situazioni in cui una vittima non conosce il proprio rapitore.
In altre parole, per sviluppare la sindrome di Stoccolma, una vittima non deve aver mai incontrato il rapitore prima d’ora.
La sindrome di Stoccolma è una vera diagnosi?
Sebbene la sindrome di Stoccolma abbia catturato l’immaginazione pubblica, in molti ritengono che non debba essere classificato come disturbo. Al punto che non compare nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5, lo strumento diagnostico standard e riferimento internazionale per psichiatri e psicologi).
Questo per alcuni motivi. In primo luogo, i sintomi della sindrome di Stoccolma sono molto simili a quelli del legame traumatico (un rapporto fra due persone, in cui una di queste gode di una posizione di potere nei confronti dell’altra, la quale diviene vittima di atteggiamenti aggressivi e di altri tipi di violenza.) e del disturbo post traumatico da stress. In secondo luogo, la sindrome di Stoccolma è incredibilmente rara.
Ciò significa che ogni caso è unico ed è difficile elaborare criteri diagnostici univoci. Namnyak e collaboratori (Acta Psychiatr Scand 2008), analizzando i casi riportati dai mass media, arrivano ad individuare quattro caratteristiche comuni nelle vittime della sindrome di Stoccolma: ogni vittima ha subito minacce dirette; è stata tenuta in isolamento; ha avuto l’opportunità di fuggire durante il periodo di prigionia, ma non è riuscita a sfruttarla e ha mostrato simpatia per i suoi rapitori post-cattività.
Ciò suggerisce che esiste un modello identificabile di esperienza e comportamento tra le vittime descritte dai media. Infine, la sindrome di Stoccolma è una sindrome, non un disturbo mentale. Ciò significa che si manifesta come una costellazione di sintomi senza cause biologiche o mentali. L’insorgenza della sindrome di Stoccolma è situazionale, non patologica.
La Sindrome di Stoccolma è una vera diagnosi? Sì e no.
Sebbene la Sindrome di Stoccolma non sia diagnosi riconosciuta di una malattia o un disturbo mentale, è un modo clinico per spiegare manifestazioni comportamentali rare e peculiari che alcune vittime di rapimento esibiscono. Come ha suggerito Namnyak: “Etichettare le vittime di rapimento e gli ostaggi con una sindrome psichiatrica rende la loro storia più comprensibile e favorisce la circolazione sui media”.
Il mistero delle origini delle malattie psichiatriche ha un suo potente fascino per la società; la psichiatria non tratta valori e definizioni assoluti, è facile per i media avere mano libera nell’uso di presunti termini medici, come la sindrome di Stoccolma che non ha ancora ricevuto una validazione completa e non dispone di chiari criteri diagnostici.
*M.Sc. in Clinical Psychology and Ph.D. in Experimental Neuroscience
PostDoctoral Research Fellow
Assistant Specialty Chief Editor for Frontiers in Psychology – Neuropsychology
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