SCRIVERE DI GUERRA, LA SOLITA COMODA OCCASIONE PER IMPADRONIRSI PERICOLOSAMENTE DELLA STORIA

Di Vincenzo Santo*

ROMA. Parole e immagini da sempre sono strumenti di guerra.

L’aver ormai scelto nel professionismo della comunicazione  e persino nella politica un registro verbale da litigio stradale per additare un qualsiasi avversario e chi si ritenga essere responsabile di un’azione contraria a ciò in cui moralmente si crede e che si ritiene persino contraria ai principi del diritto internazionale è sbagliato.

Si può facilmente convenire sul fatto che Putin sia un delinquente, un assassino o un volgare criminale, come del resto è avvenuto sin dall’inizio di questa vicenda ucraina.

Vladimir Putin

Ma se questi insulti li si fossero lasciati alla fine della delicata vicenda sarebbe stato meglio, limitandosi nel frattempo a sottolinearne, se questo è il convincimento, la sua colpevole inosservanza e persino il suo deprecabile disprezzo delle norme internazionali.

Sarebbe bastato questo.

Ancora peggio se si crede di poter raddrizzare con la forza delle proprie capacità di convincimento e della propria popolarità le pagine della storia, allo scopo di dare maggiore sostanza a quanto si è avventatamente pronunciato con convinzione all’esordio di una vicenda.

È pur legittimo che ognuno prenda dalla storia ciò che piace di più o che fa più comodo, ma non credo che si faccia un buon servizio di informazione.

Se a tutto questo si aggiunge che un magistrato internazionale pare abbia voluto mettere sotto accusa il premier israeliano con il deprecabile obiettivo politico di muovere le coscienze occidentali contro quello stesso personaggio e il suo Paese, grazie alla corrente mediatica che se ne sarebbe generata, al fondo della “non credibilità” di queste istituzioni credo ci si potrebbe trovare senza accorgersene, laddove si rendano complici di fissare per compiacere l’opinione pubblica il bene e il male.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu

Vale per le accuse mosse a Netanyahu come quelle a Putin. Eppure, la storia ha voluto i suoi tempi per condannare chi ne fosse emerso come cattivo.

Comunque, a parte i tribunali, per categorizzare la parte del bene e quella del male ci vuole non solo tempo ma anche fredda ragione.

Anche tra i pochi bravi commentatori c’è infatti chi ha travisato a mio giudizio le vicende storiche.

Ho letto giorni fa un pezzo del bravo Giacalone su La Ragione.

A lui non manca testa e penna, sia chiaro, ma spesso prende delle scorciatoie pericolose e fuorvianti.

In un suo passaggio, egli fa credere che l’Unione Sovietica fosse persino alleata della Germania nazista per il fatto di aver proceduto a spartirsi la Polonia con Hitler.

Un’immagine dell’invasione della Polonia

La reputo un’eccessiva semplificazione.

Del resto, come tante che scorrono sui canali mediatici, secondo un tracciato ormai generalizzato e che ha messo radici in chi gode del privilegio di esprimere il proprio pensiero, spesso senza contraddittorio, via etere o su carta stampata.

Vale per la guerra in Ucraina ma vale anche per la vicenda palestinese. Tanto per alimentare lo spettacolo.

Un’elegante ma anche molto discutibile e pretestuosa sfumatura dialettica per rimarcare il male di oggi, Putin e la Russia, che avrebbe avuto anche quest’anno la boria di festeggiare sulla Piazza Rossa la vittoria in quella guerra, macchiata dall’infamia compiuta dal male di allora, Stalin e l’Unione Sovietica.

L’ipotesi sostenuta che sovietici e nazisti fossero alleati è un’interpretazione che addomestica i fatti della storia. Questa, peraltro, presenta sempre pieghe che non andrebbero trascurate.

Gli eventi della Seconda Guerra Mondiale e su ciò che ne ha creato le premesse io ritengo siano ancora da tracciare compiutamente. Occorre quindi essere cauti e non farsi prendere la mano.

L’Europa, in questo frangente, mi pare presa in un vortice frenetico di viaggi e incontri, che mi pare ritraccino la follia frenetica che la storia ci ha lasciato in eredità tanto dei tempi antecedenti la Grande Guerra quanto di quelli del Secondo conflitto, a partire dalla spinosa vicenda dei Sudeti.

Circostanze che hanno visto, e chi quelle storie le conosce, uno sviluppo caotico di “avvicinamenti e di allontanamenti” financo di “abbandoni” di accordi presi in precedenza.

