Di Fabrizio Scarinci
Parigi. Il territorio del Sahel, prevalentemente desertico ma estremamente ricco di materie prime, attraversa il Continente africano dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso, coprendo stati quali Senegal, Mauritania, Mali, Nigeria, Burkina Faso, Niger, Ciad, Sudan ed Eritrea.
Pur avendo visto sorgere, nel corso dei secoli, alcuni dei più potenti imperi dell’intero Continente (eccezion fatta per la regione mediterranea), all’inizio dell’era moderna questa regione appariva ormai come una delle più povere ed arretrate del pianeta e tale condizione di debolezza avrebbe presto condannato tutti gli attori locali a soccombere di fronte all’inarrestabile espansionismo europeo.
Durante il cosiddetto “scramble for Africa”, nella seconda metà del XIX secolo, buona parte del Sahel centro-occidentale entrò infatti a far parte dell’impero coloniale francese, l’Eritrea fu occupata dagli italiani, mentre il Sudan e la Nigeria furono assoggettate dai britannici.
Gli europei, ad eccezione degli italiani, che durante il secondo conflitto mondiale persero tutti i loro possedimenti africani, sarebbero rimasti fino alla seconda metà del XX secolo, quando il loro dominio su questa ed altre regioni del pianeta dovette cedere il passo al dilagante processo di decolonizzazione messosi in moto dopo il 1945.
Nel 1956 la Gran Bretagna concesse l’indipendenza al Sudan, mentre nel 1960 fu la volta della Nigeria e di tutti i possedimenti francesi nella regione.
Quanto all’Eritrea, essa fu assoggettata dalla vicina Etiopia subito dopo la fine della guerra e non ottenne l’indipendenza fino al 1991.
Tuttavia, non diversamente da quanto accaduto in altre aree precedentemente sottoposte al dominio coloniale europeo, il conseguimento dell’indipendenza non si tradusse in migliori prospettive in campo economico e sociale.
I fragili Stati nati dalle ceneri dei vecchi imperi coloniali scontavano infatti un ritardo enorme in materia di istruzione, competenze scientifico-tecnologiche e dotazioni di capitali.
Inoltre, i loro governi, caratterizzati da un velenoso mix di autoritarismo, inefficienza e corruzione, si dimostrarono decisamente inadeguati nel garantire stabilità, sicurezza e sviluppo.
Ancora oggi, a quanto risulta dai dati disponibili, nonostante alcuni tentativi di cooperazione interstatale promossi dalla Comunità Internazionale, problemi quali siccità, fame e carestie sarebbero ben lungi dall’essere risolti e, come se non bastasse, nell’ambito questo complesso quadro politico e sociale, hanno fatto la loro comparsa, a partire dagli anni 90, diverse organizzazioni terroristiche di matrice islamista, che hanno avuto modo di prosperare e rafforzarsi anche e soprattutto grazie al supporto di vari attori regionali, tra cui gli stessi governi e vari movimenti armati insurrezionali.
Dal 1992 al 1996, ad esempio, il governo sudanese ospitò il già allora pluriricercato Osama Bin Laden e diversi gruppi di combattenti a lui fedeli, che ebbero così modo di consolidare ed espandere la rete di Al Qaeda fino a farla divenire la pericolosa organizzazione che il mondo ebbe modo di conoscere qualche anno più tardi.
A partire dai primi anni 2000, poi, i vari gruppi terroristici operanti nell’area, per lo più associati alla stessa Al Qaeda, hanno mostrato grande abilità nell’integrare con la loro propaganda e i loro proseliti gli obiettivi dei vari gruppi di insorti della regione, con i quali hanno collaborato anche sul piano militare.
A tale riguardo, un esempio su tutti è dato dall’alleanza tra il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, nato con la guerra civile algerina e successivamente legatosi ad Al Qaeda, e i ribelli Tuareg facenti capo al Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, che mirava a rendere tale regione indipendente dal Mali.
Tali gruppi hanno operato congiuntamente nella regione nord-orientale del Paese per diversi anni, rendendosi anche protagonisti, nel 2012, di una vera e propria insurrezione contro il governo, stroncata l’anno successivo solo grazie all’intervento di una forza multinazionale a guida francese, al quale sono seguite alcune missioni di stabilizzazione a guida europea, africana e ONU.
