Stati Uniti: l’invasione di Capitol Hill non è un golpe. Ma l’America ha molti problemi da risolvere al più presto

Di Fabrizio Scarinci

Washington. L’attacco al Parlamento USA dello scorso 6 gennaio ha certamente sorpreso (oltre che sconvolto) gran parte dell’opinione pubblica internazionale.

Un momento della manifestazione dei sostenitori di Trump, mercoledì a Washington

Il Congresso degli Stati Uniti rappresenta, infatti, uno dei simboli più importanti della democrazia americana e vederlo violato con tanto impeto deve essere sicuramente risultato spiazzante per tutti coloro che hanno avuto modo di seguire gli eventi di quel tragico pomeriggio.

Altrettanto spiacevole risulta il fatto che il Presidente uscente Donald Trump, oltre a non riconoscere la (pur netta) vittoria dell’avversario, abbia fomentato queste inutili proteste, concludendo in modo indecoroso una presidenza che, al di là della disastrosa gestione dell’emergenza COVID, è comunque riuscita a conseguire diversi successi, sia in ambito economico che a livello diplomatico.

Ciò detto, chi scrive è abbastanza scettico sul descrivere gli eventi di Capitol Hill come una vera e propria insurrezione (accusa con la quale si sta tentando di intraprendere una seconda procedura di impeachment nei confronti di Donald Trump), e men che meno come un tentativo di colpo di Stato (come sostenuto da diversi osservatori all’indomani dei fatti).

Un gruppo di manifestanti entra, di forza, nel Parlamento

Sicuramente c’è del vero riguardo al fatto che la manifestazione sarebbe stata organizzata diverso tempo prima (come del resto tutte le manifestazioni), così come è difficile negare che il Presidente abbia utilizzato, nel corso degli ultimi mesi, un linguaggio a dir poco fuori dalle righe (che potrebbe effettivamente aver aizzato molti dei soggetti più pericolosi) ma per innescare una vera insurrezione, così come per organizzare un golpe, ci vuole ben altro.

Partendo, ad esempio, da quest’ultima ipotesi, non si può infatti non considerare come la pianificazione di un colpo di Stato risulti praticamente impossibile in assenza un valido appoggio da parte dello stesso apparato di sicurezza statale (o di una consistente parte di esso), e come, nel caso specifico, le forze armate statunitensi, così come la CIA, NSA e FBI, rappresentino Istituzioni troppo solide per poter essere strumentalizzate in tal senso.

Inoltre, occorre sottolineare come il supporto ad un colpo di Stato (o, perché no, la sua diretta conduzione) da parte dell’apparato di sicurezza di un Paese sia un’eventualità che, solitamente, si verifica in presenza di particolari condizioni socio-politiche (Istituzioni centrali completamente screditate, larghe fasce della popolazione in condizioni di estrema povertà, incapacità dell’apparato statale di controllare il territorio e di provvedere ai bisogni fondamentali dei cittadini) che fortunatamente non caratterizzano gli Stati Uniti contemporanei.

Uomini della Guardia Nazionale dormono dentro il Parlamento dopo i fatti del 6 gennaio

Dunque, anche ammesso che Donald Trump abbia mai pensato di organizzare un golpe (ipotesi che, sempre a modesto parere di chi scrive, appare piuttosto inverosimile) la presenza delle circostanze appena elencate sarebbe sicuramente bastata a dissuaderlo seduta stante.

Se invece si tira in ballo il più generico concetto di istigazione all’insurrezione (o di “golpe dal basso”, anch’esso teoricamente mirante ad una qualche forma di destabilizzazione istituzionale) non si può non osservare l’assenza di qualsiasi tipo di riferimento alla violenza fisica da parte di Donald Trump e come, quantunque inutile e del tutto fuori luogo (data la certa vittoria di Biden), la manifestazione di Washington sia stata, per l’appunto, una semplice manifestazione. E come tutte le manifestazioni ha visto, da un lato, la presenza di persone perbene e assolutamente rispettose delle Istituzioni (la maggioranza), e, dall’altro, la presenza di facinorosi ed esaltati (numericamente molto meno consistenti).

