Di Giuseppe Gagliano
WASHINGTON D.C. Nel panorama internazionale sta prendendo forma una svolta radicale: la nuova Amministrazione Trump, insediata a Washington dopo le elezioni del 2024, ha inaugurato una strategia di politica estera profondamente diversa da quella del suo predecessore.
Dopo anni di approccio conflittuale verso la Russia sotto l’Amministrazione Biden, Donald Trump ha scelto di resettare le relazioni tra le grandi potenze, privilegiando un accordo diretto con Mosca e una ridefinizione delle priorità strategiche degli Stati Uniti.

Questa sterzata sta lasciando attoniti gli alleati europei e modificando gli equilibri geopolitici globali.
Di seguito analizziamo i tratti salienti di questa nuova dottrina, le sue implicazioni militari e diplomatiche, e le reazioni che sta suscitando in Europa e oltre.
Dal paradigma di Biden al “reset” di Trump
Per contestualizzare la svolta, va ricordato il punto di partenza: la precedente amministrazione Biden aveva adottato una linea dura nei confronti di Mosca, fornendo massiccio supporto all’Ucraina e escludendo negoziati che non prevedessero il ritiro completo delle forze russe. Biden giustificava l’aiuto occidentale a Kiev come necessario per difendere l’ordine internazionale e la sicurezza occidentale:
“Aiutiamo l’Ucraina per proteggere anche noi stessi”, aveva dichiarato.
In altre parole, la strategia era contenere la Russia e riaffermare il ruolo guida degli Stati Uniti nella NATO, anche a costo di un prolungato conflitto di logoramento con Mosca.
Donald Trump, invece, ha rotto questo schema non appena tornato alla Casa Bianca. Sin dai primi giorni, ha lasciato intendere di avere in mente un quadro più ampiorispetto alla visione del suo predecessore.

Nel suo discorso inaugurale di politica estera, Trump ha criticato l’approccio “ideologico” degli ultimi anni e ha promesso di «fare un grande accordo» con la Russia per porre fine alla guerra in Ucraina .
Mentre Biden, secondo i critici, avrebbe fatto di tutto per evitare una pace negoziata, Trump rivendica un pragmatismo da uomo d’affari: vuole chiudere quella che definisce «questa ridicola guerra» e riorientare l’America su sfide più pressanti. Il contrasto non potrebbe essere più netto: dal confronto frontale alla realpolitik dei negoziati.
Questa inversione di rotta ha radici anche nel calcolo strategico.
Analisti vicini all’amministrazione sostengono che la linea dura “anti-Russia” dei democratici abbia finito per cementare l’alleanza strategica fra Mosca e Pechino, creando un fronte orientale compatto che riduce l’influenza globale degli Stati Uniti.
Trump vuole spezzare questo asse: riavvicinarsi a Mosca, allontanandola dalla Cina, per concentrare le risorse americane sul vero competitore del futuro, la Cina stessa . In sintesi, se Biden puntava a indebolire la Russia anche a costo di alienarsi Mosca, Trump punta a cooptare la Russia in un nuovo equilibrio multipolare che preservi il primato USA.
L’incontro Rubio-Lavrov: segnali di un nuovo corso
Il segnale più concreto di questa svolta è arrivato il 18 febbraio, quando a Riyadh (Arabia Saudita) si sono incontrati il nuovo segretario di Stato americano Marco Rubio e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov.

Si tratta del primo colloquio bilaterale di alto livello tra Washington e Mosca dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, tenuto simbolicamente in un paese terzo mediatore.
Al termine dell’incontro, Rubio e Lavrov hanno annunciato la creazione di gruppi di lavoro congiunti incaricati di negoziare una roadmap per porre fine alla guerra .
Il fatto più notevole è che questi colloqui escludono per ora sia l’Ucraina che l’Unione Europea . In pratica Washington e Mosca stanno discutendo il destino del conflitto senza la presenza di Kiev e degli alleati europei, un’impostazione che richiama equilibri da Guerra Fredda.
