Anna Calabrese
MINSK (nostro servizio particolare). È ormai chiaro quanto il panorama di competizione globale permanente si sia spostato sull’asse USA-Cina, con una complessa posizione europea e ancor più italiana al centro di dinamiche strategiche, geopolitiche ed economiche di ampia portata e l’emergere di nuovi attori bramosi di mutare gli equilibri di potere.

In questo contesto è dunque essenziale analizzare la strategia cinese alla luce del recente caso delle esercitazioni svolte in Bielorussia, al confine NATO , le quali si situano in una posizione ambigua tra l’uso di hard power, che implica l’uso della forza militare a scopo dimostrativo, e soft power, con la pretesa di addestrare le truppe bielorusse a scenari antiterrorismo.
Il 9 luglio, infatti, i Ministeri della Difesa di Cina e Bielorussia, che ricordiamo essere alleata della Russia, hanno inaugurato un’esercitazione militare congiunta dal nome Falcon Assault della durata di circa 11 giorni che si svolgerà nei pressi di Brest, una località a ridosso del confine con la Polonia, e dunque dei confini NATO.

Vadim Denisenko, al comando delle Operazioni speciali, ha poi sottolineato la crucialità di questa operazione nel contesto mondiale in corso e ha dichiarato che essa sarà incentrata su sbarco notturno, superamento di barriere d’acqua e operazioni in aree urbane popolate, allo scopo di aumentare le capacità antiterrorismo e resilienza delle truppe bielorusse.

Questo annuncio avviene proprio in parallelo all’importante summit dell’Alleanza Atlantica a Washington che ne celebra i 75 anni, sarcastica coincidenza che sottolinea l’inquietudine crescente a Occidente per le mosse cinesi:
Falcon Assault si situa infatti in un più ampio quadro di cooperazione sino-bielorussa recentemente sancita e consolidata a inizio luglio dall’entrata di Minsk nella SCO, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai
Fondata ormai 23 anni fa come alleanza anti-terrorismo, essa costituisce oggi un vero e proprio blocco di sicurezza regionale, ma anche di collaborazione politico-economico-culturale tra Cina, Russia, Kazakhstan, Tagikistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Iran, India, Pakistan e Bielorussia, ponendosi chiaramente in contrasto ed in alternativa alle strutture occidentali oggi in crisi.
Quest’ultimo caso si situa in un più ampio quadro di azioni delle forze cinesi negli ultimi anni che hanno contribuito ad aumentare le tensioni e destabilizzare gli equilibri geostrategici tra il blocco orientale e la NATO: ricordiamo, tra le altre, le esercitazioni attorno Taiwan nel 2022 atte a dimostrare la propria influenza nella regione e scoraggiare ogni coinvolgimento occidentale negli affari interni, o ancora l’operazione “punitiva” sempre nelle acque taiwanesi dopo le elezioni e l’insediamento del nuovo Presidente Lai Ching-te, considerato separatista.
Queste manovre, le quali coinvolgono l’uso della forza militare sebbene in maniera ambigua e “travestita” da scopi dimostrativi e/o, come nel caso di specie, da scopi addestrativi, si inscrivono nel concetto di smart power, insieme alla vasta gamma di approcci economici (si pensi agli investimenti in Africa), culturali (l’influenza dell’Istituto Confucio) e diplomatici del governo cinese.
Il concetto di Smart Power è stato coniato ed introdotto dal politologo americano Joseph Nye, definendolo come la capacità da parte di una nazione di combinare le risorse di hard power (uso della forza militare) e soft power (persuasione, attrazione positiva, influenza economico-culturale) a seconda dei contesti per rispondere in modo efficace alle sfide nazionali e globali.
La Cina ha storicamente avuto una solida padronanza nell’uso del soft power e fu proprio Nye in un’intervista del 2007 a dichiarare che lo scopo primario cinese fosse proprio quello di combinare hard e soft power, in perfetta linea coi valori promossi dal confucianesimo.
Detenere un forte hard power ed incrementarlo (come l’approccio russo dimostra), significa spaventare i propri vicini, incappando nel rischio della cosiddetta “Trappola di Tucidide” e nel dilemma della sicurezza che implica un’escalation di minacce, tensioni e uso della forza che conducono ad un utilizzo delle risorse forzato e totale, necessario alla riuscita della propria strategia.
Incrementare invece il proprio soft power, significa dissuadere da alleanze difensive nemiche ed anzi direzionare le proprie risorse verso l’intessere di relazioni di diversa natura coi propri partner, al fine di renderli di fatto dipendenti dal proprio contributo.
La Cina ha dimostrato di aver investito molto su questo secondo approccio, senza dimenticare, però, la propria componente “hard” che, sebbene usata a scopo dimostrativo come osservato nelle diverse esercitazioni militari oltre confine e solo marginalmente minaccioso, contribuisce a comunicare ad Occidente che la Cina è capace di influenzare gli equilibri globali e di trovare la giusta ricetta per perseguire i propri obiettivi strategici tramite lo smart power, concetto strategico un tempo ricordato come di matrice statunitense ma oggi destinato ad esser pienamente abbracciato ed anzi plasmato da questo attore in consolidata ascesa.
In questo contesto non è casuale, allora, la dura dichiarazione del vice Segretario generale della NATO Mircea Geoană al summit di Washington, che ha parlato della minaccia della Cina per la sicurezza europea.

Le accuse da parte cinese nei confronti della Nato di essere “una reliquia della guerra fredda” in risposta al comunicato finale del vertice che definisce Pechino come un facilitatore della guerra russo-ucraina è allora un chiaro segnale dell’apertura di un nuovo fronte di tensioni con la Cina e il fronte ucraino, insieme alla contesa di Taiwan, è il test decisivo di questo gioco al rilancio.
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