Di Marco Petrelli
MILANO (nostro servizio particolare). Ventinove aprile 1945. I giorni di gioia e di furore della Liberazione ammantavano la città ambrosiana.
Era il momento della felicità, per l’arrivo degli Alleati e la ritrovata libertà. Ma è anche il momento del sangue della resa dei conti, iniziata ben prima e che durerà ben oltre il 1945.
In Lombardia le epurazioni a colpi d’arma da fuoco investirono, talvolta senza distinguo, i fascisti sconfitti ed i partigiani “contro”.
Ad esempio, Luigi Canali “Capitano Neri”, un veterano di Russia e capo di Stato maggiore della 52° Brigata partigiana Garibaldi “Clerici”, scomparso il 6 maggio 1945.

Luigi Canali “Capitano Neri”, un veterano di Russia e capo di Stato maggiore della 52° Brigata partigiana Garibaldi “Clerici”,
Episodio singolare: fu infatti Canali ad arrestare il Duce in fuga. Recenti studi avrebbero attestato, inoltre, la partecipazione del Canali all’esecuzione di Mussolini dunque, come è possibile che un combattente di tale ruolo possa essere sparito nel giro di pochissimo tempo e senza lasciare traccia?
Una spiegazione fu la sua contrarietà all’acquisizione, da parte del Partito comunista, dell’intera cassa della Repubblica sociale italiana (RSI), trovata addosso a Mussolini e stimata in circa 600 milioni di lire dell’epoca.
Contrarietà che può avergli costata la vita.
Altro elemento che confermerebbe la tesi dell’eliminazione per fini politici, il tragico destino di Giuseppina “Gianna” Tuissi, staffetta della “Clerici”
e sua stretta collaboratrice, uccisa nel giugno seguente e poi scaraventata nel lago di Como.

Giuseppina “Gianna” Tuissi, staffetta della “Clerici”
Era stata lei ad inventariare l’oro di Dongo ed era lei che cercava la verità sulla tragica sorte del Capitano Neri.
Altre morti senza motivo si registrarono il 29 aprile, nel giorno in cui i cadaveri di Benito Mussolini, Claretta Petacci e di 18 gerarchi finirono appesi alla pompa di benzina di Piazzale Loreto ed abbandonati al pubblico ludibrio.
In quelle ore, alla caserma del “Savoia Cavalleria” di Viale Monti caddero due ufficiali dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana: il Maggiore Adriano Visconti, pluridecorato asso della caccia italiana e il Sottotenente Valerio Stefanini che tentò di fargli da scudo col suo corpo.

Il Maggiore Adriano Visconti
Esecutori, i partigiani delle formazioni garibaldine comandate da Aldo Aniasi, futuro sindaco di Milano e ministro nei Governi Spadolini, Cossiga e Forlani.
Episodio drammatico e privo di senso: a Gallarate, ultima sede del Gruppo caccia “Asso di Bastoni” da lui comandato, il Maggiore Visconti aveva infatti sottoscritto un accordo con il CLNAI (Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia) che garantiva, al personale militare del Gruppo, incolumità in cambio della resa.
Stefanini e Visconti, inoltre, non avevano preso parte alla guerra civile limitandosi a compiere il dovere di ogni pilota: difendere i cieli patri.
Nel loro caso, limitare le incursioni aeree anglo-americane, che avevano causato oltre 60 mila vittime e distrutto interi centri urbani ed industriali, erano stati l’obiettivo dei piloti caccia sin dal 1940, quando ancora c’era la Regia Aeronautica.
Assurde ed ingiustificate morti ad una settimana dalla fine delle ostilità in Europa e che odorano di omicidio.
L’insensatezza è tuttavia figlia delle guerre civili, in particolare di quella combattuta in Italia.
Nel marzo 1944, i 12 Carabinieri in servizio di sorveglianza all’impianto di Bretto di sotto (oggi Slovenia) furono catturati, torturati ed uccisi da elementi jugoslavi penentrati in territorio italiano.
I corpi, con i segni delle sevizie e del vilipendio, furono rinvenuti dai civili italiani in località Malga Bala.

