SPECIALE. Risorgimento, il 18 febbraio 1861 nasceva il Regno d’Italia. Tutti i protagonisti politici che fecero grande il nostro Paese

Di Attilio Claudio Borreca*

Torino. Nonostante il freddo di quel 18 febbraio 1861, Torino era percorsa da gruppi entusiasti con bandiere al vento e canti di guerra.

L’inaugurazione del Parlamento il 18 febbraio 1861

Non sembrava neanche di trovarsi nella capitale del Regno di Sardegna, tra una popolazione corretta, fredda, riservata, quale era stata da secoli.

Muovevano tutti verso Palazzo Carignano perché sapevano che la seduta di apertura del Parlamento sarebbe stata una tappa miliare nella storia d’Italia.

Senatori e deputati arrivavano alla spicciolata, chi in carrozza e chi a piedi; venivano dal Piemonte e dalla Sicilia, dalle Marche e dalla Puglia, dall’Emilia e dalla Toscana.

La folla tumultuante, che la forza pubblica faceva fatica a contenere, ripeteva i nomi più celebri: il piemontese GenCavourterale Dabormida,  il fiorentino Gino Capponi, il bresciano Luigi Lechi, il marchese Pes di Villamarina, il celebre storico dei musulmani Michele Amari, Alessandro Manzoni timido più del solito, il conte Gabrio Casati, il Generale Giovanni Durando il cui nome era tante volte comparso durante le Guerre d’Indipendenza, l’ingegnere Paleocapa che già si andava occupando del Canale di Suez, Massimo d’Azeglio, il famoso fisico Francesco Puccinotti.

Il Re Vittorio Emanuele II

Tra i deputati Giuseppe Garibaldi, lo storico Carlo de Cesare, il Generale Raffaele Cadorna che doveva affidare, nove anni dopo, il suo nome alla breccia di Porta Pia, l’avvocato Agostino de Pretis, il Generale Cialdini, al quale si era arresa Gaeta, il celebre patriota Carlo Luigi Farini, Antonio Ranieri il confidente per lunghi anni di Giacomo Leopardi, il siciliano Giuseppe La Farina accanito avversario dei Borboni di Napoli, Quintino Sella, il Generale Alfonso Lamarmora che aveva combattuto su tanti campi di battaglia, il pugliese Gaetano de Peppo, l’Ammiraglio conte Carlo Pellion di Persano, la cui luminosa carriera doveva finire ingloriosamente cinque anni dopo con la sconfitta di Lissa, Ruggero Bonghi uomo dalla cultura enciclopedica,  Pasquale Stanislao Mancini, Bettino Ricasoli detto il “barone di ferro” tanto dura era stata la sua opposizione al Granduca di Toscana, il barone Carlo Poerio scampato alle galere napoletane, Luigi Settembrini tornato da poco dall’esilio nel quale era passato dall’ergastolo di Santo Stefano, Nino Bixio reduce dalla spedizione dei Mille, Francesco Crispi che si avviava ad affermarsi nel Parlamento così come si era affermato nelle cospirazioni e nell’impresa garibaldina, Luigi Mercantini che aveva posto in musica la passione garibaldina, Carlo Pepoli l’amico di Leopardi anch’egli rientrato da poco dalla Francia.

E ancora Sirtori guerriero di tante battaglie, Giuseppe Zanardelli che sarebbe stato, dopo alcuni anni, Presidente del Consiglio, Silvio Spaventa sostenitore del liberalismo.

Presiedeva la Camera, Urbano Rattazzi mentre Ruggero Settimo, principe di Fitalia, il Senato.

Il Governo era composto dal Conte di Cavour, Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro degli Affari Esteri, da Marco Minghetti agli Interni, da Vegezzi alle Finanze, dal Generale Manfredo Fanti alla Guerra, da Ubaldino Peruzzi ai Lavori Pubblici, da Terenzio Mamiani alla Istruzione, da Corsi all’Agricoltura e da Giovanni Battista Cassinis alla Grazia e Giustizia.

Il discorso della Corona

L’arrivo in forma solenne di Vittorio Emanuele II fu preceduto dall’applauso che infittiva man mano che il corteo reale si avvicinava.

Il Corteo Reale all’apertura del Parlamento del Regno d’Italia

Il re reggeva tra le mani il testo del discorso della Corona, il cui tenore era stato a lungo dibattuto tra i ministri e principalmente tra il Cavour e il sovrano stesso.

Marco Minghetti, spirito educatissimo ed umanista di razza, aveva scritto una orazione semplicissima e piana; Carlo Farini ne aveva compilato una seconda risonante e magniloquente.

Naturalmente il Re preferì la seconda perché le frasi altisonanti gli andavano a genio, come scusandosi, scriveva il Cavour a Marco Minghetti.