Una nutrita presenza di gruppi legati ad Al Qaeda è stata inoltre registrata in Burkina Faso, Mauritania e Niger, mentre Nigeria e Ciad sono stati martoriati per anni dai terroristi del gruppo Boko Haram, legati all’ISIS a partire dal 2015.
Data la posizione geografica del Sahel, gli enormi problemi che caratterizzano questa regione hanno un forte impatto non solo rispetto alle aree limitrofe, ma anche al di fuori dello stesso continente africano.
In quest’area è infatti attiva, tra l’altro, la maggior parte delle organizzazioni criminali dedite al traffico di droga ed esseri umani, tra cui quelle che negli ultimi anni hanno illegalmente favorito l’arrivo, attraverso la Libia, di centinaia di migliaia di migranti sul suolo europeo.
Tali problemi politico-sociali, uniti alla significativa presenza di risorse naturali ed energetiche, non mancano di attirare l’attenzione di attori esterni alla regione, interessati soprattutto a trarre vantaggio dalla stabilizzazione dell’area e ad aumentare la propria influenza sui deboli governi locali.
La presenza francese
Dal secondo dopoguerra in poi la potenza più influente nel Sahel è stata certamente la Francia, che ha mantenuto, tanto a livello economico, quanto a livello politico, fortissimi legami con le sue ex colonie.
La politica francese nella regione è parte integrante della strategia con cui Parigi mira a preservare il suo ruolo di interlocutore privilegiato del continente africano; ormai in crescita, oltre che sul piano demografico, anche su quello economico-produttivo.
In previsione di un forte incremento degli scambi commerciali tra Europa e Africa sub-sahariana, il controllo del Sahel, che attraversa longitudinalmente il continente, appare oggi più vitale che mai agli occhi della classe dirigente francese, la quale, sfruttando tutti gli strumenti a sua disposizione, cerca di conservare il proprio ascendente su governi e popolazioni locali.
Tra questi strumenti, uno dei più importanti è certamente quello della lingua. I lunghi decenni del periodo coloniale hanno infatti dato un enorme contributo alla diffusione del francese in diverse regioni del continente africano (incluso il Congo, ex colonia belga) e, considerando i ritmi della crescita demografica di molte di quelle aree, è altamente probabile che essa, già parlata da oltre cento milioni di persone, assurga al ruolo di lingua franca per diverse centinaia di milioni di individui, confermandosi come una delle più diffuse a livello mondiale.
Nondimeno, Parigi sembra anche consapevole del fatto che tale processo sarà tutt’altro che automatico. Infatti, in molti dei Paesi generalmente definiti francofoni, malgrado il graduale incremento del tasso di scolarizzazione, larghe fasce della popolazione restano prive di accesso all’istruzione (e, di conseguenza, anche alla conoscenza della lingua francese).
Per tale ragione la Francia ha avviato numerosi programmi di supporto alla scolarizzazione in diversi Stati africani, inclusi quelli del Sahel centro-occidentale, dove sono presenti diverse agenzie di cooperazione.
Sul piano finanziario, invece, il maggiore elemento dell’influenza francese nella regione a partire dal secondo dopoguerra è stato il franco CFA; una moneta di cui esistono due versioni, rispettivamente utilizzate da due distinti gruppi di Paesi.
Fino all’ingresso della Francia nella moneta unica europea, avvenuto nel 2002, tali valute, stampate a Parigi, sono state ancorate al valore del franco francese.
Da quel momento sono invece agganciate all’Euro secondo una parità fissa stabilita dalla Francia, con il vantaggio, per i Paesi che le utilizzano, di poter contare su un elevato livello di stabilità monetaria.
Questi Paesi sono però tenuti, a titolo di garanzia, a trasferire il 50% delle loro riserve valutarie presso il Tesoro francese; cosa che, secondo i critici di tale meccanismo, impedirebbe gli investimenti necessari a garantire il loro sviluppo.
Anche in risposta a tali critiche, il governo francese ha recentemente acconsentito ad intraprendere un negoziato con gli otto Paesi utilizzatori del franco CFA-UEMOA, una delle due versioni della valuta, al fine di apportare alcuni significativi cambiamenti già a partire da quest’anno.
Tali cambiamenti includeranno, oltre al cambio del nome (la nuova valuta sarà denominata ECO), anche la fine della centralizzazione del 50% delle riserve valutarie nel Tesoro francese e la fuoriuscita di Parigi da alcuni meccanismi decisionali in cui risulta ancora presente.
