Sicurezza in Francia, la debacle di François Hollande

Di Enzo Santo * e Alessandro Gentili **

“Dum Romae consolitur, Saguntum expugnatur!”. Anche oggi, Tito Livio, leggendo le cronache degli attentati che hanno insanguinato la Francia, potrebbe commentare che mentre a Bruxelles si discute inutilmente, Parigi brucia, o qualcosa del genere. Le reazioni registrate nell’immediatezza dei più gravi eventi furono affermazioni di principio quali “non cederemo” e “non ci faremo intimidire” alle quali sono incessantemente seguiti altri efferati attentati, tutti di identica matrice terroristica islamica! Eppure la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo da anni era nel mirino dell’islam radicale per la sua costante provocazione nei confronti delle religioni e così pure il Bataclan, i cui proprietari sono ricchi ebrei invisi a certe realtà antisemitiche della capitale. Sia il giornale che la sala concerti avevano nel tempo ricevuto minacce.

Su La Stampa-mondo del 25 maggio 2012 comparve un servizio dal titolo “Nelle banlieue dimenticate: qui non è cambiato nulla”. Mohamed Mechmace dell’Associazione “Ac le feu” (basta fuochi), nata per trasformare la famigerata e ben nota rivolta del 2005 in azione civica e politica e per dare cittadinanza a generazioni cresciute nell’odio, dichiarava all’inviato Cesare Martinetti che la situazione è oggi semplicemente “catastrophique”: niente è cambiato da allora. Disoccupazione al massimo storico, degrado, se possibile, ancora di più. Mohamed, poi, ricordava al cronista che con Nicola Sarkozy vi era stata una presa di coscienza dei banlieusard, tanto che più di tre milioni di figli immigrati erano andati a votare nel 2007, ma purtroppo con Sarko la risposta fu solo una sterile politica di ordine.

Nelle elezioni presidenziali successive, le banlieue si orientarono a votare per François Hollande, ritendo questa occasione “l’ultimo treno” per la sinistra. Ma gli attentati che da Charlie Hebdo in poi si sono susseguiti sono la riprova che la Francia di Hollande ha tradito le aspettative e ha aggravato un quadro di forte instabilità nella vasta realtà della popolazione composta da musulmani berberi, arabi ed africani, che la potenza coloniale francese evidentemente non ha saputo integrare. E lo stesso fenomeno, e per le stesse ragioni, era esploso sanguinosamente anche in Belgio. Attentati che hanno indubbi collegamenti non solo ideologici ma si avvalgono di sicuro sostegno e complicità nell’ambiente del radicalismo islamico di impronta jihadista, che trova fertilissimo habitat nelle periferie delle città di Francia e Belgio.

Ricordiamo in ordine cronologico i fatti di sangue dell’11 maggio 2004 in tre stazioni ferroviarie a Madrid, del 7 luglio 2005 in metropolitana e su un bus a Londra, il 7 e 9 gennaio 2015 a Parigi presso il giornale satirico Charlie Hebdo ed in un supermercato Kosher di Vincennes, il 13 novembre 2015 con tre attentati contemporaneamente nella sala concerti Bataclan, in bar e ristoranti dell’11° arrondissement e presso lo Stade de France, il 22 marzo 2016 a Bruxelles all’aeroporto e in metropolitana, il 1° luglio 2016 in un ristorante di Dacca in Bangladesh, il 14 luglio 2016 una strage con un autoarticolato lungo la Promenade des Anglais a Nizza, il 18, il 22 e il 24 luglio 2016, in Germania, aggressioni a colpi d’ascia , sparatorie, kamikaze e di nuovo aggressione con machete, il 26 luglio 2016 a Rouen in una chiesa cattolica sgozzano un anziano sacerdote, il 19 dicembre 2016 a Berlino un autoarticolato si schianta sulla folla vicino una chiesa, il 20 aprile 2017 a Parigi aggressione ad agenti di polizia negli Champs Elysée.

Per la Francia di Hollande, dunque una debacle totale ed un interrogativo su tutti: se siamo in guerra, perché non combattiamo? E, poi, perché non ci difendiamo, perché la politica, l’intelligence, la Polizia e la magistratura, le forze armate non prendono atto di una situazione straordinaria che va affrontata con priorità assoluta e strumenti straordinari? Hollande infatti ha promulgato lo stato di emergenza, che l’Assemblea Nazionale ha ormai prorogato molte volte; ma tutti, politica, magistratura, opinione pubblica si interrogano sulla effettiva necessità di tale misura, mostratasi assolutamente inadeguata a fronteggiare un fenomeno che continua a seminare morte e paura. Sui giornali francesi si dibatte vivacemente tra chi sostiene l’utilità dello stato di emergenza e chi invece la nega. Quasi tutti sono concordi sul fatto che il Governo, nonostante le dichiarazioni di principio continui a lesinare risorse alle forze di polizia, carenti di dotazioni e tecnologie aggiornate e adeguate alla speciale emergenza.

