Rohingya, aiuti al Bangladesh per sostenere questo popolo. Si rischia una nuova pulizia etnica

Di Vincenzo Santo*

In Myanmar, politica e potere scaturiscono dalla etnicità…ma la religione come sempre ci mette lo zampino. E il Paese non è estraneo alla controguerriglia. Molte minoranze, che rappresentano il 30% della popolazione, costituita per il resto dalla maggioranza Bamar, erano state marginalizzate nei quasi 50 anni di regime militare e avevano formato proprie unità armate.

Gruppi che, dalla caduta della giunta, hanno cercato di trasformare la propria forza militare in potere politico. Nella popolazione sono riconosciute otto razze nazionali etniche e queste divise in 135 gruppi etnici.

I Rohingya non sono tra quelli riconosciuti, in quanto ritenuti immigrati irregolari dal Bangladesh(1). I Rohingya sono in effetti originari del Bengala, giunti inizialmente come commercianti durante il periodo pre-coloniale e come lavoratori sotto l’impero britannico. La loro affinità con i vicini musulmani bengalesi spaventa appunto i buddisti in genere, soprattutto quelli del Rakhine. I musulmani rappresentano solo il 4% della popolazione con la maggiore rappresentanza nello Stato di Rakhine, dove tale percentuale sale fino al 30% circa. Il Rakhine venne incorporato nella valle dell’Irrawaddy, quindi in quello che sarebbe divenuto l’odierno Myanmar, solo nel 1784. Sino ad allora aveva vissuto sonni tranquilli. E per i buddisti, esso rappresenta l’unica diga contro le infiltrazioni non buddiste della piana del Gange.

Tuttavia i Rohingya, mancando dell’ufficialità di gruppo etnico riconosciuto, non sono mai riusciti a sostenere, nel tempo, una sostanziale militanza armata propria. Pur tuttavia, in qualche circostanza ci hanno provato. Dapprima, al termine del secondo conflitto mondiale, ricercando un’annessione all’allora Pakistan Orientale (oggi Bangladesh), successivamente, negli anni ’70, dopo la guerra del Bangladesh per l’indipendenza, come movimento islamista, azzerato però dall’Esercito birmano con l’operazione King Dragon nel 1978. Infine, negli anni ’90, dando vita al Rohingya Patriotic Front e al successivo Rohingya Solidarity Organization (RSO). Sebbene avesse ottenuto qualche notorietà, essendo stato addestrato anche dai talebani, quest’ultimo gruppo scomparve ai primi anni del 2000.

Ora ci risiamo. Un nuovo gruppo è comparso. È quel gruppo armato che in ottobre e novembre 2016, nonché nel recentissimo agosto, ha condotto molti attacchi, sorprendendo le Forze di Sicurezza. Il nome originario di questo gruppo è Harakah al-Yakin (Movimento della Fede) trasformatosi poi in Arakan(2) Rohingya Salvation Army (ARSA).

A questi attacchi le Forze di Sicurezza hanno reagito con la medesima strategia, e durezza, delle altre volte, quella usata per decenni contro altre guerriglie. Il Tatmadaw, l’Esercito che ormai da anni si confronta con gli indipendentisti lungo le zone di confine, dove sono concentrate le etnie minoritarie, ha messo in atto, infatti, la strategia dei quattro tagli, volta a tagliare i viveri, i finanziamenti, l’intelligence e le possibilità di reclutamento da parte delle milizie armate.

L’ARSA, sull’onda del fatto che l’islamismo nel sudest asiatico è ben radicato nelle radici etniche, ha sposato “l’approccio etnico”, identificando i suoi obiettivi in termini di diritti da riconoscere al popolo Rahingya, piuttosto che con una narrativa che possa essere facilmente ritenuta islamista o persino jihadista. Per ora. Il gruppo ad ogni modo può vantare un ampio appoggio internazionale grazie al gran numero di espatriati che vivono all’estero. E, a quanto pare, è stato proprio un nucleo di questi espatriati in Arabia Saudita che ha fondato il movimento; una ventina di essi esperti in guerriglia, con al seguito qualche centinaia di reclute locali. Non solo, pare abbia connessioni persino con il pakistano Lashkar-e-Taiba, come il suo predecessore RSO. Alcuni dei suoi membri, infine, potrebbero aver ricevuto addestramento da personale afgano e pakistano se non addirittura che aver combattuto in Afghanistan.