L’importanza che il Sahel ha per la Francia è testimoniata, inoltre, dalla nutrita presenza di aziende transalpine in molti degli Stati dell’area.
Tra queste, spiccano certamente la compagnia petrolifera Total, che al momento opera principalmente in Mali, il Gruppo di Vincent Bolloré, attivo soprattutto in Nigeria, e la compagnia meccanica Alstom.
La presenza strategicamente più importante sembra però essere quella della Orano, azienda leader nel campo dell’energia nucleare, che estrae dalle miniere del Niger circa un terzo dell’uranio necessario al funzionamento delle sue centrali.
La vastità degli interessi transalpini nella regione ha, ovviamente, comportato un certo attivismo di Parigi anche sul piano militare.
Da sempre presenti nell’area del Sahel centro-occidentale, già negli anni ’80 le Forze Armate francesi furono coinvolte nel lungo conflitto che vide il debole Ciad contrapporsi alle velleità espansionistiche della Libia, mentre negli anni successivi, sempre allo scopo di proteggere gli interessi di Parigi nella regione e nelle aree limitrofe, sono state condotte varie altre operazioni di portata minore.
La volontà francese di consolidare la propria influenza nella regione fu anche una delle principali ragioni per cui, nel 2011, il Paese profuse così tanto impegno al fine di ottenere il definitivo rovesciamento del Colonnello Gheddafi, visto da Parigi come un attore potenzialmente ostile e portatore di interessi contrapposti a quelli della Francia.
Due anni dopo, in seguito alla rivolta dei Tuareg della regione dell’Azawad (supportata da Al Qaeda), il governo di Parigi lanciò l’Operazione “Serval”, un’azione militare, supportata anche da altri Paesi, mirante a salvaguardare l’unità del territorio maliano e a combattere il terrorismo di matrice islamista.
Dal 2014 è, invece, attiva l’Operazione “Barkhane”, sempre a guida francese, che avrebbe l’obiettivo di liberare tutto il territorio del Sahel centro-occidentale dalla presenza di movimenti terroristici e insurrezionali.
Tuttavia, malgrado l’eccezionale livello di attivismo mostrato da Parigi nella regione (e malgrado qualche innegabile successo), tali operazioni mostrano anche i limiti della Francia contemporanea come potenza in grado gestire scenari geopolitici complessi relativamente distanti dal proprio territorio nazionale.
In particolare, se ai tempi della guerra d’Algeria, pur non riuscendo ad evitare la sconfitta, Parigi fu comunque in grado di schierare in loco circa 450 mila uomini per otto anni, il contributo che la Francia odierna è in grado di fornire all’Operazione “Barkhane” non supera la presenza costante di 4.500 unità; un numero del tutto insufficiente (specie considerando i propositi di questa missione) che Parigi è, tra l’altro, riuscita a raggiungere solo grazie alla riduzione della propria presenza in altre aree di interesse.
In effetti, pur restando uno dei più forti tra quelli occidentali, l’apparato militare francese starebbe oggi soffrendo, non diversamente da quelli degli altri maggiori Paesi europei, a causa del graduale ridimensionamento delle spese militari avutosi nel corso degli ultimi decenni; ragion per cui Parigi non sarebbe più in grado di sostenere da sola operazioni di vasta portata in teatri relativamente distanti.
Consci dei propri limiti, i francesi si sono quindi orientati verso la prospettiva di un rafforzamento dei governi locali e di una maggiore assunzione di responsabilità, da parte di questi, nel mantenimento della stabilità nella regione.
A tale scopo, sempre nel 2014, Parigi ha promosso, anche grazie al supporto di Europa e Stati Uniti, la creazione del gruppo G5 Sahel, un’alleanza in materia di sicurezza e difesa stipulata tra Mauritania, Niger, Burkina Faso, Mali e Ciad.
Questa alleanza ha poi dato vita, nel 2017, ad una forza militare congiunta di circa 5 mila effettivi, con il compito di lottare contro le organizzazioni criminali e terroristiche presenti nell’area, nonché di favorire le operazioni di aiuto allo sviluppo e il consolidamento delle autorità statali sul territorio.