Dalle poche dichiarazioni emerse, l’Amministrazione Trump sembra determinata a procedere spedita. “Vogliamo fermare il bagno di sangue e chiudere questa guerra ridicolaal più presto», avrebbe detto Trump in privato ai suoi consiglieri, secondo ricostruzioni giornalistiche . Pubblicamente, Rubio ha sottolineato che un eventuale summit Trump-Putin dipenderà dai progressi concreti nel processo di pace: «Non ci sarà alcun incontro finché non sapremo di poter ottenere dei risultati», ha riferito il Segretario di Stato, rivelando di averlo detto chiaramente a Lavrov durante i colloqui . Solo se Mosca mostrerà reale volontà di accordo, Trump si siederà al tavolo direttamente con Putin per “siglare l’intesa”. In caso di successo, Rubio ha addirittura prospettato che «tutti dovrebbero festeggiare Trump come un pacificatore”.
Le mosse americane, tuttavia, hanno allarmato profondamente Kiev e le capitali europee. Il 19 febbraio, di ritorno dai colloqui in Arabia, Trump ha scioccato gli alleati definendo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky un “dittatore”e attribuendo all’Ucraina la colpa dell’escalation bellica – un ribaltamento della narrativa che ha indignato molti osservatori .
Zelensky, dal canto suo, ha protestato per essere stato tenuto fuori dai negoziati: “Vogliamo che nulla sia deciso alle nostre spalle… nessuna decisione può essere presa senza l’Ucraina su come finire la guerra” ha dichiarato stizzito durante una visita ufficiale ad Ankara .
Il botta e risposta ha segnato un deterioramento lampo nei rapporti Washington-Kiev: Zelensky ha accusato Trump di «vivere in uno spazio di disinformazione» e Trump ha replicato mettendo in dubbio la democraticità del Governo ucraino.
In sostanza, gli Stati Uniti stanno lanciando segnali inequivocabili: la priorità è chiudere il conflitto anche a costo di scavalcare Zelensky e i partner minori. È una logica da grande potenza che comunica a chiare lettere l’intenzione di riscrivere le regole del gioco diplomatico.
Europa spiazzata: reazioni e difficoltà di adattamento
Se Kiev è attonita, l’Europa appare frastornata e divisa di fronte a questo nuovo corso americano. Per quasi due anni dall’invasione russa, i governi europei si sono allineati alla strategia di Washington, fornendo armi all’Ucraina e inasprendo le sanzioni contro Mosca. Ora, improvvisamente, si trovano di fronte a un cambiamento repentino:
Trump sembra disposto a negoziare direttamente con Putin, potenzialmente sacrificando alcune delle istanze chiave per gli europei (dalla giustizia per l’aggressione subìta dall’Ucraina alle garanzie di sicurezza sul fianco orientale della NATO). L’UE fatica a comprendere le reali intenzioni di Washington e, ancor di più, ad adattarsi in modo unitario.
Le prime reazioni oscillano tra sgomento e rassegnazione.
Alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, tradizionale foro di dialogo transatlantico, il nuovo vice presidente USA J.D. Vance (un trumpiano di ferro) ha gelato la platea con toni sprezzanti: “Se la democrazia americana è sopravvissuta a 10 anni di prediche di Greta Thunberg, voi europei potete sopravvivere a qualche mese di Elon Musk”, ha scherzato Vance, alludendo alle polemiche sull’influenza di Musk (e dunque degli USA) sulle comunicazioni satellitari ucraine . L’uscita è stata accolta con freddezza e ha accentuato la sensazione di umiliazione provata dai leader UE di fronte alla nuova arroganza di Washington .

Anche esponenti tradizionalmente atlantisti hanno espresso inquietudine. La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha avvertito che la questione “non riguarda solo l’Ucraina – riguarda anche noi», esortando l’Europa ad uscire dal torpore: «Ci servono mentalità di emergenza e un aumento della difesa, e ci servono subito” .
Parole che tradiscono l’ansia di un continente resosi improvvisamente conto della propria vulnerabilità. Josep Borrell, Alto Rappresentante UE, già in passato aveva avvertito che l’Europa è “un giardino circondato da giungle»; ora quella metafora risuona più sinistra, perché Washington sembra voler lasciare il “giardino” al suo destino . Fulvio Scaglione ha descritto efficacemente la situazione parlando di Ucraina e UE “sedotte e abbandonate” dagli Stati Uniti dopo essere state coccolate finché faceva comodo .
