Di Marco Petrelli
NIZZA (nostro servizio particolare). Perché è importante vedere “la differenza fra i campi italiani ed i campi nazisti. Noi sentiamo che spesso la gente chiama nazismo il fascismo. Ma questo non è vero: perché sarebbe una sotto valutazione del nazismo”.
Parola di Simon Wiesenthal, ingegnere austriaco d’origine ebraica, deportato nei lager nazisti, sopravvissuto agli orrori del campo di sterminio di Mauthausen e icona della “caccia” ai criminali nazisti (https://www.wiesenthal.com/about/about-simon-wiesenthal/).
Le parole di Wiesenthal (che vi proponiamo nella clip video:https://www.youtube.com/watch?v=mkMLZVQltPM) introducono il film di Gabriella Gabrielli “18.000 giorni fa”, del 1992.
Un’opera che meriterebbe d’essere trasmessa nelle scuole e nelle case del Paese, almeno in occasione del Giorno della Memoria, se non non fosse finita nel dimenticatoio insieme alle parole di Wiesenthal e ad altre importanti testimonianze.
Come dimenticate sono le parole di un altro cacciatore, Serge Karsfeld? Rumeno residente in Francia, dal 1942 al 1943 trovò rifugio come altre migliaia di ebrei francesi nella Nizza occupata dagli italiani.
Italiani che, allora, erano ancora alleati del Reich ed avevano in vigore le Leggi Razziali del 1938. Ma che erano anche stati chiari con i tedeschi e con i francesi collaborazionisti: “Gli eccessi contro gli ebrei non sono compatibili con l’onore dell’Esercito italiano”
Ecco, proprio Karsfeld ebbe a ricordare che il “periodo più bello della mia infanzia è stato nella Nizza occupata dagli italiani”.
Non fraintendeteci, non ci lasciamo affascinare dal luogo comune (perché è un luogo comune) de “gli italiani brava gente”. Di scheletri nell’armadio ne abbiamo, primo fra tutte quello delle Leggi Razziali che continua a perseguitarci e a pesare sul nostro passato. Come è giusto che sia.
Ma, c’è un ma, non siamo stati solo quello né prima né dopo.
In un’Italia che fu nel contempo vittima e complice del Regime, che pose Benito Mussolini sul piedistallo e poi lo calpestò a Piazzale Loreto, a Milano, nella quale per anni gli antifascisti rappresentarono un numero esiguo per diventare infine la maggioranza ecco, in quell’Italia ci fu chi i conti con la Storia preferì farli subito, aiutando quegli ebrei, italiani e stranieri, vittime della follia nazista e del silenzio compiacente delle Nazioni dell’Asse, silenzio forse più motivato dalla paura di Hitler che da un reale e sentito antisemitismo.
Le parole di Wiesenthal accompagnano “18000 giorni fa” , pellicola che ricostruisce la quotidianità del campo di concentramento italiano di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza, presentandoci la vicenda dell’ebreo Moshe, scappato da Treblinka e che, raggiunto il Brennero, viene inviato dalle autorità italiane in Calabria dove vive una realtà completamente diversa da quella del lager nazista.
Dura, fatta di privazione e di assenza dei servizi essenziali, con poco cibo ma anche forte di una umanità che aveva dimenticato.
Con la progressiva scomparsa delle generazioni che hanno vissuto e anche saputo testimoniare gli orrori, gli eroismi, gli errori e le colpe della Seconda Guerra mondiale, la memoria storica è passata nelle mani di politici e giornalisti che, forse più per ricerca del consenso che per amore della verità, riducono la narrazione storica a pochi episodi conditi da orpelli e da sensazionalismi.
E, nel caso dell’Italia, dimenticano le colpe dei tanti e i meriti di pochi, per concentrarsi su un vittimismo storico e su presunte paure del presente che confondono le acque, creano allarmismo, confusione ed impediscono un sano confronto dell’Italia con il suo passato prossimo, tale da fare del fascismo e della Guerra un argomento di studio e di analisi per gli storici, non di dibattito politico e giornalistico.
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