Sul campo, tuttavia, le forze di questi Stati hanno da subito incontrato enormi difficoltà, dovute in gran parte alle loro gravi carenze in fatto di mezzi e preparazione. Mentre, dal canto suo, la Jihad islamica, lungi dall’essere stata sconfitta, resta una realtà di questa martoriata regione; foriera, non solo di impedire a questi Paesi di svilupparsi e prosperare, ma anche di fornire un pretesto ad altri attori, non occidentali, per inserirsi in modo più deciso nelle dinamiche dell’area.
Le ambizioni di Pechino
Tra questi attori figura certamente la Cina, potenza globale in espansione particolarmente attiva in tutto il Continente africano.
Le relazioni tra Africa e “Impero di mezzo” possono essere fatte risalire addirittura all’inizio del XV secolo, con le spedizioni esplorative dell’ammiraglio Zheng He, che toccarono, molto probabilmente, le coste oggi appartenenti a Tanzania e Mozambico.
Tuttavia, anche a causa del declino geopolitico sperimentato dalla Cina nei secoli successivi, non si ebbero altri contatti significativi praticamente fino agli anni 50 del XX secolo.
A partire dalla Conferenza di Bandung del 1955, la giovane Repubblica Popolare divenne uno dei maggiori promotori del processo di decolonizzazione, riuscendo a stabilire forti relazioni con vari Paesi del Terzo modo, inclusi diversi stati africani di nuova indipendenza.
Nel corso dell’ultimo quarantennio, dopo l’introduzione del capitalismo e l’apertura del Paese agli scambi commerciali con l’estero, l’economia cinese è cresciuta fino a diventare la seconda più grande del pianeta dietro quella statunitense, e l’ex impero di mezzo, che diversi osservatori hanno più volte definito “la fabbrica del mondo” (definizione usata per la prima volta nel XIX secolo con riferimento alla Gran Bretagna), si presenta ormai come un portatore di interessi globali.
Sfruttando i legami politici a suo tempo stabiliti con vari governi africani, esso è gradualmente riuscito, nell’ultimo decennio, a penetrare il continente utilizzando strumenti quali accordi commerciali, investimenti diretti da parte delle proprie imprese, costruzione di infrastrutture e prestiti di stato non condizionati dal livello di rispetto dei diritti umani da parte dei Paesi in questione.
Tuttavia, al di là delle apparenze, l’approccio cinese nei confronti di questi Stati non è sempre così amichevole come Pechino verrebbe far sembrare.
Il problema starebbe soprattutto nelle modalità con cui i cinesi investono nei Paesi in via di sviluppo, non solo africani, ma anche asiatici.
In particolare, è stato osservato come spesso, quando Pechino presta denaro al fine di realizzare infrastrutture ed opere pubbliche ed il Paese beneficiario di tale prestito non è in grado di restituirlo, quest’ultimo si trova costretto a cedere l’opera in questione al governo cinese, che ha la facoltà di sfruttarla secondo i suoi interessi.
In tal senso, un caso particolarmente eclatante è dato da quanto accaduto allo Sri Lanka, dove Pechino ha recentemente finanziato la costruzione di un importante scalo portuale nella località di Hambantota. Impossibilitato a ripagare i debiti contratti, nel 2017 il governo di Colombo si è visto costretto a cedere in mani cinesi il controllo dell’intera opera (altamente strategica), minando così l’effettiva indipendenza politica e decisionale del Paese.
Ciò che è avvenuto nello Sri Lanka è avvenuto anche in altri Stati e, presto, diversi governi africani potrebbero seguire la stessa sorte.
Pechino ha iniziato inoltre ad affiancare questa strategia di penetrazione economico-commerciale con un graduale incremento delle proprie capacità militari in loco; cosa testimoniata anche dalla creazione di una gigantesca base interforze nel piccolo Stato del Gibuti, che probabilmente sarà solo il primo dei tanti punti d’appoggio di cui godrà l’Armata Popolare di Liberazione nel continente africano nel corso dei prossimi decenni.
Alla base del forte interesse cinese per l’Africa vi è un vasto insieme di considerazioni di carattere economico e strategico.
In linea di massima, Pechino mira, da un lato, a consolidare il suo controllo sulle rotte commerciali dell’Afro-Eurasia (anche attraverso la Belt and Road Initiative, progetto che coinvolgerà anche numerosi Paesi africani, soprattutto dell’area mediterranea e del Mar Rosso) e, dall’altro, a diventare il principale partner politico e commerciale di quello che nei prossimi decenni diventerà il Continente più giovane e popolato del mondo, sperando di sfruttarne il più possibile le enormi potenzialità, dovute anche ad un’eccezionale presenza di materie prime utili all’industria cinese.
