Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. Di fronte alla guerra, l’essere umano si scinde: una parte progetta algoritmi di targeting, l’altra piange sulle immagini di bambini insanguinati tra le macerie.
Una parte lancia missili, l’altra condivide appelli sui social.
L’uomo tecnico e l’uomo empatico convivono, ma non collaborano.
Uno decide, l’altro giustifica. E in mezzo, restano i corpi.
Corpi civili, inerti, che non gridano più, ma che la comunicazione fa parlare per loro: a favore di una parte, contro un’altra, sempre sacrificabili.
Le vittime civili non esistono come soggetti. Esistono come linguaggio. In un’epoca in cui la guerra è sempre più governata da software, visori satellitari, droni armati e sistemi di sorveglianza predittiva, la morte dei civili continua a rappresentare il paradosso supremo: evitabile in teoria, accettabile in pratica.
L’idea stessa di “danno collaterale” nasce per rendere il sacrificio di vite innocenti compatibile con un discorso strategico.
Si parla di target ad alta densità civile, di precisione chirurgica, di valutazioni proporzionate.
Eppure, nella realtà, il margine di errore resta umano, perché umane sono le scelte di ciò che si vuole vedere e ciò che si decide di ignorare.

Ieri, a Khan Yunis, nel Sud della Striscia di Gaza, almeno 59 civili palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano di ricevere aiuti umanitari.
Secondo testimoni e fonti ospedaliere, i colpi provenivano da droni e carri armati israeliani.
Centinaia di persone si erano radunate in una zona indicata come punto di distribuzione per cibo e medicine, ma l’operazione è stata trasformata in un massacro. I corpi sono arrivati all’ospedale Nasser dilaniati, molti feriti hanno subito amputazioni, in condizioni sanitarie al limite del collasso.
Le autorità israeliane hanno aperto un’indagine, ma intanto, nel giro di poche ore, la narrazione ufficiale si è ridotta a una frase di prassi: “L’IDF sta verificando l’accaduto”.
Nient’altro. Nessuna responsabilità chiara, nessun riconoscimento pubblico, nessun volto.
Questo episodio non è isolato. Rientra in una serie di attacchi contro punti di raccolta per aiuti umanitari iniziati alla fine di maggio, che hanno causato centinaia di vittime.
Una guerra condotta anche contro chi cerca semplicemente di sopravvivere. Eppure, fuori dalla Striscia, nei canali della diplomazia e dell’informazione internazionale, il lessico resta sobrio, prudente, sterile.
Si parla di “situazione complessa”, di “operazioni in corso”, di “contesto multilivello”.
Intanto, le immagini – quando trapelano – mostrano volti bruciati, arti staccati, bambini schiacciati sotto i sacchi di farina.
Quando un raid colpisce un edificio residenziale o un punto di distribuzione alimentare, il linguaggio ufficiale è già pronto: l’obiettivo era un leader, l’intelligence era precisa, la minaccia era concreta. Se la folla colpita stava aspettando acqua e pane, è un dettaglio.
Se c’erano donne incinte, bambini, anziani, si tratta di “effetti non previsti”.

L’evento viene assorbito in un comunicato e la memoria pubblica lo digerisce in ore, forse minuti.
Il civile ucciso è una variabile, mai la notizia principale.
La guerra oggi si vince due volte: sul terreno e nella narrazione. Ogni guerra, in particolare quelle asimmetriche e ad alta densità civile come quella a Gaza, produce due tipi di morti: quelli che cadono e quelli che non vengono raccontati. I primi muoiono sotto le bombe, i secondi sotto il peso dell’indifferenza.
Le guerre moderne si nutrono di questi corpi senza storia, usati come moneta geopolitica per giustificare l’uso della forza, per sostenere la supremazia morale di una parte sull’altra. Ogni parte rivendica la propria umanità mettendo in mostra le vittime altrui. Nel linguaggio delle operazioni militari si parla di “minimizzare i danni collaterali”, ma nel concreto questo significa solo nascondere meglio le prove. I media internazionali selezionano ciò che può essere mostrato senza destabilizzare l’equilibrio del consenso. La narrazione è addomesticata, ridotta, filtrata. I volti non compaiono, i nomi non restano.
I civili di Gaza oggi hanno perso tutto: casa, famiglia, dignità, ma soprattutto, diritto all’attenzione.

Gaza non è sola. Sarebbe più comodo pensarlo, ridurre tutto a un’eccezione, a un punto di crisi circoscritto. Ma la realtà è molto più disturbante. La mappa globale dei conflitti è una costellazione di carne e silenzio, di polvere e cifre, dove i civili non sono che variabili di potere, strumenti narrativi, corpi utili a costruire consenso o giustificare aggressioni. Ogni angolo del mondo ha i suoi morti muti, i suoi bambini cancellati dalla carta geografica, le sue madri che diventano numeri prima ancora che tombe.
Nel Sudan, la guerra tra l’Esercito e le forze paramilitari ha già strappato la vita a oltre 100 mila persone.