E Vittorio Emanuele II, in piedi, accanto al trono, pronunciò queste parole:

Signori Senatori! Signori Deputati! libera e unita quasi tutta per mirabile aiuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore degli eserciti, l’Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra.

A voi si appartiene il darle istituti comuni e stabile assetto.

Nell’attribuire le maggiori libertà amministrative a popoli che ebbero consuetudini e ordini diversi, veglierete perchè la unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomata.

L’opinione delle genti civili ci è propizia; ci sono propizi gli equi e liberali principi che vanno prevalendo nei consigli di Europa.

L’Italia diventerà per essa guarentigia di ordine e di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà internazionale.

L’imperatore dei Francesi, mantenendo ferma la massima del non intervento, a noi sommamente benefica, stimò tuttavia di richiamare il suo inviato.

Se questo fatto ci fu cagione di rammarico, esso non alterò i sentimenti della nostra gratitudine, né la fiducia del suo affetto alla causa italiana.

La Francia e l’Italia, che ebbero comune la stirpe, le tradizioni, il costume, strinsero sui campi di Magenta e di Solferino un nodo che sarà indissolubile.

Il governo e il popolo d’Inghilterra, patria antica della libertà, affermarono altamente il nostro diritto ad essere arbitri delle proprie sorti, e ci furono larghi di confortevoli uffici, dei quali durerà imperitura la riconoscente memoria.

Salito sul trono di Prussia un leale ed illustre principe, gli mandai un ambasciatore a segno di onoranza verso di lui e di simpatia verso la nobile nazione germanica la quale io spero verrà sempre più nella persuasione che l’Italia, costituita nella sua unità territoriale, non può offendere i diritti né gli interessi delle altre nazioni.

Signori Senatori! Signori Deputati! Io sono certo che vi farete solleciti a fornire al mio governo i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare.

Così il regno d’Italia, posto in condizione di non temere offesa, troverà più facilmente nella coscienza delle proprie forze la ragione dell’opportuna prudenza.

Altra volta la mia parola suonò ardimentosa, essendo savio così lo osare a tempo, come lo attendere a tempo. Devoto all’Italia, non ho mai esitato a porre a cimento la vita e la corona; ma nessuno ha il diritto di cimentare la vita e le sorti di una nazione.

Dopo molte segnalate vittorie, l’esercito italiano, crescente ogni giorno di fama, conseguiva nuovo titolo di gloria, espugnando una fortezza delle più formidabili.

Mi consolo nel pensiero, che là si chiudeva per sempre la serie dolorosa dei nostri conflitti civili. L’armata navale ha dimostrato, nelle acque di Ancona e di Gaeta, che rivivono in Italia i marinai di Pisa, di Genova e di Venezia.

Una valente gioventù, condotta da un capitano che riempì del suo nome le più lontane contrade, fece manifesto che né la servitù, né le lunghe sventure valsero a snervare la fibra dei popoli italiani.

Questi fatti hanno ispirato alla nazione una grande confidenza nei propri destini.

Mi compiaccio di manifestare al primo parlamento d’Italia la gioia che sente il mio animo di Re e di Soldato

Il Re d’Italia

Dopo tre giorni, nella tornata del Senato, Cavour dopo aver affermato “il Regno d’Italia è oggi un fatto; questo fatto dobbiamo affermarlo in cospetto del popolo italiano e dell’Europa…presentò un progetto di legge in un unico articolo: “il re Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia”.

L’incontro tra Vittorio Emanuele III e Garibaldi

Il Senato accolse con appalusi vivissimi la proposta del Presidente del Consiglio e l’affidò ad una commissione della quale Carlo Matteucci fu il relatore.

Il 26 febbraio discussione elevatissima di tono: concordi tutti nel proclamare il Regno d’Italia, discussero a lungo, invece, se Vittorio Emanuele II dovesse proclamarsi “Re d’Italia oppure “Re degli Italiani”, perché il titolo di Re d’Italia sembrava a qualcuno troppo aulico, troppo legato all’assolutismo e non appropriato per un sovrano cui la corona regia veniva offerta da milioni di Italiani.

Cavour rispose che l’iniziativa della costituzione del nuovo regno non era stata né del Governo, né del Parlamento, ma del popolo che “a quest’ora aveva già salutato ed intendeva salutare per sempre Vittorio Emanuele II come Re d’Italia e propugnò questo titolo dichiarando “esso è la consacrazione di un fatto immenso, è la consacrazione del fatto della costituzione dell’Italia; è la trasformazione di questa contrada, la cui esistenza come corpo politico era insolentemente negata e lo era, conviene pur dirlo, da quasi tutti gli uomini politici d’Europa: la trasformazione di questo corpo, potrei dire disprezzato, non curato, in Regno d’Italia”.