La difficoltà dell’UE nel reagire appare palpabile. Le cancellerie oscillano tra richiami all’unità europea e tentazioni di iniziative autonome.
In Germania, ad esempio, si moltiplicano le voci (anche nell’opposizione cristiano-democratica) che invocano “maggiore indipendenza da Washington” e un potenziamento rapido della difesa comune.
Friedrich Merz, leader della CDU, si chiede provocatoriamente “se a giugno parleremo ancora della NATO nella sua forma attuale o se dovremo accelerare una difesa europea indipendente” .
In Francia, il Presidente Macron – che già nel 2019 definì la NATO in stato di “morte cerebrale” – ha rinnovato gli appelli a un’Europa più sovrana militarmente .
Ma al di là delle parole, il Vecchio Continente sconta anni di dipendenza strategica: non esiste un esercito europeo né una politica estera davvero unitaria. Gli europei, insomma, brancolano tra lo shock per il voltafaccia americano e la consapevolezza amara di avere poche carte da giocare in autonomia.
Alleanze occidentali sotto pressione: l’impatto sulla NATO
La NATO stessa – pilastro della sicurezza occidentale dal 1949 – si trova sotto pressione in questo scenario inedito.
Durante la campagna elettorale Trump aveva già annunciato l’intenzione di ridimensionare l’impegno americano se gli alleati non avessero aumentato le spese militari. Ora, da presidente, sembra voler ridefinire il ruolo dell’Alleanza: non più uno strumento per contenere la Russia a ogni costo, ma un meccanismo da adattare ai nuovi fini strategici degli USA.

Il segretario alla Difesa nominato da Trump, Pete Hegseth, ha esplicitato questa linea con franchezza brutale in una riunione a Bruxelles: “Bisogna riconoscere che tornare ai confini pre-2014 è un obiettivo irrealistico – ha dichiarato, riferendosi al fatto che l’Ucraina difficilmente riavrà indietro tutta l’area del Donbass e la Crimea annessa -. L’adesione dell’Ucraina alla NATO non è uno scenario realistico in un accordo negoziato» . Parole che equivalgono ad un no secco all’ipotesi che Kiev entri nell’Alleanza, sposando di fatto uno dei punti chiave richiesti da Mosca.
Non solo: Hegseth ha aggiunto che “gli Stati Uniti non credono” che NATO debba farsi carico direttamente della sicurezza ucraina con proprie truppe sul terreno .
Ha persino avvertito che NATO non interverrebbe automaticamente in difesa di un membro dell’Alleanza che venisse attaccato dalla Russia durante una missione di peacekeeping in Ucraina .
Quest’ultima affermazione, subito attenuata dai diplomatici, ha fatto drizzare i capelli ai leader dell’Europa orientale: suonava come un’eresia rispetto al sacro principio dell’Articolo 5 (la mutua difesa collettiva). Un consigliere del presidente romeno, in un momento di allarme, ha perfino suggerito che gli americani potrebbero accettare le vecchie richieste russe di ritirare le truppe NATO dai Paesi dell’Est, salvo poi ritrattare tali timori di fronte alle smentite ufficiali .

A Varsavia, il presidente Polacco Andrzej Duda si è affrettato a dichiarare di aver ricevuto “ferme assicurazioni” da Washington che non ci sarà alcuna riduzione delle forze USA in Polonia e nei paesi baltici . Segno che le capitali più esposte cercano rassicurazioni, mentre allo stesso tempo colgono che qualcosa è cambiato.
In parallelo, Trump sta riproponendo il suo vecchio cavallo di battaglia: i partner devono fare la loro parte sul piano militare ed economico. «Dobbiamo rendere la NATO di nuovo grande», ha incalzato Hegseth, esortando gli alleati a investire di più in difesa . E in un’espressione colorita ha avvisato che «il presidente Trump non permetterà a nessuno di fare di Zio Sam lo zio fesso», ribadendo la fine della pazienza americana verso gli europei “scrocconi” .
Questo linguaggio, volutamente brusco, riflette la convinzione trumpiana che gli Stati Uniti abbiano sostenuto per troppo tempo il peso della difesa comune, fungendo da garanti della sicurezza altrui senza adeguata reciprocità finanziaria. La conseguenza è un clima di tensione all’interno dell’Alleanza: da un lato gli USA non intendono dissolvere la NATO (che resta utile come piattaforma di potenza), ma dall’altro ridimensionano l’impegno diretto in Europa, spingendo gli alleati a cavarsela sempre più con le proprie forze.