Pertanto, stiamo parlando di una vera e propria struttura di insurgents, terroristi che operano con tecniche della guerriglia.

Dallo scorso 25 agosto sembra che siano stati circa 420 mila i Rohingya rifugiatisi in Bangladesh. Naturalmente, le reazioni del Governo del Myanmar non potevano che essere definite sproporzionate. E commenti al riguardo non sono mancati dall’Arabia Saudita, da Erdogan e dall’Iran. Persino in Cecenia, la comunità musulmana, che ovunque nel mondo fa fatica nel condannare i massacri compiuti dai jihadisti, ha trovato tempo, luogo (a Grozny) e tanta gente (pare 30 mila) per manifestare la propria solidarietà ai Rohingya. Pazzesco!

Ma chi stabilisce la giusta proporzione nelle cose di guerra? E in una guerra che ha tutti i giusti connotati di una guerra civile, quindi tra le più crudeli? È una domanda alla quale nessuno, lo sfido, saprà mai dare una risposta sensata, né mai qualcuno nel passato l’ha mai fornita. A meno che non sia uscito vincitore della partita. La cosa più incredibile è che c’è sempre un osservatore, normalmente di qualche organizzazione non governativa, in grado di fornire numeri e statistiche sulle perdite, sui rifugiati, sui morti, sulle case bruciate, sulla gente che soffre, sui bambini che piangono e sul fatto che metà dei rifugiati siano bambini.

Ovviamente esistono immagini satellitari che mostrano decine di villaggi bruciati. Nei numerosi documenti che ho esaminato, non mi è capitato di vederne una. Avesse importanza, comunque! Come si vuole combattere una guerra di questo genere, soprattutto tenendo bene in mente tutte le analoghe esperienze del passato? Come si può distinguere un guerrigliero da un civile (forse) inerme? Siamo bersagliati da una campagna intrisa di un’ipocrisia imperante e di una mancanza di realtà da scuola degli imbecilli. E questi non mancano, ovunque.

La sudcoreana Yanghee Lee, UN Special Rapporteur on the situation of Human Rights in Myanmar, afferma che almeno 1.000 persone sono state uccise e migliaia di case rase al suolo, laddove invece, le autorità bengalesi, al di là del confine, ci rivelano che gli uccisi potrebbero essere anche 3.000. Numeri imprecisi e discordanti, come mai? Perché quello che dice un Paese che fa parte dell’organizzazione delle Nazioni Unite è diverso da quello che dice un rappresentante delle stesse Nazioni Unite? Su quali fonti si basano? Non è che il Bangladesh tende ad aumentare per rimarcare una tragedia che colpisce propri correligionari e, d’altro canto, per attirare l’attenzione della comunità internazionale sulla sua particolare posizione geografica che richiederebbe un finalizzato sostegno finanziario? Io dico di sì. Quindi, tale discordanza getta piena luce sul fatto che non ci sono osservazioni obiettive sui fatti e che questi vengono ovviamente strumentalizzati. Allo stesso modo di chi sminuisce la situazione, perché lo fa ovviamente per salvaguardare un proprio obiettivo.

Ad ogni modo, il fatto che a noi occidentali, non piaccia come il Governo del Myanmar sia strutturato e che soprattutto il 25% dei seggi parlamentari sia assegnato per legge ai militari, ci autorizza a ipotizzare che il Governo di quel Paese, oggi “consigliato” dalla Nobel Aung San Suu Kyi, si stia macchiando oggi di atroci crimini? Io dico di no. Ma dico che quel Governo sta cercando di imporre la propria sovranità su una parte che opera in modo terroristico e che, tanto per peggiorare le cose, non è amata da chi le vive vicino. È ora di finirla con gli approcci da salotto e allo stesso tempo è necessario comprendere chi chiamato è a stabilire l’ordine e a combattere una sanguinosa compagine terroristica, i cui attacchi, naturalmente, non possono essere sminuiti come naturali disperati tentativi di attirare l’attenzione sulla propria causa e di far apparire i Rohingya solo come poveri musulmani disarmati, vittime non soltanto dell’esercito ma anche della rabbia dei vicini buddisti.

