La nuova alleanza muscolare: Trump, Netanyahu e il ritorno della forza unilaterale

Di Bruno Di Gioacchino
Nei giorni scorsi, a pochi mesi dal suo ritorno alla Casa Bianca, Donald J. Trump ha ordinato un attacco militare su vasta scala contro tre impianti nucleari iraniani – Fordow, Natanz e Isfahan. L’operazione, denominata Midnight Hammer, è stata presentata come risposta preventiva a minacce iraniane contro infrastrutture americane in Medio Oriente e, soprattutto, come atto di sostegno incondizionato a Israele nel pieno della guerra con Hamas nella Striscia di Gaza. Il messaggio politico è apparso chiaro: l’“America First” della seconda era Trump ha assunto una fisionomia marcatamente muscolare.
Il raid – condotto con missili Tomahawk e bombe bunker buster lanciate da B-2 – ha riportato il Medio Oriente in uno stato di allerta permanente. L’intelligence statunitense, pur riconoscendo l’efficacia tecnica dei bombardamenti, ha ammesso che l’interruzione del programma nucleare iraniano potrebbe durare solo pochi mesi. E mentre Trump ha rivendicato il successo dell’operazione evocando persino un possibile “regime change” a Teheran, nel Golfo Persico le diplomazie internazionali si sono attivate per evitare una spirale di escalation.
Parallelamente, in Palestina, l’offensiva israeliana a Gaza si è trasformata in una guerra di logoramento. L’esercito di Gerusalemme, impegnato a smantellare le infrastrutture militari di Hamas, è ostacolato da resistenze urbane, costi umanitari crescenti e una pressione internazionale senza precedenti. Il 21 novembre 2024, la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu, accusandolo di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il governo israeliano ha respinto le accuse, ma l’isolamento diplomatico si è fatto più evidente.
In questo contesto, il doppio binario delle operazioni – l’attacco statunitense all’Iran e l’assedio israeliano a Gaza – non appare come una coincidenza. Si delinea piuttosto una strategia comune: una nuova alleanza tra nazionalismi autoritari occidentali, decisi a contenere l’espansione delle autocrazie illiberali, in primis quella iraniana. Trump e Netanyahu incarnano questa convergenza, tanto sul piano ideologico quanto su quello operativo. Se negli anni della Guerra Fredda il Mediterraneo era il perno dello scontro tra Stati Uniti e URSS, oggi torna ad essere linea di faglia fra due blocchi: da un lato, Washington e Tel Aviv; dall’altro, l’asse informale Teheran-Mosca-Pechino.
Il raid americano di giugno non è soltanto una dimostrazione di forza militare. È anche un atto simbolico di deterrenza, con cui gli Stati Uniti tentano di ristabilire la propria egemonia nel quadrante mediorientale dopo anni di ambiguità strategica. In parallelo, Israele prosegue una guerra che – per quanto giustificata come difesa contro il terrorismo – rischia di trasformarsi in un vicolo cieco politico e morale. Le immagini dalla Striscia di Gaza, con migliaia di vittime civili e interi quartieri rasi al suolo, alimentano proteste globali e rimettono in discussione la legittimità dell’operazione.
Netanyahu e Trump alla Casa Bianca

Intanto, le reazioni internazionali si dividono. I partner europei e le Nazioni Unite lanciano appelli alla moderazione, mentre l’alleanza atlantica si mostra tiepida, divisa tra lealtà storiche e preoccupazioni etiche. L’Iran, colpito duramente ma non piegato, rilancia minacce attraverso i suoi proxy regionali. Russia e Cina colgono l’occasione per denunciare l’unilateralismo occidentale, rafforzando – almeno retoricamente – il proprio asse anti-NATO.

La sensazione è quella di trovarsi davanti a un nuovo paradigma: quello della “proiezione unilaterale della forza”, aggiornato per un’epoca post-globale in cui il multilateralismo sembra in crisi, e le democrazie si piegano alle logiche dei leader forti. L’operazione Midnight Hammer, come già gli attacchi americani alla Siria nel 2017 e 2020, segna il ritorno a una politica estera imperniata sulla deterrenza attiva e sull’azione militare come primo strumento di risoluzione delle crisi.
Ma il prezzo potrebbe essere alto. L’asse Washington-Tel Aviv appare più saldo che mai, ma sempre più isolato. E il conflitto israelo-palestinese, lungi dall’essere una questione regionale, assume le caratteristiche di un conflitto globale a bassa intensità: lo specchio perfetto della nuova guerra fredda tra democrazie nazionaliste e autocrazie emergenti.
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