Per l’Europa si tratta di un campanello d’allarme storico.
Dopo 75 anni, la relazione transatlantica che legava indissolubilmente Washington e il “Vecchio Continente” sembra destinata a cambiamenti profondi.
Federico Rampini, noto analista geopolitico, parla esplicitamente di “inizio della fine dell’amicizia atlantica” e di una possibile “Nuova Yalta” nel pensiero strategico di Trump e del suo vice Vance.
In uno scenario da Realpolitik pura, secondo Rampini “Trump sarebbe disposto a concedere maggiore libertà d’azione a Putin e Xi Jinping nei rispettivi vicinati, indebolendo al contempo le alleanze con Europa e Giappone» – il tutto «in cambio di un commercio mondiale più equilibrato a vantaggio degli USA e di una maggiore presa americana nell’emisfero occidentale” .
In altri termini, l’amministrazione Trump vedrebbe le vecchie alleanze come zavorre che limitano la libertà di manovra degli Stati Uniti nella competizione globale, preferendo accordi fra superpotenze e intese bilaterali più flessibili.
Si tratta di ipotesi inquietanti per molti europei, ma che spiegano il filo conduttore di certe dichiarazioni americane: l’Europa non è più al centro degli interessi strategici di Washington, se non come potenziale partner “utile” contro la Cina sul lungo termine.
L’Ucraina tra incudine e martello
È però l’Ucraina a pagare (o rischiare di pagare) il prezzo più alto di questo riassetto di priorità. Dopo aver resistito eroicamente all’invasione russa grazie all’aiuto occidentale, Kiev si trova ora stretta tra l’incudine e il martello: da un lato la Russia che non rinuncia ai suoi obiettivi territoriali, dall’altro l’alleato americano che sembra improvvisamente pronto a chiudere i rubinetti e imporre un compromesso scomodo. Volodymyr Zelensky si ritrova isolato proprio mentre la controffensiva militare ucraina era in stallo e il Paese dipendeva in tutto e per tutto dal sostegno occidentale finanziario e bellico.
Le prospettive per il conflitto cambiano drasticamente. Trump considera la guerra ingagnabile sul campo: i suoi collaboratori sostengono apertamente che «la guerra non si può vincere contro la Russia, l’unico modo per finirla è un accordo negoziato» . Questo significa, in concreto, che Washington non intende più appoggiare l’obiettivo ucraino di riconquistare tutti i territori occupati (Crimea compresa) con la forza.

Al contrario, l’amministrazione USA sta premendo per un cessate-il-fuoco e un’intesa che probabilmente consoliderà i fatti compiuti sul terreno. Le dichiarazioni di Hegseth (“ritorno ai confini pre-2014 irrealistico”) sono state interpretate come la disponibilità degli Stati Uniti ad accettare che la Crimea resti de facto alla Russia e che il Donbass rimanga quantomeno in parte sotto l’influenza di Mosca .
In cambio, Trump chiederebbe a Putin garanzie concrete di pace e forse un qualche status di neutralità o sicurezza internazionale per l’Ucraina residua. Si parla, ad esempio, di possibili garanzie terze(coinvolgendo Paesi NATO come Polonia e Turchia) al posto dell’adesione formale di Kiev all’Alleanza.
.Ma è chiaro che per Zelensky queste concessioni sanno di sconfitta inaccettabile: significherebbero vedere amputato il proprio paese e traditi i sacrifici immensi compiuti dal popolo ucraino per difendere la propria sovranità.
Non sorprende dunque che Zelensky stia lanciando segnali disperati. In un suo intervento recente, ha persino ventilato la possibilità di dimettersi se questo potesse servire a far ottenere all’Ucraina l’ingresso nella NATO e quindi una garanzia di sicurezza a lungo termine: “Se servisse che io lasci il mio incarico, sono pronto… posso scambiarlo con l’adesione alla NATO, ha detto ai media ucraini . Una frase che tradisce la gravità del momento: Zelensky è pronto a sacrificarsi pur di non lasciare il paese senza protezioni. Ma tali appelli rischiano di cadere nel vuoto.