Ovunque si individua in Monaco 1938 il momento decisivo della tragedia cecoslovacca, quando invece il destino di quella repubblica era già segnato sin dai primi battiti di pace dopo la Prima Guerra Mondiale.

E se si ripercorrono le promesse e gli impegni assicurati a Praga in quegli anni, la similitudine, almeno per me, appare sconcertante.

Si parla sempre di quel Monaco, scordandosi che durò solo due giorni di trattativa – il che per inciso dovrebbe far capire come tutto fosse stato già da tempo deciso dalla totalità degli “europei che contavano” – e lo si prende continuamente a modello per ciò che noi europei dovremmo fare, tanto più ora che Washington appare interessarsi ad altro, per impedire che Putin, vincendo in Ucraina, ripercorra il medesimo e sanguinoso percorso nazista dopo lo sfaldamento della Cecoslovacchia.

Come se la storia, che è il regno del caos, dovesse farci la cortesia di ripetersi uguale.

Magari lo fosse. Si farebbe finalmente a meno di tutti quei fastidiosi dubbi che ci affliggono nelle cose più semplici anche della vita quotidiana.

Ma non è così. Rinfrescarsi le idee sulla peculiarità della teoria del caos, concetto di cui tutti scrivono pensando alla nostra epoca, trascurando il fatto che è sempre stato così, non sarebbe male.

Saremmo più cauti nel formulare previsioni e soprattutto certezze.

Da Lagrange a Poincaré sino al più recente Lorenz, e il suo iniziale poetico riferimento all’effetto farfalla, per via dei grafici legati alle sue equazioni differenziali, la teoria ha visto importanti sviluppi sino ai nostri giorni. Si dia credito al caos, anche se non conviene. Non si abbandoni la virtù del dubbio che è il sale dello studio e delle analisi.

Purtroppo, ormai imperversa la certezza e, su questo andare, l’abuso del “tempo futuro” nel definire lo sviluppo delle vicende internazionali. Come se in queste ci si possa muovere con la medesima agilità con cui ci si destreggia nei fatti della politica interna.

Non sono la medesima cosa e i registri sono infatti differenti, dovendo relazionarsi non con le opposizioni politiche del proprio paese ma in un contesto in cui non esistono amici e alleati permanenti ma interessi nazionali da delineare in obiettivi.

Qualcuno deve averlo spiegato in passato, credo Kissinger.

Di quella storia di Monaco, tra l’altro, ci si scorda anche di un tempo supplementare costituito dell’arbitrato di Vienna.

Di contenziosi territoriali con Praga ce n’erano.

Secondo i protocolli addizionali proprio di Monaco, l’Ungheria (la fastidiosa Ungheria anche dei nostri tempi, in chiave Unione Europea), aveva chiesto a Praga di aprire i negoziati a due, ma non se ne fece nulla.

Pertanto, le controversie furono affidate a Berlino e a Roma che, di fatto, appoggiavano le aspirazioni ungheresi nel rivedere le penalizzazioni subite con il Trattato di Trianon del 1920.

Insomma, il 2 novembre 1938 dalla Cecoslovacchia furono ritagliati territori della Slovacchia meridionale e della Southern Carpathian Rus’, in pratica la Rutenia subcarpatica, a favore di Budapest.

Territori ora parte di Slovacchia (altra fastidiosa realtà dei nostri tempi, sempre in chiave Unione Europea) e Ucraina.

L’Ungheria poi avrebbe disatteso l’accordo raggiunto una volta “dissolta la Cecoslovacchia”, provocando una breve guerra con Bratislava a fine marzo del 1939.

E la tanto oggi osannata Polonia? Ebbene, anch’essa ricevette piccoli riconoscimenti territoriali. Di fatto, altre dispute territoriali erano vive, tra Berlino e la Polonia stessa, ma anche tra questa e l’Unione Sovietica.

I polacchi, lo ricordo, erano rinati come stato dopo la Grande Guerra. Un’entità indipendente su quei territori già parte degli ex imperi russo, austro-ungarico e tedesco.

Una componente importante di quella sorta di barriera geografica che doveva tenere “lontana” la patria del comunismo, l’Unione Sovietica, in sistema con la stessa Cecoslovacchia e la neocreata Jugoslavia.

Naturale che, dopo lo smembramento cecoslovacco, i timori che i nazisti rivolgessero le proprie attenzioni sulla Polonia prendessero corpo. E a ragione.