I civili fuggono in massa, attraversano confini invisibili per salvarsi da una violenza che non distingue più tra miliziano e contadino, tra guerrigliero e scolara. Ma di loro non resta che una didascalia nei rapporti ONU. I corpi sudanesi non fanno notizia: non si prestano a schieramenti, non polarizzano le timeline.
Esistono solo per chi li seppellisce.
Nel Congo orientale, lo sterminio è endemico. Le milizie attaccano i villaggi, decapitano, stuprano, reclutano bambini. Nessuno si indigna più: è Africa, è lontano, è “complicato”. Così ci si abitua al genocidio spezzettato, alla tragedia cronica. I corpi dei congolesi non hanno voce.
Non sono utili a nessuno, se non a chi ha interesse che restino invisibili. Nel Myanmar, il regime schiaccia le minoranze etniche nel buio dell’indifferenza globale. La giunta militare reprime, bombarda, tortura. E il mondo? Guarda altrove, perché l’economia non si disturba per una manciata di civili asiatici.
I corpi vengono raccolti e bruciati. L’opinione pubblica internazionale non li registra: non ci sono immagini, quindi non esistono. In Iran, ogni vittima diventa propaganda. Ogni donna uccisa, ogni ragazza imprigionata, ogni manifestante giustiziato diventa simbolo.
Ma anche in questo caso la morte civile è manipolata: in patria è martirio, all’estero è notizia da monetizzare.
Gli attacchi israeliani e le risposte iraniane si rincorrono tra cieli saturi di retorica, mentre le vittime reali spariscono dietro una cortina di dichiarazioni ufficiali. In Yemen, la guerra si consuma tra le ombre.
L’Arabia Saudita bombarda con aerei occidentali, gli Houthi rispondono con missili. I bambini muoiono di fame, le madri abortiscono per la paura, gli ospedali collassano.

Ma il mondo diplomatico si limita a esprimere “profonda preoccupazione”.
Il corpo yemenita non è strategico: si lascia marcire in silenzio, fino a scomparire.
In Ucraina, la guerra ha un marketing più sofisticato. I civili ucraini vengono celebrati come eroi della resistenza, le vittime russe demonizzate come colpevoli per procura. Ogni funerale è un’opportunità narrativa. Ma il sangue resta sangue, anche quando scorre sotto le bandiere “giuste”.
Anche qui, la morte civile serve a giustificare, a motivare, a raccogliere fondi e supporto. In Siria, mezzo milione di morti e la dissoluzione di un’intera nazione non hanno insegnato nulla. Ogni fazione ha usato i civili come scudo, come trofeo, come argomento. E noi abbiamo accettato la complessità come scusa per la paralisi.
Ogni bambino siriano che non ha conosciuto la pace è un atto d’accusa verso un’umanità selettiva. In Afghanistan, la guerra è finita solo per chi non ci vive. I droni continuano a colpire “sospetti”, i terroristi esplodono tra i mercati, le bambine restano escluse dalla scuola. Ma il mondo ha voltato pagina.

Il corpo afghano non serve più: non è utile né alla propaganda occidentale né a quella fondamentalista.
È solo polvere che non conviene sollevare. In Etiopia, nella regione del Tigray, le fosse comuni si moltiplicano, ma i satelliti internazionali sembrano spenti. Le potenze regionali si spartiscono la morte tra alleanze, gasdotti e visibilità diplomatica.

I civili, sepolti tra montagne e silenzi, non entrano mai nei summit.
Ed eccoci infine di nuovo in Palestina, dove la morte di un bambino può essere trasformata in uno strumento di guerra mediatica, in una dichiarazione ONU, in una giustificazione per l’uso della forza.
A seconda di chi racconta, il bambino è un martire, un danno collaterale, un errore di puntamento, una “tragedia inevitabile”. Nessuno si chiede più chi fosse davvero.
Questa è la mappa del nostro tempo: non una cartina geografica, ma un archivio di corpi strumentalizzati, uccisi due volte – prima dalla violenza, poi dalla narrazione. I conflitti oggi non si misurano in chilometri di trincea, ma in chilobyte di contenuto. Il controllo del racconto vale più del controllo del territorio.
Ogni conflitto che infuria nel silenzio – o nella sovrabbondanza di narrazione – ci costringe a un’ammissione scomoda: la vita umana ha un valore variabile. Cambia a seconda della latitudine, della bandiera, della lingua, della diretta social. E quando un corpo non serve più alla narrazione dominante, semplicemente scompare.
Non è più utile alla diplomazia, alla stampa, alla pietà, ignorati dai media, esclusi dalle agende geopolitiche perché troppo lontani, troppo complicati, troppo africani. L’Occidente non piange chi non conosce. Nel teatro bellico del XXI secolo, la tecnologia consente di colpire senza vedere.
Ma l’empatia, se sopravvive, lo fa solo a intermittenza.
La propaganda, invece, vede sempre benissimo: sa esattamente cosa mostrare e cosa oscurare. Le vittime civili non sono semplicemente danni collaterali: sono specchi, e in quegli specchi si riflette la disumanizzazione accettata, razionalizzata, interiorizzata. E allora, cosa chiedersi?
Forse questo: quanti corpi devono ancora essere usati, ignorati, riscritti, per farci ammettere che la guerra moderna non è solo una questione di geopolitica, ma di pornografia del dolore?
E quanti di questi corpi dobbiamo vedere – davvero vedere – prima di tornare a chiamarli con il loro nome: esseri umani?
La domanda che resta, oggi più che mai, non è perché muoiono. La domanda è: quanto siamo disposti a farli morire pur di mantenere intatto il nostro racconto?*
Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
©RIPRODUZIONE RISERVATA

