Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. Ieri, un nuovo ciclo di violenza ha scosso la Siria e l’intero Levante.
Nelle prime ore del mattino, raid aerei israeliani hanno colpito con precisione obiettivi sensibili nella capitale siriana, tra cui il Ministero della Difesa e alcune aree adiacenti al palazzo presidenziale.

Fonti locali parlano di almeno tre vittime e trentaquattro feriti, ma il bilancio potrebbe aggravarsi nelle prossime ore.
Parallelamente, a Sweida – roccaforte della minoranza drusa nel Sud della Siria – continuano gli scontri tra milizie locali e forze governative, in un contesto che ha già superato i duecento morti.
Nonostante la stipula di accordi locali di cessate il fuoco tra rappresentanti drusi e il Governo centrale, i raid israeliani non si sono arrestati.
Tel Aviv giustifica le proprie operazioni con la necessità di “proteggere le comunità druse” presenti nella regione, ma la mossa ha sollevato dure reazioni a livello internazionale.
Gli eventi del 16 luglio si inseriscono in una cornice geopolitica altamente instabile. La Siria, uscita formalmente dalla lunga parentesi della guerra civile, continua a essere teatro di tensioni settarie, lotte di potere e interferenze esterne.
In questo contesto, Israele ha scelto di intervenire direttamente, colpendo obiettivi strategici in aree governative, in un’azione che rischia di riaprire il fronte damasceno.
La logica sottostante riflette un modello di conflitto asimmetrico in cui le democrazie – come Israele – agiscono sempre più spesso in maniera unilaterale, adottando strumenti propri di regimi autoritari per tutelare interessi nazionali percepiti come vitali.
È un segnale allarmante della crisi dell’ordine multilaterale: Turchia, Unione Europea, Stati Uniti e ONU hanno condannato le operazioni, richiamandosi alla sovranità siriana e alla necessità di evitare un’escalation, ma non hanno ancora adottato contromisure concrete.
La geografia gioca un ruolo chiave: Sweida si trova a ridosso del confine con il Golan, e il controllo dell’area da parte di Damasco viene percepito da Israele come una minaccia strategica.
La “protezione dei drusi”, dunque, appare come una narrativa funzionale alla creazione di una zona cuscinetto che neutralizzi la presenza militare siriana o di forze filoiraniane nella regione.
Allo stesso tempo, l’assenza di un intervento diretto da parte delle potenze occidentali sottolinea il disimpegno progressivo dell’Occidente da certi dossier mediorientali, offrendo terreno fertile a nuovi attori regionali e globali – in particolare l’Iran e la Russia – pronti a riempire il vuoto.
Il Governo guidato da Ahmed al-Sharaa tenta di consolidare la propria autorità.

Ma la spaccatura interna alla comunità drusa – tra i seguaci dello sceicco Hikmat al-Hijri e quelli di Sheikh Jarbou – rende ancora più fragile il tessuto politico del Paese.
Un eventuale contrattacco siriano, anche solo simbolico, contro Israele potrebbe aprire scenari drammatici: l’intervento di Hezbollah dal Libano, la reazione iraniana, e una nuova ondata di milizie sunnite radicali potrebbero riaccendere un conflitto regionale di vaste proporzioni.

Il Medio Oriente, ancora una volta, rischia di precipitare in un vortice di guerra.
Il raid israeliano su Damasco non è solo un evento bellico: è il sintomo di un disordine globale che si manifesta in zone grigie, dove il diritto internazionale si scontra con le esigenze securitarie e le logiche di potenza.
In nome della protezione di una minoranza, si mina la sovranità di uno Stato, si esasperano divisioni settarie e si alimenta un’instabilità che potrebbe travolgere anche gli attori apparentemente estranei al conflitto.
Se non verranno attivati meccanismi efficaci di contenimento e dialogo multilaterale, l’attuale fase potrebbe evolvere in una nuova guerra regionale, con effetti devastanti non solo per la Siria, ma per l’intero equilibrio del Mediterraneo e del Vicino Oriente.
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