In tale ottica, essendo il Sahel una cerniera naturale tra Eurasia ed Africa subsahariana, avere il controllo della regione o, quantomeno, una forte influenza su parte di essa, controllando infrastrutture chiave e governi locali, permetterebbe a Pechino di avere grande voce in capitolo riguardo agli scambi tra le due masse continentali. Nel corso dell’ultimo decennio la politica cinese di penetrazione dell’Africa è stata quindi avvertita con crescente intensità anche in questa regione, e i finanziamenti a vantaggio del G5 Sahel, effettuati da Pechino a partire dal 2018, hanno rappresentato un chiaro segnale delle intenzioni cinesi nell’area.
Tale mossa, oltre ad essere fruttata a Pechino il riconoscimento da parte del Burkina Faso (che ancora riconosceva Taiwan come unico stato cinese) rappresenta, inutile dirlo, una fortissima insidia per il governo di Parigi, fortemente preoccupato di dover lottare con un tale competitor per mantenere la propria influenza nell’area.
Gli interessi di Mosca, Ankara e delle monarchie del Golfo
La Cina non è però l’unica potenza interessata alla regione del Sahel.
Tra gli attori che hanno recentemente fatto registrare un forte incremento delle loro attività nell’area figura anche la Federazione Russa, che, malgrado le sanzioni occidentali, sembra stia recuperando un elevato grado di assertività nell’ambito della conduzione della sua politica strategica.
In particolare, anche Mosca, già molto attiva nel Mediterraneo, avrebbe compreso l’elevato valore strategico derivante dal controllo di questa regione e starebbe gradualmente cercando di penetrarla attraverso una strategia multidimensionale mirante, anche in questo caso, ad accrescere la propria influenza sui governi locali.
Oltre al Sudan, storico utilizzatore di armi russe, il Paese dove si registra la maggiore attività è probabilmente il Mali, dove Mosca, oltre a rafforzare la propria azione di intelligence, ha inviato, nel dicembre scorso, alcune unità delle sue Forze Speciali in funzione anti-jihadista.
Sempre in Mali, i russi hanno supportato la creazione dell’Organizzazione dei Patrioti del Mali. Tale organizzazione, fortemente anti-francese, ha provocato più di un malumore a Parigi, che vede quindi la sua posizione minacciata anche dalla Russia, con la quale (al netto della convergenza su Haftar in Libia) è in competizione anche sul Mediterraneo.
Sono, inoltre, molto attivi nella regione alcuni Paesi islamici e mediorientali, che, al fine di aumentare il loro livello di influenza, utilizzano soprattutto leve di tipo finanziario e religioso.
Tra i più attivi vi sono Turchia, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, i quali tendono a riprodurre nel Sahel le stesse dinamiche di contrapposizione che li caratterizzano nell’area del Golfo: da un lato Turchia e Qatar, legati dal sostegno ideologico e finanziario ai Fratelli Musulmani e dalla strenua opposizione a Israele, e, dall’altro, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, alleati nel Consiglio di Cooperazione del Golfo e decisamente ostili alla Fratellanza Musulmana.
Per quanto riguarda la Turchia, potenza emergente situata nel cuore dell’Afro-Eurasia, essa spera di conseguire un ruolo strategico di primo piano nella sua regione di riferimento e quelle adiacenti, incluso il Sahel.
La diplomazia di Ankara ha lavorato moltissimo, a partire dai primi anni 2000, al fine di conseguire una maggiore influenza nell’area, favorendo la creazione di partenariati economici e iniziative umanitarie di diverso tipo.
Nel 2008 la Turchia riuscì anche a diventare partner dell’Unione Africana e da allora i legami tra il Paese e i governi locali si sono ulteriormente approfonditi.
Anche il Qatar, su cui pure ricadono forti sospetti di legami con alcune organizzazioni terroristiche, ha recentemente elargito consistenti aiuti e finanziamenti ai Paesi della regione, inclusi alcuni mezzi corazzati, forniti all’Esercito del Mali nel 2018, proprio in funzione-antiterroristica.