Che cosa dovrebbe fare l’Esercito e come dovrebbe combattere? E, come possono convivere in una sola comunità anime completamente diverse, il cui unico collante è l’odio secolare? Forse è il caso di iniziare a pensarci anche per noi europei, amanti del multiculturalismo e dell’integrazione, anche se non sappiamo per niente che cosa quest’ultima significhi e come realmente conseguirla.

Sin dalla sua indipendenza nel 1948, i militari hanno combattuto per spingere i gruppi di guerriglieri fuori dalla valle dell’Irrawaddy, il cuore della nazione, verso il confine con il Bangladesh, la Cina, l’India e la Thailandia. Approccio che scaturisce dalla difficile situazione venutasi a creare proprio nel dopo indipendenza, quando il paese rischiò di collassare sotto i colpi di movimenti ribelli di stampo comunista, di conflittualità interetniche e, in genere, di violenze da parte di gruppi paramilitari.

Nel 1949, l’autorità centrale era limitata alle aree di Mandalay e Yangon. I militari si presero quindi la responsabilità di riprendere il controllo centrale da parte del Governo e nel 1962 furono loro stessi a prendere il potere. La guerriglia comunista è a oggi scomparsa, ma ci sono ancora una ventina di gruppi armati etnici la cui consistenza varia dalle poche centinaia a qualche migliaio di componenti. Gruppi che in genere controllano risorse chiave e passaggi di frontiera verso i mercati transfrontalieri e che trovano benefici economici nella vendita al mercato nero di minerali, gemme, legno ma anche di oppio, facendo concorrenza all’Afghanistan, e di metanfetamine.

La mappa dei gruppi etnici che operano in Myanmar

Ora, togliamocelo dalla testa, nessuno farà niente di significativo a favore di questo popolo, se davvero non si vien fuori con una soluzione pragmatica.

Non ci sono dubbi che i potenti vicini, Cina e India, mirino a tenersi buona la classe dirigente della nazione per alcuni importanti progetti: il Kaladan(3), una linea di trasporto multi-modale del valore di quasi 500 milioni di dollari e l’autostrada trilaterale (India, Myanmar e Thailandia) per la parte indiana.

Per la parte cinese, esiste il progetto della sino-myanmar pipeline che, attraverso il Rakhine, deve poi arrivare nella provincia cinese di Yunnan e la realizzazione di un deep-sea port e di una zona economica speciale nell’area di Kyaukpyu sulla costa. Quindi, progetti che interessano proprio il Rakhine, lo Stato condiviso tra l’omonimo gruppo etnico buddista e i Rahingya, appunto. Uno Stato che riveste una grande importanza per il Myanmar dal punto di vista economico. La sua posizione geografica domina l’accesso alla maggiore porzione dei giacimenti di gas naturale offshore.

Ovvio che le attività dell’ARSA e l’instabilità ad esse connesse mettono a rischio la realizzazione e lo sviluppo di queste infrastrutture.

E non ci sono nemmeno dubbi su come quest’etnia musulmana sia percepita con sospetto anche dal mondo induista. In India infatti, i profughi Rohingya non sono visti di buon occhio, in quanto sospettati di essere al soldo dell’intelligence pakistana oppure di essere stati tradotti in Kashmir per variare il bilanciamento della popolazione a favore di quella musulmana. Qualcosa di completamente all’opposto delle accuse che la popolazione indigena birmana, durante il colonialismo britannico, rivolgeva agli inglesi, colpevoli di importare popolazione musulmana dalle altre parti dell’impero; i “kalar”(4), come vengono chiamati, per il colore più scuro della pelle. Poi di fatto rivelatisi in maggioranza musulmani. Fatto sta che l’India ha già da tempo pronti dei programmi di ricollocamento di questi profughi, ritenuti illegali, in Myanmar.