L’unica differenza sostanziale tra questa ed altre manifestazioni sta nel fatto che i partecipanti sono incredibilmente riusciti a raggiungere l’obiettivo fisico delle loro proteste, penetrando al suo interno con relativa facilità (al contrario di quanto accaduto alcuni mesi fa con gli ugualmente pericolosi attivisti di Antifa e con le frange più estremiste del Black Lives Matter, a cui le forze di Polizia hanno fortunatamente impedito di raggiungere la Casa Bianca o altri obiettivi sensibili).

Ovviamente, una volta entrati nel Palazzo del Congresso, i manifestanti più corretti hanno tenuto un comportamento rispettoso (discutendo tranquillamente con gli agenti e rispettando perfino il percorso delimitato dalle corde di velluto) mentre quelli più pericolosi ed estremisti si sono lasciati andare ad esecrabili atti di saccheggio e vandalismo (nell’ambito dei quali hanno anche perso la vita cinque persone).

Alla luce di quanto detto, sarebbe quindi più logico focalizzarsi sul perché il dispositivo di sicurezza posto attorno a Capitol Hill fosse così inadeguato, anche se, come spesso accade in questi casi, per arrivare ad avere delle risposte davvero esaustive potrebbero volerci diversi mesi.

Per il momento si possono, però, segnalare alcune delle dichiarazioni susseguitesi nei giorni scorsi, che traccerebbero (a grandi linee) uno scenario caratterizzato da gravi carenze, omissioni e malintesi da parte di tutte le Istituzioni preposte alla difesa del Campidoglio; dalla Capitol Police (piccola Forza di sicurezza adibita alla protezione del Congresso) alla Polizia di Washington, passando per la stessa Casa Bianca.

 

La Speaker della Camera, Nancy Pelosi parla con gli uomini della Guardia Nazionale

In particolare, Steve Sund, ex comandante della Capitol Police, dimessosi proprio in seguito ai fatti del 6 gennaio, ha dichiarato di aver sottoposto, due giorni prima della nomina di Joe Biden, un dettagliato rapporto sulle valutazioni dell’Intelligence (corredato da un’offerta del Pentagono di schierare sul posto la Guardia Nazionale) ai responsabili della Sicurezza di Camera e Senato, direttamente dipendenti da Nancy Pelosi, Speaker della Camera, e Mitch McConnell, Leader della maggioranza del Senato.

In tale occasione, entrambi avrebbero cercato di evitare un’eccessiva militarizzazione dell’evento, con Paul Irving (responsabile della Sicurezza della Camera) che avrebbe affermato di “non sentirsi a proprio agio con la prospettiva di proclamare formalmente un’emergenza in vista della manifestazione pro-Trump” e Michael Stenger (responsabile della Sicurezza del Senato) che avrebbe suggerito a Sund di limitarsi a mantenere dei contatti informali con la Guardia Nazionale, chiedendole solo di “tenersi pronta in caso di necessità”.

Ora, se alla riluttanza di Irving e Stenger a collaborare con il Pentagono (ancora tutta da verificare, a dire il vero) si aggiunge la scarsa prontezza del Dipartimento di Polizia di Washington DC, si può facilmente arrivare a comprendere come la capitale degli Stati Uniti, e l’area del Campidoglio in particolare, potessero essere così sguarniti durante quei tragici eventi.

Ma la storia non finisce qui, poiché vi sarebbero state delle gravi omissioni anche da parte della Casa Bianca (ed è su questo, semmai, che potrebbe configurarsi una qualche responsabilità per lo stesso Trump), dato che, nel momento in cui l’intervento della Guardia Nazionale sarebbe stato effettivamente richiesto (in primo luogo da Mauriel Bowser, sindaco di Washington) il Presidente si sarebbe opposto (mostrandosi successivamente anche piuttosto debole nel condannare gli atti di violenza) e a mobilitare i militari, quando, però, la situazione era ormai del tutto compromessa, avrebbe dovuto pensarci il suo vice Mike Pence.

Il vice presidente USA, Mike Pence

Tuttavia, anche queste omissioni, quantunque inammissibili, non sembrano essere sufficienti a delineare un quadro di tipo “golpistico-insurrezionale”.

Del resto, quale sarebbe stato il “piano”? Permettere ai manifestanti di entrare incontrastati nel Campidoglio e asserragliarsi nell’edificio? E a quale scopo?

Una simile azione avrebbe forse conquistato l’opinione pubblica della Nazione? O magari il consenso dei militari? Evidentemente no, ed è impossibile che Donald Trump e il suo staff non se ne rendessero conto.

