Russia: con l’Occidente è ormai guerra dei cavi sottomarini. La NATO monitora e lancia l’operazione Baltic Sentry

Di Giuseppe Gagliano

MOSCA. Non c’è più spazio per le vecchie guerre: oggi si combatte dove non si vede, in profondità, sotto il mare.

L’accusa del ministro della Difesa britannico John Healey contro Mosca, riguardante presunte “attività ostili” contro le infrastrutture sottomarine, non è solo l’ennesimo capitolo di una retorica sempre più accesa tra Occidente e Russia.

John Healey , ministro della Difesa britannico. (Foto di Lauren Hurley (No 10 Downing Street)

 

È il segno che il fronte del confronto si è spostato in una dimensione che unisce guerra economica, intelligence e geopolitica in un unico grande teatro sommerso.

La nave spia russa “Yantar”, descritta da Healey come impegnata a “mappare le infrastrutture critiche” del Regno Unito, è diventata il simbolo di una guerra invisibile.

Il Cremlino ha prontamente respinto le accuse, definendole “infondate”, ma i danni ai cavi elettrici e alle telecomunicazioni nel Baltico non sono invenzioni.

I cavi tranciati a novembre e dicembre 2024, le tracce di ancore trascinate per chilometri sul fondale e il sequestro della petroliera Eagle S in Finlandia puntano verso uno schema preciso, sebbene difficile da provare.

I cavi sono nervi scoperti della geopolitica moderna

I cavi sottomarini non sono solo infrastrutture: sono i nervi scoperti del sistema globale.

Trasportano quasi tutto: comunicazioni, dati e, sempre più spesso, energia.

Difenderli significa proteggere la colonna vertebrale delle economie occidentali. Attaccarli, invece, è una strategia silenziosa ma devastante.

Ed è proprio questo il punto: l’apparente fragilità di queste infrastrutture ha trasformato il loro controllo in un obiettivo strategico.

Mosca, sotto pressione per le sanzioni e il prolungamento della guerra in Ucraina, ha interesse a esplorare nuovi fronti di pressione sull’Occidente.

Tank russo in ucraina (Credit – Mil.ru)

 

Tuttavia, il vero interrogativo è quanto di questa guerra sommersa sia reale e quanto sia invece costruito da una retorica occidentale che cerca di mantenere alta l’attenzione sull’“aggressività russa”.

La risposta della NATO: tra protezione e provocazione

La NATO non sta a guardare. L’operazione Baltic Sentry, annunciata dal Segretario Generale Mark Rutte, rappresenta la risposta occidentale: sorveglianza continua con droni, satelliti e sottomarini nelle aree critiche del Baltico.

Mark Rutte incontra i militari della NATO (Foto di Redazione)

 

È una dimostrazione di forza, ma anche un messaggio chiaro: le infrastrutture strategiche saranno difese con ogni mezzo. Eppure, c’è un rischio implicito: trasformare questa sorveglianza in un nuovo elemento di provocazione, in un contesto già teso come quello tra Mosca e le capitali europee.

Ombre sul futuro

Dietro le accuse e le controaccuse si intravede una dinamica più profonda: la militarizzazione crescente di spazi una volta considerati neutrali, come il fondo marino.

È un segno di tempi in cui la geopolitica non conosce più confini: ogni spazio, reale o virtuale, è un potenziale campo di battaglia.

La domanda, però, rimane: fino a che punto si tratta di reali minacce e fino a che punto di costruzioni narrative funzionali alla polarizzazione? Perché se è vero che la Russia ha interesse a testare i punti deboli dell’Occidente, è altrettanto vero che una narrativa costante di minaccia serve agli Stati occidentali per rafforzare l’unità interna e giustificare investimenti crescenti nel settore della difesa.

Sotto il mare si combatte una guerra silenziosa, fatta di ombre e sospetti, ma con effetti che possono essere devastanti. La sfida sarà capire se questa guerra rimarrà sommersa o se le sue conseguenze emergeranno, cambiando per sempre l’equilibrio geopolitico globale.

Gli Stati Uniti stanno ridefinendo i contorni del loro coinvolgimento in Siria in modo tanto pragmatico quanto controverso.

La decisione di condividere informazioni di intelligence con Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un gruppo precedentemente designato come organizzazione terroristica, rappresenta un’inversione di rotta sorprendente e difficilmente giustificabile nei termini della tradizionale coerenza della politica estera americana.

La collaborazione, svelata dal Washington Post, rivela come la necessità di affrontare una minaccia immediata come quella dell’ISIS possa spingere Washington a piegare le proprie regole non scritte.

Secondo fonti affidabili, questa intesa è già andata oltre il semplice scambio di informazioni: gli Stati Uniti hanno contribuito a sventare un attacco pianificato dall’ISIS contro un santuario vicino a Damasco.

Le modalità di questa cooperazione, che ha coinvolto incontri diretti tra funzionari americani e rappresentanti di HTS, sembrano riflettere un’evidente svolta verso un approccio di realpolitik, in cui le alleanze non sono più dettate dalle ideologie ma dalle urgenze operative.

La guerra in Siria ha da tempo dissolto ogni confine morale o strategico. HTS, nato come affiliato ad al-Qaeda, ha cercato di riciclarsi come forza locale in opposizione sia al regime di Assad sia all’ISIS, diventando un attore rilevante in un panorama frammentato. La collaborazione con gli Stati Uniti, per quanto non ufficialmente riconosciuta, rappresenta un’implicita legittimazione della loro capacità di controllo territoriale e della loro utilità nel combattere un nemico comune.

Questo sviluppo, però, apre a una serie di interrogativi inquietanti. Da una parte, segnala una crescente flessibilità americana nell’adattarsi al caos della politica siriana, forse anche come contrappeso all’influenza di attori come Russia e Iran. Dall’altra, evidenzia un rischio enorme: quello di normalizzare un gruppo con un passato controverso, ignorando le implicazioni etiche e legali di tale scelta.

Le reazioni non si sono fatte attendere.

Mentre alcuni analisti giustificano la mossa come una necessità per neutralizzare l’ISIS, altri criticano la perdita di coerenza nei principi dichiarati degli Stati Uniti.

Questa operazione potrebbe alterare profondamente le dinamiche regionali, consolidando HTS come interlocutore legittimo e ridisegnando il fragile equilibrio delle alleanze sul terreno.

In Siria, dove i confini tra alleati e nemici sono ormai sfumati, questa scelta americana non è che l’ultimo esempio di una guerra che ha reso il pragmatismo una virtù obbligata.

Tuttavia, la domanda resta: fino a che punto è possibile sacrificare i principi sull’altare della convenienza? Forse, in un conflitto che ha già superato ogni limite, la risposta è che le scelte non sono mai giuste, ma solo inevitabili.

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