Riesplode la guerra del Nagorno-Karabakh. La miopia della politica internazionale che non riesce a far cessare il conflitto

Di Andrea Gaspardo

Yerevan. Un inusuale risalto dei quotidiani e delle Agenzie di stampa online è stato dato, nei giorni scorsi, agli ultimi scontri avvenuti lungo la “Linea di Contatto” che da 1994 separa le Forze Armate armene e nagornine da  quelle azere.

Il conflitto tra armeni ed azeri si trascina ormai da diversi secoli e ha cambiato i suoi connotati a seconda delle stagioni politiche e delle entità che si sono contese il controllo del Caucaso, spesse volte utilizzando la contesa armeno-azera, come pretesto e foglia di fico ad un tempo, per giustificare le proprie macchinazioni. Che si trattasse di russi, turchi o persiani, il Caucaso faceva gola a tutti i contendenti ed i conflitti locali dovevano necessariamente essere strumentalizzati ad uso e consumo dell’egemone di turno.

La mappa del conflitto

L’attuale fase “calda” del conflitto armeno-azero trova principale (ma non unica) giustificazione nel possesso del territorio del Nagorno-Karabakh (Artsakh), territorio in larga parte montuoso e caratterizzato da paesaggi mozzafiato, situato sulle estreme propaggini meridionali del Caucaso. E’ noto alle popolazioni turcofone con il nomignolo di “Giardino Nero” (a causa delle sue fitte foreste, così diverse dalle steppe sconfinate caratterizzanti le terre dell’Asia Centrale da dove arrivarono le orde genitrici dei turchi moderni).

Il primo mito da sfatare quando si parla del Nagorno-Karabakh (Artsakh) è che il suddetto territorio sia stato invaso dagli Armeni e che sia attualmente “occupato” dalle Forze militari della Repubblica d’Armenia. Questa è la versione da sempre data dalle autorità di Baku.

La popolazione del Nagorno-Karabakh (Artsakh) è, infatti, sempre stata costituita da armeni per la sua assoluta maggioranza sin dall’origine della scrittura. Anzi, questa regione rappresenta il cuore stesso del territorio d’origine del popolo e della cultura armena, insieme alla finitima provincia di Syunik (facente parte della Repubblica d’Armenia) e alla Repubblica Autonoma del Naxçivan (quest’ultima ancora parte dell’Azerbaigian e completamente “ripulita” in anni recenti sia della sua popolazione armena che dei monumenti monumenti da essa costruiti nel corso del tempo).

Nel 1988, sulla scia degli sconvolgimenti che interessarono l’Unione Sovietica nel periodo della perestroika e che avrebbero di lì a poco portato alla disintegrazione stessa dell’impero, gli armeni nagornini dichiararono la secessione dalla Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian (dalla quale si erano sempre sentiti a ragione oppressi) e la riunificazione con la Repubblica Sovietica dell’Armenia.

La successiva “Guerra del Nagorno-Karabakh” durò fino al 1994 risolvendosi nel collasso delle capacità militari dell’Azerbaigian (che attraversò inoltre un periodo di torbidi politici interni) ed alla firma del Protocollo di Bishkek che, seppure non riconoscendo né l’indipendenza del Nagorno-Karabakh (Artsakh) né la sua riunificazione con la Repubblica d’Armenia, sancì altresì il controllo congiunto di armeni ed armeni nagornini su gran parte del Nagorno-Karabakh (Artsakh) e dei territori azeri confinanti collettivamente noti come “zone di sicurezza”.

Lungi dal tramutarsi in un trattato di pace onnicomprensivo, il Protocollo di Bishkek fu un semplice momento di passaggio tra la “guerra vera” e “l’intifada della guerra”. Tra il 1994 ed oggi, le provocazioni reciproche hanno continuato a mietere morti da entrambi i lati dato che non é passato un singolo giorno senza che avvenissero incursioni di commandos, combattimenti d’artiglieria, azioni di cecchinaggio e attacchi di aerei o elicotteri mentre l’azione diplomatica si riduceva ad una situazione di effettivo stallo.