Dal canto loro, anche sauditi ed emiratini lavorano alacremente per incrementare la loro influenza politica. Da decenni, infatti, Riyad finanzia organizzazioni non governative e scuole coraniche in tutta la regione (che in alcuni paesi, come la Mauritania, avrebbero peraltro intaccato una consolidata tradizione di tolleranza religiosa), mentre nel 2018 ha donato 100 milioni di Euro al G5 Sahel.
Gli Emirati Arabi Uniti. invece, muovendosi spesso anche in modo indipendente rispetto a Riyad, prediligono soprattutto investimenti di natura energetica, agricola e infrastrutturale.
La forte contrapposizione tra queste due fazioni dell’Islam sunnita è, tra l’altro, particolarmente visibile anche nel confuso scenario libico, fortemente connesso a quello del Sahel, dove gli emiratini, insieme a francesi, russi ed egiziani, sponsorizzano il Generale Haftar, mentre i turchi, interessati a creare una vasta area di influenza in grado di proiettarli dal Mediterraneo al Sahel, supportano (insieme all’Italia, ma in modo più deciso) il governo di Fayez al-Serraj.
L’Occidente in difficoltà
L’arrivo nel Sahel di tali competitors e il persistere del fenomeno del terrorismo di matrice islamista sono certamente visti in Occidente con una certa preoccupazione, tanto più in ragione del fatto che né i Paesi della NATO, né l’Unione Europea sembrano avere una strategia condivisa ed efficace per proteggere i loro interessi nella regione, mentre gli Stati Uniti appaiono, dal canto loro, sempre più distaccati dall’area in questione.
L’Unione Europea, che già nel 2013 avviò, su impulso francese, l’operazione di stabilizzazione EUTM-Mali, ha elargito, nel corso dell’ultimo quinquennio, alcune centinaia di milioni di euro (non moltissimi a dire il vero) allo scopo di bloccare l’enorme traffico di migranti economici che approdano in Libia allo scopo di raggiungere l’Europa. Diversi Stati europei, Germania in primis, hanno preso parte a varie missioni militari nella regione (non solo ETUM-Mali, a guida UE, ma anche MINUSMA, a guida ONU).
Tuttavia, malgrado le sue insistenti richieste di supporto, la Francia non sembra intenzionata a cedere il suo ruolo di guida della presenza europea nell’area. Per tale ragione Parigi non ama iniziative esterne al suo controllo (o al controllo delle Istituzioni di cui è parte), e, laddove può, non rinuncia ad ostacolarle.
E’ questo il caso della missione che l’Italia ha (legittimamente) intrapreso in Niger, tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018, allo scopo di addestrare le truppe locali e di curare i propri interessi in materia di flussi migratori. In particolare, durante le fasi iniziali di tale operazione, quando le prime forze italiane stavano cominciando a schierarsi sul suolo nigerino, si ebbe un clamoroso ripensamento da parte del governo locale, che lamentò la totale assenza di accordi tra Roma e Niamey riguardo all’invio di truppe nel Paese da parte dell’Italia.
Tali accordi erano però effettivamente stati raggiunti, e fin da subito apparve chiaro come quelle dichiarazioni celassero, in realtà, il forte nervosismo francese per un’operazione posta al di fuori della loro catena di comando ed effettuata da parte di un Paese relativamente vicino all’area del Sahel e potenzialmente portatore di forti interessi nella regione.
La missione fu poi sbloccata, ma solo dopo un’impasse diplomatico durato diversi mesi.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti invece, la nutrita presenza di organizzazioni terroristiche ha attirato la loro attenzione sul Sahel sin dai primi anni 2000.
Tuttavia essi mantengono rispetto alla regione un atteggiamento piuttosto ondivago e apparentemente contraddittorio.
Dal 2002 in poi Washington ha patrocinato, al pari della Francia, una serie di iniziative regionali, tra cui la “Pan Sahel Initiative” e la “Trans-Saharian Counter-terrorism Initiative”, stabilendo in loco anche una (ridotta) presenza militare al fine combattere la presenza di Al Qaeda.
Nel corso dell’ultimo decennio è stata poi mantenuta una forza di alcune migliaia di uomini, posta sotto il comando dell’AFRICOM, che ha continuato ad operare in funzione anti-ISIS e contro quello che resta delle organizzazioni affiliate ad Al Qaeda.
Malgrado la sua importante collocazione geografica, però, nell’ambito della strategia globale portata avanti dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato, il Sahel desta un interesse minore rispetto a regioni come Europa, Indo-Pacifico e Medio-Oriente.
