Di Pierpaolo Piras
Londra. Dopo le votazioni interne di martedì scorso, il Partito Conservatore britannico (Tory) ha deciso di uscire dal suo attuale stato precario eleggendo al suo vertice il deputato Boris Johnson.
L’indomani si è recato in udienza a Buckingham Palace, per ricevere dalla regina Elisabetta II l’investitura a formare il governo del Paese.
Com’è noto, nel Regno Unito, il popolo elegge un partito, non un primo ministro specifico.
La forza politica che ha ottenuto la maggioranza dei voti ha, poi, l’incarico di designare il proprio candidato alla occupazione del n.10 di Downing Street in Londra.
Il problema più acuto che lo occuperà nei prossimi tre mesi sarà quello della “Brexit”.
In queste ultime settimane, probabilmente per non perdere consensi rispetto al suo principale oppositore interno, Jeremy Hunt, l’ex sindaco di Londra si è impegnato a rispettare, per la “Brexit” la scadenza perentoria del 31 ottobre prossimo, secondo quanto concordato con l’Unione Europea.
“Do or Die” (Fai o muori), ha detto.
Al di là delle parole, sempre su di tono in qualsivoglia campagna elettorale, il neopremier dovrà tener conto che, alla Camera del Comuni, la sua maggioranza è, però, risicata e resa insicura dal perdurante pericolo di opposizioni spurie, come quelle patite dalla precedente primo ministro, Theresa May.
Il neo leader britannico si è perentoriamente espresso per una “Brexit” a qualsiasi costo anche in assenza di un accordo con l’Unione Europea, pur consapevole dei sicuri danni che il “no deal” arrecherà alla economia nazionale, ai porti marittimi ed aeroporti, oltre alle irrisolvibili complicazioni capaci di compromettere i prodotti di filiera come gli alimentari ed i medicinali.
La vera “patata bollente” sarà la soluzione alla criticità rappresentata dalla frontiera tra le due Irlande, del Sud e del Nord, che, in caso di “Brexit no deal”, vedrebbe il sicuro cambiamento dei regimi doganali e regolamentari e quindi il ripristino obbligatorio, ma conflittuale, dei controlli fisici a persone e merci.
Tutti sanno che il ripristino di un confine fisico rianimerebbe quella violenza sedata solo dagli Accordi del Venerdì Santo del 1996.
D’altra parte, Boris Johnson, sfruttando la propria agilità intellettuale ed intuito politico, sa che se la fuoriuscita britannica non avvenisse il prossimo 31 ottobre, la sua carriera politica potrebbe sfaldarsi rapidamente.
Nel suo discorso d’insediamento è stato imprudente nel dichiarare “deceduto” l’Accordo di Recesso (WA), già negoziato tra il Governo May e l’Unione Europea.
Il WA comprende sia le clausole a tutela dei 3,2 milioni di cittadini europei residenti in Gran Bretagna che la cifra stimata in 32 miliardi di sterline che il Regno Unito dovrà versare alla Unione europea per la sua dipartita.
Il premier inglese dovrà decidere come rispondere al sequestro della petroliera con bandiera britannica sequestrata dai militari iraniani nello stretto di Hormuz.
Le “relazioni speciali” che storicamente caratterizzano e distinguono i rapporti tra Regno Unito ed USA, non subiranno cambiamenti.
Anzi, Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, auspica ad alta voce la possibilità della “Brexit” inglese per le particolari e vantaggiose possibilità commerciali e nelle finanze, tra le due nazioni, senza dover renderne conto alla Unione Europea.
Di fronte a queste prospettive, Bruxelles chiude i ranghi e risponde prontamente che in caso di recesso senza accordo non avvierà alcun tipo di negoziato fino a quando non sarà risolto il caso delle frontiere irlandesi.
Da parte sua, la Camera dei Comuni, per ora, non commenta ma si sta preparando ad evitare una “Brexit” selvaggia contro la quale ha già espresso la propria opinione, in gran parte contraria.
Nei prossimi mesi Boris Johnson, uscendo dalle chiacchiere da comizio e dalle sue eccentricità, dovrà redigere il reale bilancio delle sue azioni.
E dimostrare tutta la sua nota abilità politico-diplomatica, nel più proficuo interesse dei suoi connazionali e della Europa.
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