Peraltro, le fonti più qualificate non riescono a formulare giudizi sulla reale validità delle misure previste per lo stato di emergenza, atteso che esso è stato sino ad ora lo strumento per cercare di prevenire attacchi non prevedibili. Comunque sono tutti concordi nel ritenere il mantenimento dello stato di emergenza come una soluzione tra le meno peggiori e, poi, l’acuirsi delle tensioni internazionali e le condizioni di crescente difficoltà che sta incontrando l’Isis rendono difficile legittimare una transizione dallo stato di emergenza al nulla. Questo stato di emergenza prevede la messa in campo, oltre a un migliaio di soldati dell’Armée per presidiare obiettivi sensibili a Parigi, tutte le forze di polizia – che contano di circa 150 mila elementi per la Police Nationale e 100 mila per la Gendarmerie Nationale – cui viene chiesto di intensificare i controlli, perquisizioni e ogni tipo di attività necessaria per rafforzare tutti i dispositivi di controllo del territorio e delle persone sospette.

Questi due Corpi dispongono poi di unità di élites che ora vengono tenute in costante stato di allerta e che negli attentati sopra descritti non sembra però abbiano sempre dato una buona prova di sé. Se poi si riflette su quanto avvenuto a Nizza il 14 luglio 2016, nel giorno della Festa Nazionale, che ha visto totalmente assenti le due Polizie dello Stato, in una città affollata di turisti e di cittadini, ed i contrasti che seguirono alla strage tra i vertici dei corpi e del Ministero dell’Interno, il quadro è desolante. Gli eventi verificatesi hanno messo in luce un sistema sicurezza inadeguato. Infatti, una Commissione d’inchiesta parlamentare, dieci giorni prima dell’attentato di Nizza, aveva svelato le numerose falle nella organizzazione e nelle procedure di intervento dell’intelligence francese sottolineandone il “fallimento globale”.

La Francia, che dispone di ben sei differenti unità di intelligence, che rispondono ad altrettanti ministeri, tra cui Difesa, Interno ed Economia, ha un apparato così complesso che di fronte all’esigenza di risposte immediate si traduce in un sostanziale immobilismo. Solo ultimamente, le autorità francesi stanno considerando seriamente la necessità di un rinnovamento radicale della struttura dei servizi segreti, ma nei fatti né ai leader politici né al parlamento sembra interessare veramente. Oltre alle difficoltà a scambiare informazioni e la complessità organizzativa, altri problemi affliggono il sistema sicurezza. Sia l’intelligence che la Polizia non conoscono bene – sempre secondo la citata Commissione – il contesto operativo con cui devono interagire, i data base dell’intelligence e delle polizie non interagiscono tra di loro e gli archivi registrano migliaia di nominativi di persone sospette, non solo per terrorismo ma anche radicali anti-globalizzazione, radicali ecologisti e hooligan che risulta impossibile tenere costantemente sotto controllo.

Da ciò discende il fatto che le autorità possono anche conoscere chi può essere pericoloso, ma non sono in grado di prevenire gli attacchi e spesso neppure di fronteggiarli. Non solo, anche la collaborazione della cittadinanza nei confronti della polizia è estranea alla cultura francese. E lo stato di emergenza non ha finora neppure consentito di dotare i poliziotti delle armi di assalto in dotazione all’Esercito. Così, per la Commissione d’inchiesta il primo passo da affrontare sarebbe l’unificazione dei servizi, di intelligence sulla base del modello americano.

Altro fattore di crisi e perenne vulnerabilità è la palese rivalità tra i reparti speciali delle polizie addestrati per operare in azioni antiterrorismo, liberazione di ostaggi, ecc.

I principali reparti speciali annoverano nella Gendarmerie Nationale l’Escadron parachutiste d’intervention de Gendarmerie Nationale (EPIGN) e le Groupe d’intervention de la Gendarmerie Nationale (GIGN) e nella Police Nationale le Group de intervention de la Police Nationale GIPN), la Brigade de recherce e d’intervention (BRI), Recherce, assistance, intervention, dissuasion (RAID).