Mosca, che era stata esclusa dalla Conferenza di Monaco, probabilmente per questo motivo, iniziò a sospettare in un tacito accordo tra Parigi, Londra e Berlino per porre freno al comunismo.

I protagonisti della Conferenza di Monaco (1938)

O che persino si volesse sostenere i nazisti contro Mosca.

Dall’altra parte, le iniziative diplomatiche sovietiche non potevano che sollevare dubbi sulle vere intenzioni di Stalin. Tanto le proposte volte a concorrere alla difesa della Cecoslovacchia quanto quella di schierare proprie truppe al confine tra Polonia e Germania nel caso i nazisti avessero attaccato la Francia non si dimostrarono offerte gradite.

E comprensibilmente, intanto perché Varsavia mai avrebbe tollerato il passaggio delle truppe sovietiche. E anche a Praga, che preferì appoggiarsi agli occidentali, di Stalin non si fidava.

Da qui, nell’estate del 1939, i primi contati diplomatici tra nazisti e sovietici.

Stalin aveva congedato Litvinov, ebreo e troppo occidentale, sostituendolo con l’antipatico Molotov. Ne seguì il tanto famoso “Patto Molotov-Ribbentrop”.

Nella precedente primavera, è importante riportarlo, Mosca aveva avvicinato anche la Finlandia. Questo è un passaggio importante e spesso trascurato.

Con Helsinki c’erano da tempo dissapori. Almeno sin dal 1917, nel corso della Grande Guerra, quando i finlandesi si erano dichiarati indipendenti approfittando della situazione nell’impero russo.

Avevano aperto i propri confini alle forze tedesche e persino sostenuto dopo le formazioni dell’Armata Bianca antibolscevica, nella speranza di riuscire nell’intento di creare la Grande Finlandia, acquisendo la Carelia orientale e persino la Penisola di Kola.

Helsinki aveva anche dato la disponibilità, nel 1919, delle proprie basi navali alla flotta britannica per confrontarsi con la Marina bolscevica.

Le simpatie finlandesi nei confronti di Berlino erano quindi considerate solide da Mosca, tanto da ritenere che Helsinki non si sarebbe sottratta a un sostegno ai nazisti in caso di guerra contro l’Unione Sovietica, malgrado il patto di non aggressione stipulato nel 1932 e rinnovato due anni dopo per altri dieci anni.

Per farla breve, quei colloqui tra i due fallirono. Da qui la Guerra d’Inverno, dal 30 novembre 1939 al 12 marzo 1940.

Tutto questo per dire cosa? Soltanto che Mosca era ben convinta delle intenzioni naziste.

E aveva ragione di dubitare dei finlandesi che, all’indomani dell’invasione tedesca, il 22 giugno 1941, ripresero le ostilità contro i sovietici.

Fu la cosiddetta “Guerra di Continuazione” che, dopo l’iniziale avanzata finlandese con l’occupazione della parte orientale della Carelia, si protrasse per tre anni in una guerra di posizione. Poi, dopo l’armistizio del settembre 1944, i finlandesi iniziarono a combattere contro i tedeschi.

Dovrebbe ricordarci qualcosa di simile avvenuto sulla nostra penisola.

Ad ogni modo, sempre sulla Finlandia, non mi risulta siano mai state trovate tracce documentali sull’intenzione sovietica di annettersi tutto quel paese. Vale la pena fare un inciso che ci collega ai nostri giorni.

La preoccupazione principale di Mosca si identificava allora con la necessità strategica di proteggere l’allora Leningrado, oggi San Pietroburgo, assicurandosi il controllo del Golfo di Finlandia.

Oggi, con l’ammissione nella NATO della Svezia e proprio della Finlandia, non si è fatto altro che rinverdire quelle preoccupazioni e creare probabilmente le premesse per lo sviluppo di nuove e pericolose tensioni in quel quadrante.

L’ingresso di quei due paesi è, infatti, avvenuta a dispetto dei dettati del Patto Atlantico che, nel suo articolo 10, sancisce con chiarezza che l’inclusione di altri membri avvenga solo per invito e non perché uno stato non membro semplicemente lo chieda.

Purtroppo, anche qui, la semplificazione giornalistica, ma anche di molti intellettuali e politici ignoranti, nostrani e no, ha inteso svendere ripetutamente la libertà di un popolo di decidere il proprio destino e in questo essere libero di aderire a un’alleanza.

Uno stato può chiedere di entrare a far parte dell’Unione Europea, ad esempio, ma non è così per la NATO.