Per questo motivo gli americani non hanno (o non hanno ancora) pienamente sviluppato l’ambizione di esercitare in loco un’influenza politica diretta, e, malgrado il recente attivismo russo e cinese, non hanno mutato il loro atteggiamento tendenzialmente attendista, continuando a mantenere una presenza militare leggera e facendo affidamento soprattutto sui propri alleati.
Grazie a questo interesse solo parziale da parte di Washington, Parigi è riuscita (per ora) a conservare un ruolo da gendarme regionale, avvalendosi peraltro di un potente alleato tendenzialmente disposto ad avallare le proprie iniziative politico-strategiche e a supportare le proprie forze sul campo.
Tuttavia, proprio in ragione della scarsa importanza rivestita dal Sahel nei piani di Washington, tale sostegno potrebbe presto venir meno. Nel dicembre scorso, infatti, l’amministrazione Trump ha annunciato che, nell’ambito di una revisione generale della postura strategica delle forze schierate all’estero, potrebbe esserci una sensibile riduzione di quelle schierate nel Sahel centro-occidentale.
Con questa decisione i militari francesi impegnati nell’Operazione “Barkhane” perderebbero la possibilità di poter contare su preziosi asset di supporto (tra cui i velivoli teleguidati Reaper recentemente schierati in Niger dall’AFRICOM), mentre i Paesi del G5 non potrebbero più fare affidamento sulla preziosa assistenza tecnica statunitense.
Non stupisce dunque che il Presidente francese Emmanuel Macron abbia chiarito, durante un recente (e piuttosto teso) incontro con i Paesi del G5, di voler fare tutto il possibile per cercare di far sì che la Casa Bianca e il Pentagono rivedano questa decisione.
Nondimeno, preparandosi allo scenario peggiore, Parigi ha anche intrapreso un’intensa azione diplomatica volta ad ottenere un ulteriore coinvolgimento dei paesi europei nella regione.
L’importanza del Nord-Africa e del Sahel per l’Italia
Malgrado le ricorrenti crisi politico-istituzionali e la perdurante stagnazione economica sperimentata negli ultimi venti anni, l’Italia resta una delle maggiori potenze industriali e manifatturiere del pianeta.
La combinazione tra una forte vocazione esportatrice e una cronica carenza di materie prime e risorse energetiche (al netto degli investimenti sulle energie rinnovabili) rende il sistema economico del Paese fortemente dipendente dagli scambi con l’estero.
Tale condizione, unita all’intrinseca necessità di massimizzare la propria sicurezza e la propria influenza in ambito internazionale, rende necessaria l’elaborazione di una strategia volta a proteggere i propri interessi al fuori dei confini nazionali, con particolare riferimento alle aree ad esso contigue.
Al fine di soddisfare tale esigenza, alcuni anni orsono la Marina Militare sviluppò il concetto di “Mediterraneo allargato”, inteso come area di primaria importanza per l’esercizio e la tutela dei nostri interessi. Pur essendo alla base di varie politiche volte al rafforzamento della flotta, tale concetto, periodicamente ripreso in diversi altri ambienti militari, politici e diplomatici, non è tuttavia da intendersi solo in ambito navale, e le aree geografiche a cui esso fa riferimento includono, oltre al bacino del Mediterraneo, anche quelli del Mar Rosso e del Golfo di Aden, nonché larghe porzioni di Medio-Oriente, Balcani e Nord-Africa.
Nell’ambito di questa vasta area geografica la nostra politica strategica si è indirizzata prevalentemente verso le direttrici Sud (Libia) ed Est/Sud-Est (Balcani, Mediterraneo orientale e Mar Rosso), ripercorrendo, sebbene con modalità differenti, quanto fatto dal Paese durante i primi decenni della sua esistenza.
Tuttavia, nel corso dell’ultimo decennio, la nostra azione strategica, così come la nostra capacità di influire sui processi politici di tale regione, ha incontrato crescenti difficoltà.