In particolare, il GIGN e il GIPN sono specializzati nelle operazioni antiterrorismo e liberazione di ostaggi mentre la BRI e RAID sono unità speciali investigative e di intervento. I morti tra gli ostaggi del supermercato kosher di Vincennes hanno però evidenziato come la tempestività e la capacità di intervento lasciano comunque molto a desiderare. Problemi sono emersi anche tra la direzione dei Servizi del Dipartimento di Polizia di Parigi e la Direction centrale du renseignement généraux (DGRG) che dovrebbe coordinare tutte le indagini ma che risulta privata di fatto dei suoi poteri.

Sia con Sarkozy che con Hollande la Francia ha avuto costantemente altre priorità. Con Hollande, poi, si è registrata una sua propensione a privilegiare la politica estera – rispetto ai problemi interni del Paese – di cui è stato spesso protagonista in prima persona; inoltre sia Hollande che Sarkozy hanno preferito impiegare spesso i Servizi segreti più per seguire gli avversari politici che per monitorare i potenziali pericoli per il paese.

Anche i vertici delle Polizie sono apparsi più attenti alle vicende della politica che a quelle della sicurezza. Non ultimo, il trasferimento della Gendarmeria dal Ministero della Difesa a quello dell’Interno, collocandola di fatto alle dipendenze della Police Nationale ha creato una ulteriore motivo di scarsa collaborazione e interazione tra i vertici dei Corpi stessi. Anche la magistratura francese, normalmente molto garantista, ha gravi responsabilità per avere vanificato molto spesso provvedimenti di polizia e rimesso in libertà persone ritenute pericolose e rivelatesi successivamente feroci terroristi.

La possibile vittoria nel ballottaggio del prossimo 7 maggio di Emmanuel Macron non fa prevedere un’inversione di tendenza, nella volontà di affrontare i problemi della sicurezza interna del paese, collocandoli su un piano di assoluta priorità come il momento esigerebbe ma il programma del candidato alla Presidenza non contempla questa esigenza che invece la concorrente Marine Le Pen mette al primo posto.

Sicurezza “interna” quindi discutibile, se si vuole; ma la sicurezza di un Paese si basa anche su quanto fa al di fuori del territorio nazionale. La Francia ha un’importante politica estera, da sempre. Politica che è parte di una strategia nazionale di sicurezza. La politica estera, infatti, è una combinazione di linee strategiche di cui attori sono gli strumenti di potere di una nazione, da quello economico a quello militare, pertanto non è solo semplice ed elegante diplomazia. Ma c’è anche una diplomazia economica, una diplomazia finanziaria. Oggi, persino un’intelligence economica.

Molto diffusa è l’errata interpretazione che la guerra sia la continuazione della politica con altri mezzi, adeguandosi alla semplificazione fattane da Clausewitz, ma non tenendo in debito conto che, nella realtà, la politica non smette mai, anche conflitto durante; guai sarebbero! Inoltre, la politica estera dei tempi dell’ufficiale prussiano era differente dalla politica estera di oggi; quella era governata ancora dagli interessi delle casate, quella di oggi dagli interessi degli Stati. Ciò nonostante, capolavori diplomatici come il Congresso di Vienna furono realizzati da personaggi di quell’epoca e rimangono nella storia come fossero opere d’arte. Altri cervelli!

Se parliamo di sicurezza anti-terrorismo, quindi di lotta contro il terrorismo di matrice islamica, allora dobbiamo fare riferimento soprattutto a cosa la Francia fa in Africa(1). Certo, abbiamo la Siria e i suoi dintorni, e altro ancora, ma nel continente nero è il paese europeo più impegnato in questa lotta. Almeno così appare.

Alla Francia, ma anche alla Gran Bretagna, non va giù che, con la “ritirata strategica” obamiana, una sorta di leadership di secondo grado, come afferma Sapelli(2), potesse essere affidata all’Italia. Ancora più rabbiosi, i nostri cugini d’oltralpe, dopo le critiche che lo stesso Obama espresse durante un’intervista nei loro riguardi, per il ruolo avuto nella faccenda libica del 2011.

L’imperativo, pertanto, è quello di impedire l’emergere dell’Italia come leadershhip di seconda istanza “a medio raggio” per ristabilire l’ordine in un punto strategico. Forse Trump, nel suo recente incontro con il nostro Gentiloni, potrebbe aver confermato questo ruolo, ma le parole sono parole, vanno confermate con i fatti, e i fatti, cioè le azioni dobbiamo farli noi. Ma bene. Ma questo è un altro discorso.