Dal 2008, le provocazioni hanno avuto un’evoluzione persino peggiorativa, mentre la retorica incendiaria utilizzata soprattutto dall’Azerbaigian sul fronte interno sta solamente facendo aumentare l’odio verso il nemico. L’escalation peggiore si é avuta nell’aprile 2016 quando il Nagorno-Karabakh (Artsakh) é stato teatro di una nuova guerra (la cosiddetta “Guerra dei Quattro Giorni”) che ha mietuto per lo meno diverse centinaia di morti (anche se il segreto militare e l’ampio ricorso alla disinformazione, soprattutto da parte azera, non permettono di apprezzare appieno la gravità dell’evento).

L’estate di quest’anno ha comportato l’ennesima recrudescenza negli scontri di confine, sfociati nella morte di due civili dell’Azerbaigian (una donna di 52 anni e la sua nipotina di 2 anni) avvenuta il 4 luglio nel villaggio di Alkhanli, nel distretto di Fizuli. Tale sfortunato evento, di per sé tragico, é stato rapidamente strumentalizzato dalle alte sfere di Baku ed abilmente “venduto” a livello internazionale tanto da provocare una serie di durissime prese di posizione da parte di varie istituzioni nazionali ed internazionali.

Soldati armeni

Interessante la condanna, che potremmo definire “multipartisan”, da parte del Parlamento italiano la cui dichiarazione finale, però, una volta letta, fa sorgere il legittimo sospetto che i nostri eletti siano quanto meno scarsamente avvezzi all’analisi degli equilibrismi caucasici quando non totalmente male informati riguardo alla reale situazione reale sul terreno, come quando richiedono “l’immediato ritiro delle forze armene dalla zona contesa”. Bisognerebbe avere la grazia di spiegare ai parlamentari che il Nagorno-Karabakh (Artsakh) non é un gigantesco “campo militare” ma uno Stato a tutti gli effetti abitato da 150 mila -172 mila persone in larghissima parte “indigene” e discendenti di genti che hanno abitato quel territorio per migliaia di anni.

E’ difficile che tutta questa gente accetti di andarsene “con il sorriso sulle labbra”, soprattutto dopo che, tra il 1988 ed il 1994, ha combattuto una sanguinosissima e vittoriosa guerra per la propria salvezza ed autodeterminazione (la quale, per altro, è riconosciuta sia dal Protocollo di Bishkek che dai successivi Principi di Madrid).

Tornando al terribile episodio della bambina e della nonna azere rimaste vittime del fuoco dell’artiglieria armena nel villaggio di Alkhanli, sebbene le autorità del Nagorno-Karabakh (Artsakh) abbiano confermato l’accaduto, hanno precisato che la responsabilità della morte delle due donne ricade sulla scellerata decisione di Baku di piazzare i propri pezzi d’artiglieria in mezzo alle zone abitate-

Tale affermazione impone di prestare attenzione al diverso valore che i contendenti attribuiscono alla vita dei civili. Mentre, infatti, lungo tutto il versante armeno della linea del fronte sia le autorità di Yerevan che di Stepanakert (capitale nagornina) hanno imposto una fascia “militarizzata” nella quale, in virtù dello stato di guerra, i civili non hanno possibilità di stanziamento e residenza, dalla parte azera non si é mai provveduto a nulla di simile, anzi, spesso e volentieri trincee, nidi di mitragliatrici, posizioni d’artiglieria e bunker sono situati proprio attorno ai centri abitati in modo da utilizzarne gli abitanti come scudi umani.

un carro armato impegnato nel conflitto

Nonostante l’ampio utilizzo da parte delle forze armene di UAV, radar di rilevamento terrestre, sistemi di scoperta all’infrarosso e operatori delle forze speciali in funzione di ricognitori per rendere il fuoco di contro-batteria il più preciso possibile, i danni collaterali con conseguenti perdite civili sono inevitabili, come si é visto il 4 luglio. Dopo aver colpito per l’intera giornata le posizioni armene mediante l’utilizzo di fucili e cannoni senza rinculo e mortai da 60 e 82 millimetri, in serata gli azeri hanno pensato di alzare la posta del gioco schierando i lanciarazzi campali multitubo TR-107 di produzione turca (a loro volta ampiamente ispirati ai PLA 107 di fabbricazione cinese). Ciò ha provocato l’immediato fuoco di contro-batteria armeno che ha portato alla distruzione delle posizioni di lancio ma anche alle inevitabili perdite civili delle quali ci riferisce la cronaca.