Tra le principali cause di questa situazione, oltre all’instabilità politica che caratterizza molti Paesi dell’area e la crescente assertività mostrata da alcuni dei nostri vicini, vi sono anche le incertezze dei nostri vertici politici. In particolare, se nel Mediterraneo orientale, malgrado il possesso della nona flotta più potente al mondo, l’Italia non riesce a tenere testa alla Turchia e subisce la sua assertività senza quasi neanche protestare (come avvenuto nel caso della Saipem 12000), in Libia, dopo essere stata “costretta” a partecipare alla controproducente rimozione del Colonnello Gheddafi, il Paese non è riuscito ad incidere neppure riguardo alle vicende successive al crollo del regime.
Nello specifico, rispetto alla caotica situazione in cui la nostra “ex quarta sponda” è venuta a trovarsi negli ultimi anni, Roma ha scelto, in linea con le Nazioni Unite, di riconoscere il governo di Fayez al-Serraj. Tale governo si è tuttavia mostrato del tutto incapace di prendere il controllo del Paese, che è progressivamente finito, con l’eccezione di Tripoli, nelle mani del Generale Haftar, le cui milizie hanno goduto del crescente supporto, per lo più indiretto, da parte di russi e francesi (che potremmo definire, in questa situazione, come due “avversari dialoganti”).
Al fine di non inasprire le relazioni con Mosca e Parigi, i nostri governi hanno quindi assunto una posizione più equidistante tra i due contendenti, cercando di arrivare ad una mediazione. Così facendo hanno però lasciato che Serraj si indirizzasse verso la Turchia, unico altro alleato di peso di cui dispone, al fine di ricevere supporto.
In tal modo l’Italia è venuta a trovarsi nella difficile situazione per cui, qualora a prevalere fossero le milizie di Haftar, questi facilmente continuerebbe a considerarla una potenza ostile, mentre qualora a prevalere fosse Serraj, il suo principale punto di riferimento nella regione sarebbe molto probabilmente Ankara.
Chiaramente, perdere definitivamente la nostra residuale influenza sulla sponda Sud del Mediterraneo rappresenterebbe un duro colpo per la nostra politica strategica e, privandoci di un collegamento con l’area del Sahel, rischierebbe di far perdere al Paese notevoli opportunità anche in ambito economico e commerciale.
Infatti, nell’ottica del considerevole aumento degli scambi commerciali ed energetici che potrebbe svilupparsi nei prossimi decenni tra Europa ed Africa, la nostra posizione geografica ci garantirebbe, a patto di avere un certo grado influenza nella regione circostante, un ruolo da piattaforma logistica naturale, con enormi ritorni sia dal punto di vista economico che dal punto di vista politico.
Recuperare le posizioni perdute non sarà tuttavia facile. Ad esempio, se fino all’inizio del 2019 Roma poteva sperare (per via della Brexit) di essere considerata il miglior alleato degli Stati Uniti all’interno dell’Unione Europea, e, in virtù di questo, sperare anche in un supporto da parte dell’amministrazione Trump riguardo alle sue politiche nel Mediterraneo allargato, l’adesione alla Belt and Road Initative ha parzialmente minato la sua credibilità nei confronti di Washington.
Per quanto concerne invece le altre potenze coinvolte nell’area, è assai improbabile, al di là delle dichiarazioni di cortesia, che queste possano davvero appoggiare un ritorno dell’Italia nella regione.
Paradossalmente, al momento, l’unica parziale occasione in tal senso potrebbe scaturire da una più stretta collaborazione con la Francia, che chiede aiuto nel Sahel in previsione di una riduzione dell’impegno americano. Per questo motivo, malgrado il pessimo stato delle relazioni tra i due Paesi, Roma ha recentemente deciso di inviare nella regione le sue Forze Speciali che, supportate da alcuni elicotteri d’attacco, svolgeranno missioni di combattimento e anti-terrorismo.
Naturalmente, i francesi continuano a chiedere ai propri alleati di associarsi ad operazioni concepite essenzialmente a tutela dei loro stessi interessi. Tuttavia, considerando la posizione in cui è venuta a trovarsi l’Italia, fornire un supporto alle operazioni di Parigi potrebbe aiutare il Paese a reinserirsi in diversi dossier, incluso quello libico.
In ogni caso, la nostra politica dovrà ora cercare di trarre dall’impiego (altamente richiesto) dei nostri uomini sul campo le massime contropartite possibili, impedendo che l’Italia venga relegata al ruolo di semplice comprimaria e cercando di stabilire, non solo con la Francia, ma anche auspicabilmente con Washington, il modus operandi più efficace per la protezione dei nostri interessi nell’area.
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