La rotta del futuro è l’Africa, a partire dal suo Nord. Ed è su questo Nord dove la Francia, non solo da Hollande, si è proiettata, ben comprendendo che la fascia del Maghreb libico è terra di conquista, non più coloniale, ovviamente, ma di influenza, appoggiandosi all’Egitto che interesse ne ha, e non poco, nella Cirenaica; ed è per questo che favorisce Haftar. Conseguentemente, ha una ferrea logica per i transalpini impegnare le proprie forze speciali per accompagnare lo stesso generale libico nelle sue iniziative militari. La Francia simpatizza per Haftar e fa finta di appoggiare Tripoli? Sì, e fa benissimo! Noi invece con l’Egitto abbiamo litigato perché vogliamo una nostra verità sulla morte del pur povero Regeni.

È nel Mediterraneo che l’Italia finirà di pagare il conto alla Francia, conto apertosi con la primavera araba e l’eliminazione di Gheddafi e che terminerà con tutta probabilità con la spartizione della Libia e la nostra estromissione anche dai giacimenti più giovani, proprio quelli della Tripolitania. Dalla nuova Libia, all’Africa sub-sahariana. Quella da cui partono migliaia di disgraziati, convinti e illusi, persino soggiogati se non persino obbligati, che venire in Europa significherà stare meglio. Quelli che stanno affogando l’Italia in un vortice di deficit e, quindi, di debito pubblico, verso il quale l’Europa, Germania in testa, Francia in secondo ordine, storce il naso, rifiutandosi nei fatti di aiutarci come vorremmo. C’è un disegno destabilizzante in questo?

Ma, allo stesso tempo, è possibile che alla Francia faccia comodo questa debolezza italica; può isolarci politicamente per il fatto che non effettuiamo i controlli previsti e ci tiene impegnati su un fronte interno, facendo perdere ai nostri politici il filo conduttore delle dinamiche africane. Impresa non difficile, del resto, verso una classe politica incapace di vedere lontano. La presenza di Parigi in quelle aree, non solo militare, è invidiabile e significativa. Pertanto, non risulta francamente chiaro il perché non siano stati affinati strumenti operativi tra noi e la Francia, quindi tra la Francia e le sue ex colonie sub-sahariane, per limitare (obiettivo minimo) il flusso almeno da quelle parti di questa migrazione senza limiti.

È comunque in quel continente che si gioca la partita per il dominio globale. La Cina lo ha capito e anche la Francia. Le risorse africane fanno gola, naturalmente, soprattutto laddove dall’Islam si passa ad aree dove l’animismo favorisce le divisioni e, pertanto, l’influenza di potenze esterne, appunto come la Francia. Paese che, già presente con il suo “franco africano”, retto dalla sua Banca Centrale e utilizzato in 14 Stati, guarda con soddisfazione alle attività dei propri privati.

Non ultimo il ben noto a noi Bollorè, lì ormai da qualche decennio, in settori quali i trasporti, l’import-export, grazie alle privatizzazioni che le istituzioni finanziarie mondiali hanno imposto ad alcuni paesi africani per ripagare i debiti(3).

In un’Europa dominata dalla Merkel, uno sfogo, oltreché storico, è il continente africano. C’è anche la Russia, è vero, ma nel gioco della stabilizzazione del Medio Oriente e della Libia c’è posto per tutti, con Mosca che si accontenterà probabilmente della parte siriana, allo scopo di fare ponte tra la Crimea e l’Egitto, quindi, con il Corno d‘Africa, area di probabile interesse russo nel continente nero(4).

Quindi, imperativo essere presenti per il futuro, per anticipare da quelle parti l’ulteriore globalizzazione e dirigerne la statualizzazione, per prevenire, per conoscere prima degli altri, per espandersi allo scopo di diversificare sia gli approvvigionamenti di materie prime sia per incrementare le fette di mercato(5). Pare poco? Cosa stiamo facendo noi, Italia, nella famosa politica del “fare da soli”, così tanto decantata da Renzi? Forse soltanto donare del denaro?

Ma anche quel bel pezzo d’Africa è sotto la mira di gruppi terroristici legati all’ISIS o ad al-Qaeda. La Francia pertanto, si preoccupa correttamente della difesa della prima fonte di approvvigionamento di materie prime, quali ad esempio lo stesso uranio per le sue centrali nucleari (che fino all’anno passato producevano circa l’80% del fabbisogno nazionale di energia), che è il Niger. Ma anche il 30% del petrolio che la Francia importa arriva dall’Africa. Negli ultimi anni, quindi, si è potuto assistere ad una vera e propria rinascita della Françafrique.