L’Amministrazione Trump ha già fatto capire di considerare ingombrante la figura di Zelensky, dipinto come ostacolo alla pace. Il crescendo di retorica polemica – Trump che lo definisce “dittatore” e gli rinfaccia la sospensione delle elezioni durante la legge marziale, Zelensky che accusa Trump di disinformazione – evidenzia un rapporto ormai logorato .
Washington sembra pronta perfino a un cambio di leadership a Kiev se questo facilitasse un accordo: un alto funzionario USA, coperto da anonimato, ha lasciato trapelare che “nessuno è insostituibile, men che meno in Ucraina”. D’altra parte, Mosca stesso non nasconde di volere la “denazificazione” del governo ucraino – termine propagandistico per auspicare un cambio di regime a Kiev.
Per l’Ucraina, lo scenario migliore che si profila è quello di una pace fredda: il conflitto congelato sulle linee attuali di contatto, un accordo di cessate-il-fuoco monitorato magari dall’ONU, promesse vaghe di futuri negoziati sullo status dei territori contesi. In pratica una nuova situazione coreana nel cuore d’Europa, con un’Ucraina mutilata e fortemente militarizzata a Est, e un pesante senso di tradimento nei confronti degli ex alleati occidentali. Il peggiore incubo di Kiev – essere usata come pedina e poi abbandonata – sembra sul punto di materializzarsi.
Come osserva amaramente Fulvio Scaglione, agli occhi di Washington ormai «l’Ucraina è diventata una zavorra», un peso morto da sacrificare per obiettivi più grandi . Cinico o no che sia, questo calcolo domina oggi nei corridoi del potere americani.
Va detto, per completezza, che anche in Occidente non mancano coloro che giustificano questo esito come inevitabile. Secondo esponenti dell’area “realista”, prolungare ulteriormente la guerra rischierebbe solo di moltiplicare le sofferenze (oltre un milione di vittime tra morti e feriti finora, stima il Wall Street Journal ) senza cambiare il risultato finale.
Meglio strappare una pace imperfetta ora che permetta di salvare ciò che resta dell’Ucraina e ricostruire, piuttosto che inseguire una vittoria totale forse irraggiungibile contro una potenza nucleare. Questa logica, che finora era respinta dal fronte unitario occidentale, sta rapidamente guadagnando terreno a Washington sotto Trump, costringendo anche gli europei a fare i conti con l’amara realtà: l’eroismo ucraino potrebbe non bastare di fronte al disegno geopolitico delle grandi potenze.
Mosca torna protagonista: il riposizionamento della Russia
Se c’è un attore geopolitico che trae indubbio vantaggio immediato da questa nuova strategia americana, è la Russia di Vladimir Putin.
Dopo essere stata trattata come uno Stato paria dall’Occidente – isolata diplomaticamente, colpita da sanzioni senza precedenti e in stallo militare in Ucraina – Mosca si ritrova improvvisamente di nuovo corteggiata da Washington.
L’incontro Lavrov-Rubio ne è la prova: Putin ha finalmente ottenuto ciò che voleva sin dal 2021, ossia colloqui diretti con gli Stati Uniti sul futuro assetto di sicurezza in Europa (escludendo gli europei). In altre parole, la Russia viene riconosciuta come grande potenza interlocutrice, uno status che Putin rivendica da tempo. “Ci piaccia o no, la Russia resta una *potenza globale con influenza in aree decisive del mondo” ha ammesso con realismo lo stesso Marco Rubio .
È un’ammissione significativa: dopo anni di narrativa occidentale tesa a dipingere la Russia come una potenza “in declino” o “regionale”, la superpotenza americana riconosce pubblicamente il peso specifico di Mosca sullo scacchiere globale.
Sul piano geopolitico, la Russia vede così legittimate molte delle sue posizioni.
L’Amministrazione Trump, di fatto, sta accettando alcuni principi cari al Cremlino: no all’allargamento della NATO in Ucraina, considerazione degli interessi di sicurezza russi nel vicino estero, dialogo sulle limitazioni agli armamenti in Europa orientale.