Lo scrutinio che seguì diede 121 voti favorevoli e due soli contrari. In segno di esultanza fu tolta la seduta e tutti uscirono dall’aula per mischiarsi alla folla che osannava nella sottostante piazza Castello.

Alessandro Manzoni uscì al braccio del conte di Cavour e la folla, aprendosi innanzi a due grandissimi italiani, li salutò con appalusi clamorosi e ripetuti. Cavour, lieto e sorridente, fece notare al Manzoni “questi applausi sono per lei don Alessandro”, ma il Manzoni di rimando “tutt’altro, veda che sono per lei”.

Si staccò dal braccio di Cavour, gli si pose di fronte e battendogli le mani gridò “Viva Cavour!”.

L’intervento di Cavour

Il gesto dell’illustre uomo suscitò un turbinio di grida e di applausi tra la folla: e infatti tra i due colui al quale in quel momento dovevano toccare le esultanze del popolo era più l’acuto artefice dell’unità d’Italia che l’illustre autore dei “Promessi Sposi”.

Non a caso il Cavour aveva scelto il Senato e non la Camera per questa manifestazione.

Non volle lasciare ai deputati, così come scrisse un suo amico il giorno dopo, l’iniziativa di tale proposta per evitare che in questa occasione si commettessero imprudenze come quella di dichiarare che tutto il territorio della Penisola appartenesse all’Italia indivisibile.

Cavour sapeva benissimo che al Regno d’Italia mancava Roma, mancava Venezia; ma ricordava anche che non a tutte le Cancellerie europee era andato a genio l’assunzione del nuovo titolo reale.

Sapeva, e glielo aveva precisato da Parigi il genero del Re, il principe Gerolamo Napoleone, che da un momento all’altro l’Austria avrebbe potuto assalire il giovane Regno e la Francia non avrebbe più appoggiato gli Italiani come aveva fatto nel 1859.

Alla Camera si discusse, come era doveroso, la costituzione del regno e il titolo da conferire al sovrano; ma la relazione che il Cavour presentò ad essa l’11 marzo 1861 fu una relazione sobria ed elegante, in cui si diceva tra l’altro: “interpreti del nazionale sentimento voi già avete, nel giorno solenne dell’apertura del Parlamento, salutato Vittorio Emanuele con il nuovo titolo che l’Italia da Torino a Palermo gli ha decretato con riconoscente affetto. Ora è mestiere convertire in legge dello Stato quel grido di entusiasmo”.

E a tutti, in quella locuzione ritornò a memoria il famoso “grido di dolore” al quale Vittorio Emanuele II non era rimasto insensibile nel 1859 (“grido di dolore” è la celebre frase contenuta in un discorso pronunciato il 10 gennaio 1859 da Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna, al parlamento di Torino, subito dopo gli Accordi di Plombières: “il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli d’Europa perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi!).

Naturalmente ritornò il problema: Re d’Italia o Re degli Italiani?

E se Re d’Italia, di numero ordinale primo o secondo? (comunque il numerale di Vittorio Emanuele di Savoia continuava a essere “secondo”, e non “primo”, come segno della continuità della dinastia di Casa Savoia che aveva realizzato l’unificazione italiana e della continuità del sistema costituzionale.)

Estensore della relazione fu il genero di Alessandro Manzoni, il dotto deputato senese Giovan Battista Giorgini; tra i tanti che presero la parola va ricordato Angelo Brofferio che pronunciò un’orazione dottissima e violenta in cui propose, tra l’altro, che alla formula suggerita dal Governo “Vittorio Emanuele II assume per sé  e i suoi successori il titolo di Re d’Italia” si sostituisse l’altra “Vittorio Emanuele II è proclamato dal popolo italiano per sé e per i suoi successori primo Re d’Italia”.

A tutti rispose il conte di Cavour, ben felice che tali “raffinate” questioni avessero impedito di battere il tasto sulla spinosa questione di Roma e di Venezia.

Si giunse alla votazione dei 296 presenti: 294 si e 2 no.

Ed ecco una nota comica perché il Presidente della Camera, Urbano Rattazzi, si affrettò a dichiarare che due deputati avevano errato mettendo la palla nera nell’urna bianca e la palla bianca nell’urna nera, ma accortisi dell’errore, erano saliti al banco della presidenza per chiedere la rettifica ed a scusare la loro inesperienza.

La Camera dunque votò all’unanimità la costituzione del Regno d’Italia.

Massimo d’Azeglio scrisse: “L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli Italiani”.

Ma dopo esattamente 160 anni gli Italiani sono stati fatti o vanno ancora facendosi?

 

*Generale di Divisione (Ris) dell’Esercito Italiano

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