I buddisti nello Stato di Rakhine rappresentano il 60% della popolazione. Sono ben rappresentati nell’Arakan National Party e sarebbero molto interessati a raggiungere una più grande autonomia regionale, obiettivo che secondo loro è messo a rischio dai vicini musulmani. Del resto il sospetto è legittimo che fosse lo stesso governo ad aver fomentato anche in passato dei disordini per contrastare le ambizioni dell’una e dell’altra parte. Ma ora il Governo ha come priorità la stabilità in quella zona e l’NLD(5), il partito al governo, ha inoltre pochissime opzioni se non quella di assecondare i militari che detengono il potere in importanti dicasteri tra i quali quello degli Affari di Confine (oltre che Difesa e Interno). Questa posizione, in particolare, garantisce loro una grande autonomia nella condotta delle operazioni sul terreno. La stessa Aung San Suu Kyi ha le mani legate; ove si opponesse all’azione dei militari, aiutata e politicamente sostenuta dalla popolazione (90% circa buddista) e dai movimenti buddisti (come il nazionalista 969)6, rischierebbe di perdere consensi riconsegnando il Paese nelle mani dei militari.

Del resto, il conflitto interno più visibile è sempre stato quello tra buddisti e musulmani. Il carattere buddista è il principale carattere nazionale e tale identità vede nei musulmani una costante minaccia.

La convivenza appare ormai impossibile alla luce dell’altissima probabilità che, seppur momentaneamente sedati oggi, i disordini e gli scontri si ripetano forse anche in maniera più aggressiva nel futuro. Bisogna capirlo!

Il buddismo è visto come elemento unificante in un Paese dove la natura geografica ha favorito da sempre la frammentazione e l’irredentismo etnici, dapprima combattuti dai militari con la forza a partire dal 1962, anno del colpo di Stato, facendo sprofondare il Paese in una grave crisi economica e istituzionale. E poi, nel 1988 cercando di smussare le differenze etniche cambiando persino il nome da Burma, troppo assonante con il gruppo etnico principale dei Bamar, a quello più formale di Myanmar. Ma è la transizione, a partire dal 2010, da un regime militare ad uno civile che pare stia avendo maggior successo anche nell’accettazione identitaria dell’ultima denominazione, anche se più lentamente e in svantaggio rispetto all’identità buddista. Quindi, il buddismo è il miglior strumento nelle mani del Governo per una identità unica difficile da ottenere altrimenti. Di tale strumento fa parte un attivo clero buddista, il Sangha(7), passato letteralmente incolume per tutti i cinquant’anni di dittatura militare.

Quindi, ci rendiamo conto di quale Paese stiamo parlando? E dei problemi che sta affrontando fin dal momento della sua indipendenza? Inoltre, ci si rende conto che la campagna di accuse soprattutto contro l’eroina birmana non farebbe altro che farlo retrocedere nuovamente sotto il controllo dei militari i quali, in questa strumentalizzata campagna contro il proprio Governo, finirebbero per erigersi quali unici in grado di difendere il popolo, a costo di ricadere nell’isolamento internazionale di qualche anno fa.

In buona sostanza, non esiste un modo indolore per combattere; per combattere una guerriglia che pone le sue basi su tematiche di ordine etnico e probabilmente anche religioso, pur se ora ben dissimulato.

L’unica ragionevole soluzione è l’esodo se non si vuole che pur sedando la conflittualità di oggi, la stessa riemerga in poco tempo, forse ancora in forme più aggressive e meno controllabili.

Ripeto, nessuno alzerà una mano a favore dei Rohingya. Qualsiasi iniziativa a livello Nazioni Unite e Consiglio di Sicurezza verrebbe bloccata dalla Cina. Si aiuti quindi il Bangladesh nel ricevere, assistere e integrare gradualmente questa minoranza con un programma completo dei cui costi si faccia carico la comunità internazionale e per un bel po’ di anni.

Le sanzioni, a cui qualcuno sta già pensando ai danni del paese o dei militari, non farebbero che esacerbare ulteriormente gli animi. Che le due comunità non riusciranno mai a trovare un quieto modo di vivere insieme è un qualcosa di cui bisogna urgentemente convincersi.

Sanzioni o persino l’invio di truppe (quali? di chi?) sono solo fantasticherie irrazionali che avviluppano il pensiero liberal progressista di molti, di stampo clintoniano, caduti perdutamente in amore con la stupidità onusiana del Responsibility to Protect, simpaticamante acronomizzato in R2P, ma che hanno grande capacità di influenzare. Stupidità in libertà!