Anche se Washington ufficialmente nega di voler fare concessioni unilaterali, in Europa c’è il timore concreto che Trump possa accedere a qualche richiesta di Putin in cambio della fine delle ostilità . Del resto, già nel 2021 la Russia aveva presentato agli USA un progetto di accordo di sicurezza che includeva il ritiro delle infrastrutture NATO dai paesi ex-sovietici .
Biden lo respinse, ma Trump – secondo indiscrezioni – potrebbe resuscitarne alcune parti come base di negoziato. Non a caso Lavrov, pur mantenendo la tradizionale durezza russa (“l’operazione militare si fermerà solo se l’esito soddisferà la Russia”, ha ribadito ), si mostra insolitamente ottimista dopo i colloqui di Riyadh, definendoli “molto utili” e annunciando la prossima nomina di un inviato speciale russo per i negoziati .
Segnali che indicano come Mosca fiuti la possibilità di ottenere per via diplomatica ciò che sul campo non è riuscita a conquistare interamente.
Ma il riposizionamento russo va oltre l’Europa. Putin è impegnato da anni a tessere una rete di relazioni globali per sfuggire all’isolamento occidentale, e ora può raccoglierne i frutti. Mosca sta rafforzando la sua presenza in Africa (dal Sahel alla Libia), capitalizzando sull’influenza del gruppo Wagner e proponendosi come partner alternativo alle ex potenze coloniali .
In Medio Oriente, la Russia mantiene ottimi rapporti con Iran, Siria, Egitto, Israele e paesi del Golfo, ponendosi come ago della bilancia nei conflitti regionali. È inoltre motore propulsivo dei BRICS, il blocco delle economie emergenti, con l’obiettivo di ridimensionare il ruolo del dollaro e delle istituzioni finanziarie occidentali .
Tutto ciò le conferisce una resilienza economica e diplomatica maggiore di quanto molti in Occidente avessero previsto.
Ora, con gli Stati Uniti disponibili a un “grande accordo”, la Russia può puntare a consolidare queste conquiste: un allentamento delle sanzioni, ad esempio, e il riconoscimento implicito del suo status di potenza regionale egemone nell’ex URSS.
È importante notare che Putin sta giocando su due tavoli contemporaneamente. Da un lato accoglie la mano tesa di Trump, dall’altro non molla quella di Xi Jinping.
Pochi giorni dopo i colloqui con Rubio, Lavrov si è recato in Sudafrica per un vertice del G20, dove ha incontrato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e ne ha approfittato per ribadire che l’asse Mosca-Pechino resta saldo e costituisce un “fattore di stabilizzazione” nell’ordine internazionale . In sostanza, la Russia vuole segnalare che non diventerà un vassallo degli USA: l’obiettivo di Putin è semmai porsi al centro di un sistema multipolare, dialogando con tutti e massimizzando i benefici. Se Trump gli offre una via d’uscita onorevole dal pantano ucraino,
Putin può accettare – ma senza per questo rompere con la Cina, che rimane il suo principale partner strategico ed economico. Anzi, Mosca può ora sfruttare la competizione tra Washington e Pechino a suo vantaggio, facendosi corteggiare da entrambi i lati. È un classico gioco da balance of power: la Russia, indebolita dalla guerra ma ancora temibile, diventa l’ago della bilancia nello scontro tra giganti.
Washington, Mosca e Pechino: un nuovo “grande gioco”
In filigrana, la mossa di Trump sta ridisegnando l’intero triangolo USA-Russia-Cina. Siamo potenzialmente di fronte a un nuovo “grande gioco” geopolitico, con echi di epoche passate. Non a caso, molti commentatori hanno evocato la metafora di una “Nuova Yalta” .

Allusione al celebre vertice del 1945 in cui Roosevelt, Churchill e Stalin si spartirono le zone d’influenza nel mondo post-bellico, la “Yalta 2.0” vedrebbe Trump, Putin e Xi sedersi (formalmente o meno) per ridefinire l’ordine mondiale in chiave multipolare.
Gli elementi ci sono tutti. Trump ha segnalato che la priorità strategica degli Stati Uniti si sta spostando sull’Indo-Pacifico e la sfida cinese: “Dobbiamo riconoscere che abbiamo di fronte un pari competitore nella Cina comunista, con capacità e intenzioni di minacciare la nostra patria e i nostri interessi nel Pacifico”, ha dichiarato il Segretario Hegseth, annunciando che gli USA stanno “prioritizzando la deterrenza di una guerra con la Cina, riconoscendo la realtà delle risorse scarse, e riallocando di conseguenza per assicurarsi che la deterrenza non fallisca” .