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Tuttavia, ad un lettore attento, tali accadimenti suonano assolutamente famigliari. Nel corso della “Guerra dei Quattro Giorni” dell’aprile 2016, sia armeni che azeri lamentarono un certo numero di perdite civili. Da investigazioni fatte sul terreno da parte di Murar Gazdiev, corrispondente di RT, mentre i morti ed i feriti dell’Azerbaigian erano stati colpiti dal fuoco armeno quando nei loro centri abitati era stata segnalata una massiccia presenza di truppe, dall’altra parte, le perdite di civili armeni erano tutte incorse quando il fuoco azero aveva colpito le loro case situate a chilometri di distanza dalla linea del fronte e senza che vi fosse la benché minima presenza di forze ostili tale da giustificare un sostenuto fuoco d’artiglieria. Ogni ulteriore commento risulta superfluo.

Stiamo assistendo ad una recrudescenza del mai sopito conflitto per il dominio del Caucaso meridionale. Le avvisaglie di questa escalation avrebbero dovuto mobilitare la comunità internazionale già una decina di anni fa, ma la miopia dei decisori politici ed il disinteresse generale (quando non la cosciente spregiudicatezza) hanno fatto sì che la situazione continuasse a degenerare fino a quello che appare sempre più come un punto di non ritorno, soprattutto ora che nella partita caucasica ha deciso di entrare in veste di giocatore titolare il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, fermamente intenzionato a rivendicare anche in quelle lande uno spazio di espansione geopolitica per la Turchia. Un altro elemento da non sottovalutare é la perdurante crisi dei prezzi degli idrocarburi che incide molto negativamente sul bilancio di Baku e spinge Ilham Aliyev ad usare il conflitto senza fine come una valvola di sfogo per dirigere il malcontento interno verso gli armeni. Dall’altra parte, seppur più piccola, povera e caratterizzata dalle stesse contraddizioni presenti in tutte le società ex-sovietiche, l’Armenia ha incominciato già da anni un lento ma progressivo processo di trasformazione interna sull’esempio di quello attuato da Israele negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.

Inoltre, sebbene corruzione e nepotismo siano imperanti, la società armena é incomparabilmente più democratica di quella azera, le elezioni politiche sono combattute e partecipate, le minoranze etnoreligiose sono riconosciute e protette (e non sottoposte ad un’opera di progressiva assimilazione ed “estinzione” come avviene in Azerbaigian) ed il popolo in generale é attore comprimario e non mero “esecutore” degli ordini dell’élite.

Da non sottovalutare poi il ruolo della potentissima Chiesa armena e della Diaspora sia come “moltiplicatori di potenza” ed “agenti di influenza” sul fronte estero che come “elementi democratizzatori” e “vettori d’innovazione” sul fronte interno.

Tenendo conto di tutto ciò, si può ben capire come, in un’ottica di lungo periodo, la “strategia difensiva” portata avanti da Yerevan e Stepanakert abbia maggiori possibilità di risultare vincente mentre il fallimento della “strategia offensiva” di Baku porterà inevitabilmente a galla le contraddizioni interne del regime proprio come avvenne al termine della prima “Guerra del Nagorno-Karabakh” (1988-1994).

Prima che si giunga ad un tale esito, però, sarebbe vivamente consigliato che la comunità internazionale prendesse atto di come, ad ogni nuova provocazione ed a ogni nuova vittima lungo la “Linea di Contatto”, l’attuale status quo in Nagorno-Karabakh sia assolutamente insostenibile.

PER APPROFONDIRE:

https://youtu.be/xWT-zwfn-j0

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