Ora, che l’intolleranza e il reciproco sospetto tra Parigi e Londra da una parte e Mosca dall’altra avessero portato a questo risultato, parlo dell’avvicinamento tra Mosca e Berlino, è indubbio.
Ma è anche indubbio per me il convincimento sovietico di doversi prima o poi confrontarsi militarmente con Hitler. Ben al di là delle “photo opportunity” e degli accordi firmati.
Quindi, era necessario prendere tempo, tanto per sanare le ferite delle precedenti purghe staliniane anche tra le file degli alti ranghi militari quanto per il contemporaneo impegno sovietico nella Russia asiatica, laddove il Giappone non se ne stava a guardare ed era in procinto di invadere la Manciuria.
Quindi, quel patto per Mosca doveva essere solo un tentativo di porre una “barriera diplomatica” per prepararsi a fronteggiare future evoluzioni.
Il guadagnare tempo credo fosse nella testa anche del tanto vituperato Neville Chamberlain, quello di Monaco, perché il fratellastro più anziano, Austen, anche lui politico di rilievo nel Regno, e premio Nobel per la pace nel 1925, era deceduto nel 1937.
Infatti, anche Neville, con quella Conferenza, sperava di poterlo fare, conscio dell’impreparazione delle sue Forze Armate.
Hitler, da parte sua, con questo patto probabilmente sperava di riuscire nel medesimo gioco già riuscito con i Sudeti e con la Cecoslovacchia e di far quindi desistere “gli occidentali” dall’intervenire quando poi avrebbe invaso la Polonia.
E fatta propria anche l’Ucraina. Infatti, come raccontato da Raymond Cartier nel suo “Le monde entre deux guerres (1919-1939)“, Hitler avrebbe affermato già solo poche ore prima della conclusione dell’accordo: “ho bisogno dell’Ucraina, altrimenti ci faranno morire di fame come durante la guerra passata”.
Anche Stalin invase la Polonia, è vero. E il noto protocollo supplementare anticipava più grandi ambizioni di spartizione da ambo le parti, con atrocità commesse poi anche dai sovietici. Non scordiamoci di Katyn.
Tuttavia, non mi risulta che Mosca abbia mai sostenuto Berlino nell’avventura bellica sul fronte occidentale contro la Francia o nella Battaglia d’Inghilterra.
Anche se, è vero, la rinascita dell’esercito tedesco aveva trovato iniziale accoglienza proprio dai sovietici. Reciproco interesse.
Mosca aveva aiutato i tedeschi ad aggirare, sin dopo il Trattato di Rapallo (1922), le condizioni imposte a Versailles.
E la Germania aveva aiutato l’Unione Sovietica con l’industrializzazione.
Gli ufficiali sovietici dovevano essere addestrati in Germania mentre carristi e aviatori tedeschi, c’era una scuola per piloti da caccia a Lipetsk, potevano esercitarsi in Unione Sovietica.
Forse esisteva anche un accordo per la ricerca e la produzione anche di armi non convenzionali. Ma il tutto si chiuse proprio nel settembre 1933, proprio poco dopo l’ascesa di Hitler.
Quindi, mi pare avventuroso credere in un profondo radicamento amichevole tra sovietici e il regime nazista. Arrivare pertanto a considerarli alleati ce ne passa. Non lo erano affatto.
Vicini per reciproca convenienza e temporaneamente. Entrambi lo sapevano che si sarebbero combattuti.
Non c’è alcun dubbio che la guerra in Ucraina abbia dato sfogo alla principale attitudine degli italiani, quella di dividersi per tifo. Difficile parlarne. Dopo queste mie righe in molti penseranno che io difenda Mosca e Putin.
Non è così. A me piace leggere i fatti e dargli un senso sfuggendo al gioco degli sbandieramenti, soprattutto quando la sostanza storica presenta risvolti che dovrebbero suggerire cautela nei giudizi.
E screditare i sovietici di allora per gettare ulteriore discredito sui russi di oggi mi pare un’operazione non all’altezza di un intellettuale pur di grande vaglia.
Concordo, seguendo sempre quanto scritto da lui, Giacalone, sul fatto che gli ucraini abbiano combattuto in quel conflitto con onore e sacrificio. Credo si riferisse alle componenti dell’Armata Rossa.
Perché è anche ben nota l’esistenza in quel conflitto di formazioni dirette dal comando tedesco e composte da effettivi ucraini, tra le quali persino la  Waffen-Grenadier-Division der SS (galizische Nr. 1), costituita nel 1943 e impiegata principalmente nella repressione delle varie guerriglie partigiane.