Questa affermazione – “riconoscere la scarsità delle risorse” – spiega in modo illuminante la fine del “blank check” all’Ucraina:
Washington non vuole più impegnare gran parte del suo arsenale e capitale politico in Europa, perché sente l’urgenza di prepararsi allo scontro (finora freddo, ma sempre più caldo) con Pechino.
La Cina, dal canto suo, osserva con attenzione. Ufficialmente accoglie con favore qualunque ipotesi di pace in Ucraina:
il ministro Wang Yi ha parlato recentemente di “finestra di opportunità per la pace” che si sta aprendo, ribadendo che Pechino supporta “tutti gli sforzi favorevoli alla pace” .
Del resto, la guerra in Europa – con le turbolenze economiche e l’unità occidentale che ha generato – non ha giovato a Pechino, che preferirebbe un’Europa stabile con cui fare affari.

Tuttavia Xi Jinping è ben consapevole che la distensione USA-Russia potrebbe essere un’arma a doppio taglio per la Cina: da un lato le toglierebbe la pressione di una guerra alle porte (e le complicazioni diplomatiche di dover sostenere la Russia più apertamente); dall’altro rischia di lasciarla isolata di fronte al contenimento americano. Se Putin e Trump trovano un modus vivendi, il prossimo confronto sarà interamente rivolto alla Cina, con Washington libera di concentrare forze militari nel Pacifico e rinsaldare le alleanze in Asia (Giappone, Corea del Sud, India, Australia). In pratica, Pechino teme lo scenario Kissinger alla rovescia: negli anni ’70 furono gli USA ad avvicinarsi alla Cina per isolare l’URSS; oggi potrebbero avvicinarsi alla Russia per fare fronte comune contro la Cina.
Va detto che Trump nega di voler iniziare una Guerra fredda con la Cina.
Nel suo stile imprevedibile, alterna toni concilianti a minacce aperte. Durante la campagna elettorale ha promesso di “riportare la pace nel mondo”, vantando di aver evitato nuovi conflitti durante il suo primo mandato, ma allo stesso tempo ha definito Xi “un nemico ancor più subdolo di Putin”.
Alcuni osservatori notano che l’approccio di Trump verso Pechino è più commerciale e tecnologico(dazi, restrizioni hi-tech) che militare, almeno nelle intenzioni immediate.
Altri, come la giornalista Amanda Yee, sostengono invece che la nuova amministrazione stia accelerando verso uno scontro frontale: la retorica di “Peace through Strength” di Trump maschererebbe preparativi per un confronto militare diretto nel Mar Cinese Meridionale, spostando risorse dalla NATO allo scacchiere indo-pacifico .
In ogni caso, il triangolo USA-Russia-Cina è in movimento. Un alto funzionario della Difesa USA ha commentato off-record: “Ci stiamo sostanzialmente riposizionando per una competizione tra grandi potenze. L’Europa resta importante, ma la partita decisiva del XXI secolo sarà in Asia-Pacifico”.
Questo conferma la sensazione che la guerra in Ucraina, per quanto sanguinosa e centrale negli ultimi anni, stia per essere trattata come un teatro secondariorispetto alla sfida epocale per la supremazia tecnologica, economica e militare globale tra Stati Uniti e Cina.
Paradossalmente, la Russia – che pure era la minaccia immediata – potrebbe diventare l’ago della bilancia: abbastanza forte da non poter essere ignorata, abbastanza debole da cercare partnership (che sia con la Cina o con gli USA, a seconda di chi offre di più). Un diplomatico indiano, citato in forma anonima dal Financial Times, ha sintetizzato: “Stiamo entrando in un mondo in cui tre Grandi si parleranno e gli altri dovranno adattarsi. L’Europa dovrà imparare a giocare da sola”.
È, in sostanza, la visione di un ordine globale post-unipolare, in cui l'”Occidente collettivo” perde coesione e i blocchi di potenza diventano più fluidi.