Pertanto, sembrerebbe decisamente più probabile che il Presidente uscente, forse non capendo quanto la situazione si stesse aggravando, volesse solo cercare di evitare scontri tra militari e manifestanti, verosimilmente nella convinzione che una simile eventualità sarebbe stata troppo dannosa per la sua immagine.

D’altronde, tutto lascia supporre che, fomentando questa protesta, Donald Trump volesse soprattutto compattare la propria base elettorale contro i presunti “usurpatori” democratici, sperando di preparare (almeno fino a che la situazione non gli sfuggisse di mano) una nuova corsa alla Casa Bianca per il 2024.

Il Presidente uscente americano Donald Trump

Naturalmente, come anticipato in apertura, il fatto che non vi sia stato nessun tentativo di colpo di Stato non attenua le responsabilità del Presidente uscente rispetto a tutta questa vicenda.

Sostenendo per mesi la teoria dei brogli elettorali, improbabile almeno quanto quella del golpe, Donald Trump ha infatti minato (aiutato, a dire il vero, da un meccanismo di voto del tutto inadeguato) la fiducia del popolo americano verso il proprio sistema politico, contribuendo, in tal modo, ad alimentare quel clima di nervosismo che ormai da diverso tempo sembrerebbe attanagliare la politica statunitense.

Al netto di questo errore, però, descriverlo come il responsabile (o l’unico responsabile) dell’enorme livello di tensione sviluppatosi nel Paese sarebbe, a dir poco, fuorviante. Da almeno un decennio a questa parte, infatti, una fetta crescente dell’elettorato conservatore percepisce con sempre maggiore preoccupazione fenomeni come il costante incremento dell’immigrazione clandestina e il continuo processo di deindustrializzazione di ampie aree della Nazione (dovuto, in buona parte, anche alle politiche commerciali “eccessivamente amichevoli” che Washington ha portato avanti per anni nei confronti di Pechino).

Mentre alcuni segmenti di quello progressista, presenti soprattutto sulle coste, sembrerebbero essersi parzialmente “radicalizzati”, conferendo ampi consensi alle idee di matrice socialista portate avanti da personaggi come Barnie Sanders o Alexandria Ocasio-Cortez e abbracciando, soprattutto a livello accademico, posizioni appartenenti al filone del cosiddetto marxismo culturale, che, oltre a promuovere una visione ideologico/revisionista della Storia, si propone di portare avanti le lotte per i diritti civili (di per sé sacrosante) non già in un’ottica incentrata sulla libertà individuale e sull’uguaglianza di tutti gli individui di fronte alla legge (che sarebbero il sale della democrazia americana), quanto piuttosto sull’idea che ogni gruppo sociale debba essere destinatario di diritti e doveri specifici.

Tale eccezionale livello di divisione, infinitamente superiore a quello registratosi nel corso degli ultimi decenni, sta, ovviamente, avvelenando il dibattito politico (e questo con o senza Trump), rendendo sempre più difficile l’accettazione delle idee, e, ovviamente, delle vittorie elettorali altrui.

In questo senso, “l’assalto al Congresso” rappresenta solo l’ultimo di una lunga serie di episodi legati all’attuale clima di intolleranza, tra cui figurano anche le proteste seguite alla vittoria repubblicana del 2016 (in cui non venne raggiunto il Congresso ma, in compenso, vennero devastate diverse città), le manifestazioni violente di Antifa e Black Lives Matter (che, strumentalizzando il vergognoso omicidio del cittadino George Floyd, hanno saccheggiato per diverse settimane molte aree del Paese) e la stessa censura operata da alcuni social network nei conforti di Donald Trump e di altri esponenti del “GOP” a lui vicini.

Al nuovo Presidente, che si presenta come un democratico di tipo moderato, spetta dunque l’arduo compito di “tranquillizzare gli animi” e ricreare un forte spirito di unità nazionale, cercando di far sì che l’America riscopra se stessa e ritrovi la sua forza (anche al fine di far fronte ad un contesto internazionale sempre più incerto), ma, data la situazione, è lecito immaginare che, almeno per qualche tempo, molti dei problemi che hanno caratterizzato il Paese negli ultimi anni siano destinati a rimanere sul tavolo.

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