Un’immagine in ricordo dell’eccidio di Malga Bala
Motivo? L’area era da tempo un crocevia di tedeschi e di partigiani, tantoché il comando germanico aveva ordinato che gli impianti della centrale di Bretto fossero sorvegliati dai carabinieri, di fatto unici militari in territorio occupato a non avere prestato fedeltà alla RSI e alla Germania e che per questo, in molti casi, pagarono con la fucilazione o con la deportazione nei lager.
La fedeltà al Re Vittorio Emanuele III non era sfuggita alle forze più radicali della Resistenza e agli jugoslavi che miravano ad occupare, a conflitto finito, il Friuli Venezia Giulia.
Per tedeschi e partigiani, insomma, i Carabinieri rappresentavano l’autorità di uno stato nemico: i 12 militari di Malga caddero per il loro essere un simbolo della presenza dello Stato italiano in un’area occupata dai nazisti e rivendicata dai titini.
I simboli fanno paura, da vivi e da morti. Un mese e mezzo dopo Malga Bala a cadere sotto i colpi di partigiani slavi ed italiani è Maceo Carloni, sindacalista delle Accierie di Terni.

Maceo Carloni
Già, quasi 700 chilometri più a Sud, nel cuore dell’Italia centrale dove, sin dal settembre 1943, operavano diverse formazioni slave formate da prigionieri fuggiti da Spoleto, Colfiorito ed altre località di internamento.
Membro del sindacato fascista, Carloni aveva rifiutato l’adesione alla RSI pur continuando il suo lavoro in fabbrica, dove si batteva inoltre contro l’espoliazione tedesca dei macchinari di produzione.
La sera del 4 maggio 1944, nella frazione di Casteldilago, una decina di chilometri dal centro di Terni, Carloni fu prelevato dalla sua casa di fronte alla moglie ed ai figli.
Portato nel vicino bosco, fu ucciso a coltellate e per sfondamento del cranio.
Il corpo vilipeso con tanto di castrazione. Responsabili, partigiani della Brigata Garibaldina “Antonio Gramsci”: dopo il ritiro e lo sbandamento causati dal feroce rastrellamento tedesco di Leonessa, l’attività della Brigata si era ridotta alla caccia a spie o presunte tali.
Altre ipotesi sul movente dell’assassinio suggeriscono che l’impegno da sindacalista prima della guerra a favore di disabili, donne ed ex detenuti abbia potuto rappresentare una scomoda eredità di cui era meglio sbarazzarsi.
Caddero in quel periodo di sospetti e uccisioni anche il novantenne ternano Augusto Centofanti e la 16 enne Iolanda Dobrilla da Capo d’Istria.
Il Sottotenente dei Lancieri di Montebello e comandante di banda Mario Lupo era invece scomparso poco prima dell’azione di Leonessa, senza motivo e senza lasciare traccia.
Solo in seguito, si seppe fosse in disaccordo con il modus operandi della Gramsci, ad esempio sul trattamento riservato ai sospetti di spionaggio…
Tornando al 1945, pure in un’altra frazione del Ternano si piangeva un figlio ucciso.
A Papigno (due passi dalla celebre cascata delle Marmore) il registro comunale riporta ancora la data ed il luogo di morte del 21 enne Sante Conti: “morto a Codevigo il 29 aprile 1945”.

L’annotazione di morte di Sante Conti
Conti, sottotenente della Guardia nazionale repubblicana (GNR), è uno dei 136 fra civili e militari della RSI fucilati dai partigiani della “Gordini” e da elementi del Gruppo combattimento “Cremona” nella località padovana.
Ironia della sorte, nel “Cremona” erano inquadrati anche partigiani della “Gramsci”.
Ricordare questi episodi non ha carattere “revisionista” né vuol essere una giustificazione storica.
E’, semmai, un dovere storico: sono eventi tragici, tutti realmente accaduti e sui quali non è mai stata fatta piena luce.
Perché, è bene ricordarlo, anche il bene ha zone d’ombra.
E se tali zone non sono illuminate dalla ricerca e della memoria resteranno macchie indelebili sull’identità dell’intero Popolo.
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