Conclusioni: un ordine globale in evoluzione
La nuova strategia di politica estera dell’amministrazione Trump segna dunque un momento di svolta storico. In pochi mesi, Washington è passata dal guidare un fronte compatto contro l’aggressione russa, al negoziare direttamente con il Cremlino una pace di compromesso; dall’assicurare gli alleati europei del sostegno incondizionato, al trattarli con impazienza e quasi disprezzo; dal considerare l’Ucraina un avamposto della democrazia da difendere, al vederla come una pedina sacrificabile sullo scacchiere delle grandi potenze. Si tratta di una realpolitik spinta all’estremo, che privilegia gli interessi strategici nudi e crudi rispetto ai valori proclamati e agli impegni precedenti. Molti la definiscono una politica estera “cinica e crudele” – e indubbiamente lo è – ma per i suoi sostenitori è semplicemente un ritorno al pragmatismo in un mondo divenuto più pericoloso e multipolare.
Le implicazioni geopolitiche e militari sono profonde. In Europa, cade l’innocenza: l’UE dovrà probabilmente accelerare i piani per una maggiore autonomia strategica, pena l’irrilevanza. Paesi come la Polonia o gli Stati baltici, che hanno puntato tutto sulla protezione americana, ora temono di ritrovarsi scoperti e cercheranno nuove garanzie, magari coinvolgendo il Regno Unito o potenze regionali.
La NATO stessa dovrà ridefinire la propria missione: da alleanza espansiva votata alla deterrenza globale, a struttura più concentrata sulla difesa stretta del territorio alleato (e forse su missioni mirate anti-Cina, come auspica Washington).
Sul fronte ucraino, ci si avvia verso un cessate-il-fuoco instabile che congela il conflitto ma non lo risolve, lasciando una ferita aperta in Europa orientale e un precedente inquietante (un’aggressione premiata con concessioni territoriali) che potrebbe incoraggiare futuri avventurismi.
A livello globale, assistiamo a un riassetto dei rapporti di forza.
Gli Stati Uniti tentano di posizionarsi al centro di una nuova architettura: leader ancora preminente, ma non più egemone solitario, bensì primus inter pares insieme a Cina e Russia.
Mosca capitalizza sull’opportunità di uscire dall’angolo, mentre Pechino valuta come trarre vantaggio senza finire accerchiata. È un gioco delicato, che potrebbe stabilizzare alcune aree (se la “nuova Yalta” implicasse un rispetto reciproco delle zone d’influenza) ma anche destabilizzarne altre (si pensi ai timori di Giappone e Taiwan di fronte a un eventuale “via libera” americano alla Cina in Asia).
Quel che è certo è che l’Europa non è più l’epicentro della politica mondiale come lo è stata a lungo. Uno degli effetti collaterali della strategia di Trump è stato mettere a nudo la fragilità europea. Mario Draghi, osservatore acuto delle dinamiche internazionali, ha chiosato con amara ironia che “forse è meglio farsene una ragione, e in fretta” . Per quanto doloroso, il Vecchio Continente dovrà svegliarsi dal sogno di un Occidente monolitico guidato da Washington e imparare a navigare in acque più agitate e imprevedibili.
In conclusione, la svolta trumpiana in politica estera può piacere o indignare, ma rappresenta indubbiamente un adattamento agli equilibri di potere del XXI secolo. L’America di Trump vuole mostrarsi spietatamente lucida nel perseguire il proprio interesse nazionale: tratta con Putin, pungola gli alleati, prepara il confronto con Xi.
L’ordine internazionale liberale del dopo Guerra Fredda – basato su alleanze estese, istituzioni multilaterali e valori condivisi – sta cedendo il passo a un ordine più realista e frammentato, dove contano la forza e la capacità di negoziare da posizioni di potenza. Il rischio, ovviamente, è che in questo nuovo contesto vengano sacrificati popoli e principi che fino a ieri si giurava di difendere. Starà alla lungimiranza dei leader evitare che il “grande gioco” sfugga di mano.
Nel frattempo, l’Europa farebbe bene a prepararsi: come in ogni partita a scacchi tra titani, le pedine minori corrono i pericoli maggiori. E oggi più che mai, nonostante la retorica dei “valori comuni”, agli occhi di Washington l’Europa appare poco più che una pedina.
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