É la solita ipocrisia di questa schiera di facile (spesso financo finto) umanitarismo che si agita solo quando qualcosa accade e non pensa mai a ciò che potrebbe accadere per prevenirne la spiralizzazione. Oppure che, succubi della tirannia della penitenza, guardano sempre e solo a possibili islamofobie in giro per il mondo, per il timore che il mondo islamico si offenda con noi, impiantano una campagna mediatica che pecca di obiettività.

Volendo essere obiettivi e parlando sempre di Rohingya, questi soggetti si sono mai accorti di quello che avviene da anni a quelli che, in qualche modo fuggiti in quasi 500 mila a seguito del colpo di stato del 1962, furono accolti nel porto di Karachi, in Pakistan? Oggi molti di loro sono impossibilitati dall’ottenere una cittadinanza e un documento di riconoscimento, non possono frequentare le scuole, beneficiare dell’assistenza sanitaria dello Stato e di quant’altro a noi appare giornalmente normale, vivendo nello squallore di sobborghi fatiscenti di quella grande città del Pakistan, la “terra dei puri”. Chissà se Zeid Ra’ad al-Hussein, l’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, giordano, che ha parlato di pulizia etnica ai danni dei Rohingya del Myanmar si sia mai accorto di questa indifferenza di Islamabad per la medesima etnia.

Tornando ai due principali attori nell’area, l’India si è chiamata fuori da questo gioco e l’ha fatto con intelligenza geopolitica. Modi comprende perfettamente che imponendo l’applicazione di sanzioni al paese, anche in senso unilaterale e quindi non necessariamente da parte del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, non si farebbe altro che consegnare il pPese nelle braccia cinesi, a danno del “suo” BIMSTEC, Bay of Bengal Initiative for Multi-Sectoral Technical and Economic Cooperation(8). Cinesi che già hanno un vantaggio notevole.

L’economia del Myanmar rimane largamente dipendente dai loro investimenti, e non c’è dubbio che rilanciare la paura della maggioranza buddista verso i musulmani aiuta il governo di Naypyidaw a puntare su una difficile identità nazionale ma soprattutto a scongiurare il manifestarsi di proteste e di sentimenti contro le comunità cinesi che nel 1987 furono costrette a lasciare il Paese.

Quindi? Scacco matto. Prendiamo esempio da quello che fecero, e secondo me molto bene, gli inglesi, creando il Pakistan quale nazione per i musulmani di quella parte del mondo. Si abbandonino le fregole umanitarie, se vogliamo che quella gente viva una vita migliore, si aiuti e bene il Bangladesh a integrarseli, sperando che Dacca faccia meglio del Pakistan, o assisteremo a un’interminabile, endemica frenesia omicida interetnica da qui agli anni a venire, continuando a sentire parole e accuse al vento, mosse dal pensiero unico imperante di farsi i fatti degli altri perché così è bello, senza però formulare mai una soluzione seria e definitiva anche se, per forza di cose, non indolore.

Ci vuole coraggio, ma è ora di farselo venire!

1() Anche il termine “Rohingya” è stato bandito, probabilmente perché potrebbe derivare la sua origine dal termine Rohang, denominazione in lingua Rohingya dello stato di Rakhine (precedentemente Arakan), dove vive la maggior parte dei Rohingya. Ma ci sono altre interessanti teorie per la sintesi delle quali si può dare uno sguardo a quanto riportato al seguente: https://it.wikipedia.org/wiki/Rohingya

2() L’originale denominazione dello Stato di Rakhine.

3() Progetto che intende stabilire una connessione tra i due paesi per mare e per terra.

4() É lo stesso termine che la propaganda di regime usava nei confronti di Aung San Suu Kyi che, seppur birmana, era sposata con uno straniero.

5() Lega Nazionale per la Democrazia, al quale si contrappone il Partito dell’Unione dello Sviluppo e della Solidarietà(USDP) dell’attuale presidente.

6() Le tre cifre del 969 “simbolizzano le virtù di Budda, le pratiche buddiste e la comunità buddista.

8() Si tratta di orghanizzazione internazionale che coinvolge un gruppo di paesi del sud e del su est asiatico: Bangladesh, India, Myanmar, Sri Lanka, Thailand, Bhutan and Nepal, paesi che “dipendono” dal Golfo del Bengala.

*Generale CA (Riserva)

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