Venne poi inquadrata, siamo nelle batture finali della guerra, nel neocostituito Esercito Nazionale Ucraino. Di fatto, alleati dei “nostri repubblichini”.
Senza tralasciare l’Esercito Insurrezionale Ucraino, l’ala militare dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, capitanata dall’oramai noto Stepan Bandera, che ora con i tedeschi, poi contro di loro e quindi contro i sovietici, di cose poche molto poco commendevoli finì per diventare responsabile.
E sarebbe utile rileggere la storia e le posizioni di molti ucraini in Galizia e di come loro guardassero al Terzo Reich per ottenere una propria “statualità” indipendente approfittando della situazione.
In conclusione, Unione Sovietica e Germania nazista non sono mai stati alleati e una non trascurabile parte degli ucraini, come i nostri di Salò, con i nazisti andavano d’accordo.
Fare riferimento parziale a quei fatti, addomesticandone gli accadimenti per sostenere le proprie opinioni, facendosi forza di quanto si è oramai seguiti e applauditi non è di nessun aiuto a una corretta informazione.
Magari solo perché sin dall’inizio, senza conoscere o volutamente disconoscendo la complessa concatenazione di causa-effetto, che marca dolorosamente e da sempre le vicende umane, si è espresso un giudizio affrettato, forse anche avventato, che occorre comunque sostenere ad oltranza.
È presunzione, forse anche un pizzico di superbia. Per carità, lecito farlo, ma chi si pone in questo modo merita almeno il Purgatorio, dove Dante pone i superbi.
Basterebbe limitarsi all’assunto che chi viene attaccato sia giusto che si difenda e persino che venga aiutato e nel modo che più soddisfi gli interessi nazionali, ma lasciando da parte stupidaggini sentimentali del tipo “gli ucraini combattono anche per la nostra libertà”, roba da catechismo.
Gli eventi storici riportano alla luce pieghe che non è possibile spianare con l’idea di poterlo fare in forza dei propri (pre)convincimenti morali o, peggio, di ordine etico, indirizzando da che parte stia il bene e da che parte il male.
Una visione manichea che ha fatto inciampare molta gente e molti presunti “lettori del futuro”.
Aver ritenuto che Putin dovesse andare a Istanbul grazie alle pressioni ulteriori – anche questo è stato affermato – che i leader della coalition of the willing hanno formulato giorni fa da Kiev, a mio giudizio un vergognoso “tavolo incondizionato” molto vicino alla formulazione di una “resa incondizionata” da Seconda Guerra Mondiale, significa solo ridurre al conciliabolo confuso della nostra politica interna un dossier “estero” che, in quanto tale, meriterebbe un’attenzione e un’analisi più accurata sfuggendo alla trappola dei comunicati e delle foto di rito.
L’analisi postula studio e quindi conoscenza dei fatti passati ma anche delle dinamiche del mondo per arrivare a formulare che cosa il proprio paese debba fare.
Quindi, una strategia, il resto è fuffa. E se quello che si deve fare si deve basare su paralleli anche artefatti tratti dalla storia, indicando con approccio apodittico dove sia il bene e dove il male, io lo ritengo al limite della circonvenzione di incapace ai danni del comune lettore italiano.
Anche perché, purtroppo, una cosa certa nella nostra storia è che chi poi prende posto dalla parte del male di norma è la parte perdente.
Coloro che, pur giudicati malvagi all’inizia di una vicenda, escono poi vincitori, possono suscitare sdegno e persino rabbiosa indignazione, ma finisce lì.
Sono sentimenti che per coloro che vestono il ruolo di osservatori privilegiati degli avvenimenti hanno vita breve a fronte del più significativo sollievo che si genera per una catastrofe comunque scampata.
Se l’era già chiesto George Eliot, al secolo Mary Anne Evans, nel suo “Il mulino sulla Floss”, se la guerra, come tutti gli spettacoli drammatici, potrebbe mai cessare in mancanza di pubblico.
E il pubblico paga per assistere agli spettacoli per poi giocare a dividersi in fazioni a prescindere dal vero spirito dello spettacolo, cioè il senso dei fatti, il suo messaggio, cioè la sua reale storia, ma nell’unica sottaciuta speranza che quella tempesta cui assistono gli rimanga lontana.
Aiutarlo in questo con semplificazioni storiche è quasi un abuso di potere.

*Generale di Corpo d’Armata (ris) dell’Esercito 

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