Come affermava François Mitterand, “è grazie all’Africa che la Francia ha un posto nella storia del ventunesimo secolo”. Oggi, tuttavia, la situazione è cambiata rispetto ad anni più gloriosi; i concorrenti sono molti, l’economia non va più a gonfie vele come una volta. Pertanto, oltre alla usuale presenza militare e di imprese private, che perseguono comunque un proprio profitto, oltre a usare le “normali” attività di intelligence e di sorveglianza, il paese ha intrapreso sì missioni di sicurezza e anti-terrorismo, ma solo a ragion veduta. E lo ha fatto in cinque differenti occasioni negli ultimi dieci anni circa(6).

È importante sapere che, al termine del periodo coloniale, con la loro indipendenza, dodici paesi segnarono un accordo segreto con la Francia, secondo il quale essa avrebbe potuto mantenere una presenza fisica in cambio di garanzie di sicurezza per la loro sovranità nazionale. Della sovranità nazionale però, non del rispettivo governo. Ciò garantisce a Parigi un ampio margine di flessibilità nel decidere se è il caso che un regime meriti protezione.

È la politica del “wait and see”, politica rischiosa, se vogliamo; tuttavia, come accennato, date le scarse risorse che anche loro, vivaddio, hanno, i francesi intervengono solo quando una crisi è in svolgimento. Cosa non piacevole, certamente, tuttavia, ciò consente loro di capire cosa fare, nonché il quando e il dove sia più opportuno farlo.

Un approccio, che postula un’attitudine politica ad accettare determinati livelli di instabilità … verso altri. Oggigiorno, anch’essa una possibile efficace scelta strategica!

Lo è anche per gli immigrati che vengono fatti arrivare in Italia? …..

*Gen. C.A. riserva

**Gen. B. CC aus..

(1) Lo sguardo sugli interventi militari francesi nel mondo è impressionante (Libia nel 2011, Mali nel 2013, l’Operation Barkhane in Mali, Chad, Niger, Mauritania, e Burkina Faso dal 2014, Repubblica Centrafricana nel 2014, Iraq in 2014. E Siria nel 2015). Dalla fine del colonialismo, in totale, la Francia aveva partecipato a contingenti internazionali delle Nazioni Unite in Benin, Congo, Costa d’Avorio, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Liberia, R.D.Congo, Ruanda, e Somalia. E ancora Libano (dal 1978), nel Sinai egiziano (dal 1982), in Iraq (1990-1991), in Cambogia (1992-1995), nella ex Jugoslavia (1992-2014), in Afghanistan (2001-2012), in Colombia (2003), ad Haiti (dal 2004), e nell’Oceano Indiano (dal 2008).

(2) Un Nuovo Mondo – edizioni Guerini e associati (2017).

(3) Nel continente africano ha aperto 200 agenzie in 41 Paesi dove ci lavorano 20 mila persone per un giro d’affari che copre il 25 per cento del totale aziendale. Con la Bolloré Africa Logistics Network, la più grande rete di logistica integrata, nel continente è il maggiore operatore del settore. Negli ultimi anni soprattutto si è esteso soprattutto in Africa australe e orientale dove offre supporto nel campo petrolifero ed estrattivo. Tra i minerali che interessano Bolloré c’è anche la columbite-tantalite. Conosciuta meglio come coltan, è un minerale strategico perché utilizzato nell’industria hi-tech per costruzione di condensatori di smartphone e computer portatili. Il fiore all’occhiello di Vincent Bolloré sono i porti, di una ventina dei quali detiene la concessione.

(4) La Russia vi ha ripreso alcune relazioni bilaterali, rinunciando a circa il 90% dei crediti di cui godeva con alcuni di quei governi.

(5) Il 13 gennaio scorso, per inciso, al 27° France-Africa Summit, a Bamako, capitale del Mali, la presenza francese nel continente è stata salutata dalla partecipazione da una trentina di capi di stato. E sessanta circa sono stati gli affaristi francesi.

(6) Per la cronaca, è in Africa che circa un terzo dei quasi 20 mila militari non sul territorio metropolitano francese è impiegato; inclusa l’importantissima base di Gibuti. Tremila di questi, oggi operano nell’ambito dell’Operazione “Barkhane”, in atto dal 2014 e continuazione della “Serval”, tra Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania e Niger, l’area del Sahel.

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