Sudan: la tregua che mette alla prova Washington e i suoi alleati

Di Giuseppe Gagliano*

KHARTUM. La dichiarazione congiunta di Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, che chiede una tregua umanitaria di tre mesi in Sudan e una transizione di nove mesi verso un governo civile, rappresenta un tentativo ambizioso di fermare una guerra che, dal 2023, ha devastato il Paese e destabilizzato l’intero Corno d’Africa.

Rifugiati sudanesi accampati in tende di fortuna alla periferia di Al Kufra, in Libia. © UNHCR/Ahmed Elshamikh

 

Guerra civile e partizione de facto

Il conflitto tra l’Esercito regolare sudanese e le Forze di Supporto Rapido (FSR) ha provocato decine di migliaia di vittime e lo sfollamento di oltre quindici milioni di persone, un terzo della popolazione.

Soldati dell’Esercito sudanese

Oggi il Paese è diviso: l’esercito controlla il Nord, l’Est e il Centro, mentre le FSR dominano gran parte del Sud e quasi tutto il Darfur, dove hanno persino proclamato un governo parallelo.

Questa situazione alimenta i timori di una balcanizzazione definitiva del Sudan, con conseguenze drammatiche per i Paesi vicini, dal Ciad al Sud Sudan, e per l’intera sicurezza regionale.

La diplomazia di Washington: tra ambizioni e limiti

Gli Stati Uniti, che hanno già imposto sanzioni al ministro delle Finanze Gebreil Ibrahim e a una milizia alleata dell’Esercito, puntano a usare la leva economica e politica per costringere le parti a fermarsi.

Ma il testo della dichiarazione evita di attribuire responsabilità dirette, nel tentativo di non alienarsi nessuno degli attori.

Allo stesso tempo, Washington e i suoi alleati cercano di escludere i gruppi legati ai Fratelli Musulmani dal processo politico e avvertono contro qualsiasi supporto militare esterno, un messaggio rivolto in modo implicito all’Iran.

Rivalità regionali: Il Cairo contro Abu Dhabi

Il dossier sudanese è anche un campo di scontro tra potenze arabe.

L’Egitto, alleato storico dell’Esercito sudanese, teme che un collasso totale dello Stato porti il caos alle proprie frontiere meridionali e indebolisca la sua posizione nella disputa sulla diga GERD con l’Etiopia.

Abu Dhabi, invece, è stata accusata di sostenere le FSR, anche se lo nega, perseguendo una strategia di influenza che privilegia attori più flessibili e meno legati alle strutture statali.

L’Arabia Saudita, da parte sua, vede nel Sudan un tassello della sua politica di sicurezza alimentare e di controllo delle rotte commerciali sul Mar Rosso.

Persone in fuga dal conflitto in Sudan

Rischi umanitari ed economici 

La guerra ha già paralizzato le infrastrutture agricole e minaccia le esportazioni di gomma arabica e oro, due delle principali fonti di valuta estera del Paese.

Il prolungarsi del conflitto rischia di aggravare l’insicurezza alimentare in tutta la regione e di far lievitare i costi umanitari per le Nazioni Unite, che parlano di una crisi tra le peggiori al mondo. La tregua proposta sarebbe quindi non solo un passo politico, ma un tentativo di stabilizzare i flussi economici vitali per evitare un collasso totale.

Una tregua fragile

La sfida principale resta convincere le due parti a rispettare gli impegni.

Finora, nessuna delle tregue negoziate è durata più di qualche giorno. Entrambe le fazioni continuano a credere in una vittoria militare totale e a ricevere supporto esterno, trasformando il Sudan in un teatro di guerra per procura.

La dichiarazione congiunta è dunque un test di forza: riusciranno Washington e i suoi partner a imporre la loro road map a due attori che hanno dimostrato di sfidare costantemente la pressione internazionale?

*Presidente Centro Studi Cestudec

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