Di Fabrizio Scarinci
WASHINGTON. Come si è potuto osservare, il summit tenuto dalla NATO a Washington nel corso degli ultimi giorni è stato particolarmente intenso.
Il momento è, infatti, assai delicato e le questioni aperte non sono mai state così tante.
Sullo sfondo vi è ovviamente il relativo declino degli USA, che, pur restando con ampio margine la prima potenza del pianeta, hanno sempre più difficoltà a contenere le ambizioni revisionistico-espansioniste dei loro principali competitor (Russia e Cina in primis) e di altri attori ostili, che risultano sempre più attivi, in Ucraina come altrove, nel picconare la condizione egemonica di Washington.
Come noto, nel corso degli ultimi anni, tale situazione ha progressivamente spinto gli USA a chiedere un maggiore contributo ai propri partner, NATO e non solo, per far sì che il sistema di alleanze da loro guidato (e da cui europei ed altri hanno tratto, nel tempo, notevoli benefici in termini di sicurezza) possa mantenere un certo grado di superiorità strategica rispetto ai propri rivali.
Per quanto riguarda i membri europei della NATO, e, in particolar modo quelli dell’Europa occidentale, convintisi più di ogni altro che la Storia fosse “finita” e che le relazioni internazionali del nuovo millennio si sarebbero basate soprattutto sugli scambi economico-commerciali e sulla cooperazione di tipo politico-culturale, le principali richieste avanzate dagli USA sono state quella di spendere di più per la Difesa (nello specifico almeno 2% del PIL, come stabilito durante il summit del Galles del 2014) e di fornire un maggiore contributo alla sicurezza dell’Estremo Oriente (richiesta che, nel corso degli ultimi anni, è stata più volte posta in essere soprattutto all’indirizzo delle maggiori potenze marittime del vecchio continente).
Ad oggi, dopo innumerevoli tentennamenti, svariate sferzate da parte statunitense (avutesi, come tutti sanno, soprattutto negli anni dell’Amministrazione Trump) e circa due anni e mezzo di guerra in Ucraina, gli europei occidentali sembrerebbero aver finalmente preso sul serio le richieste di Washington.
La maggior parte di essi (anche se, purtroppo, non l’Italia) ha, infatti, raggiunto la soglia del 2% del PIL in fatto di spese militari, mentre nell’Indopacifico (dove la Cina rivendica, tra le altre cose, tutto il Mar Cinese meridionale) iniziano ad intravvedersi anche navi ed aerei provenienti da Paesi quali Italia, Germania ed altri membri della NATO normalmente non molto attivi da quelle parti (poca roba in realtà, ma è pur sempre qualcosa).
Il maggiore filo conduttore delle discussioni avutesi al summit è stato, però, quello legato al conflitto ucraino e, più in generale, alla protezione del fianco orientale dell’Alleanza dalle velleità “ravanchiste” di Mosca; un elemento riguardo al quale l’Alleanza si è straordinariamente ricompattata nel corso degli ultimi due anni ma su cui Washington potrebbe presto operare un significativo cambio di approccio.
La strategia della NATO in Ucraina e il possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca
Come accennato in apertura, l’ipotesi di richiedere un maggiore sforzo agli alleati rappresenta un importante tassello della più ampia strategia con cui Washington mira ad evitare quel fenomeno che Paul Kennedy definì “overstretching” nel suo famoso saggio “Ascesa e declino delle grandi potenze”.
Non a caso, infatti, già pochi mesi dopo la crisi economica del 2008, evento particolarmente “stressante” per la superpotenza americana, l’Amministrazione Obama avrebbe varato il noto approccio del “leading from behind” (ossia “guidare da dietro le quinte”) con la speranza di ridurre l’esposizione militare del Paese e l’eccessivo dispendio di risorse da essa derivante (ricordiamo ancora tutti le “avventure” militari in Iraq e in Afghanistan).
Negli ultimi anni, il progressivo re-intensificarsi della competizione tra potenze avrebbe, invece, stimolato il ritorno ad un approccio più realista nella gestione dei maggiori avversari, con l’obiettivo di evitare che Paese si ritrovi ad affrontare sfide ad elevata intensità nell’ambito di più scacchieri contemporaneamente.
A farsi, in qualche modo, portavoce di tale approccio (che sembrerebbe, per certi versi, ispirarsi a quello adottato dall’Amministrazione Nixon nel primi anni 70) sarebbe stato Donald Trump, che, durante la sua presidenza avrebbe cercato di stabilizzare le relazioni russo-statunitensi onde evitare che Mosca finisse per formare con Pechino (vista dagli USA come il competitor principale) un unico gigantesco blocco.
Come tutti sanno, però, gli effetti di tale politica sarebbero stati piuttosto limitati.
Malgrado un timido avvicinamento sulla gestione della crisi siriana, infatti, la questione dell’occupazione russa della Crimea (iniziata dal 2014) era troppo grave perché potesse essere archiviata in modo rapido e indolore, senza poi contare i rischi connessi al progressivo avvicinamento di Russia e Germania in materia di energia, che imponevano agli USA di vigilare mantenendo una presenza significativa in Europa orientale.
Alla fine Donald Trump avrebbe lasciato il posto a Joe Biden, vincitore delle travagliatissime elezioni del novembre 2020.
Prima dell’insediamento, alcuni sostenitori di Donald Trump avrebbero indetto una grande manifestazione di protesta di fronte al Congresso.
L’assenza di adeguate misure di sicurezza avrebbe permesso loro di entrare nel Palazzo del Campidoglio e alcuni facinorosi avrebbero provocato dei gravissimi disordini.
Le immagini di quell’infausto pomeriggio avrebbero presto fatto il giro del mondo, dando a tutti (russi e cinesi inclusi) l’impressione che gli USA fossero ormai tremendamente indeboliti sul piano politico e sociale.
Pochi mesi dopo, il disastroso ritiro dall’Afghanistan non avrebbe fatto altro che rafforzare tale percezione. Il tutto mentre il Presidente francese Macron, che accarezzava l’idea di porre il proprio Paese al centro di un meccanismo di Difesa europeo, avrebbe iniziato a parlare della NATO come di un’organizzazione in stato di “morte cerebrale”.
Tutto questo avrebbe contribuito non poco a far sì che, nel febbraio del 2022, il Cremlino decidesse di lanciare la sua famigerata “operazione militare speciale” in Ucraina; un’azione verosimilmente concepita allo scopo di sostituire il governo di Volodymyr Zelensky con un esecutivo politicamente più favorevole al Cremlino che, tra le altre cose, avrebbe determinato una definitiva rottura con l’Occidente.
Come tutti sanno, però, gli ucraini, addestrati dalla NATO, avrebbero resistito oltre le aspettative, facendo si che a Washington e Bruxelles si iniziasse a concepire un importante piano di aiuti militari.
Falliti gli obiettivi iniziali del proprio “blitz”, Mosca si sarebbe quindi ritrovata a dover affrontare un lungo (e per nulla preparato) conflitto contro un’agguerritissimo avversario supportato in modo crescente da un’Alleanza Atlantica non solo rinvigorita ma anche decisa ad indebolire la capacità d’azione del proprio competitor russo. Quello stesso competitor russo che, nel corso del quindicennio precedente, era riuscito a costruire un’immagine così “brillante” di sé da riuscire a fare proseliti perfino presso le opinioni pubbliche del “sofisticatamente democratico” mondo occidentale.
Questa guerra, di cui ancora oggi è difficile scorgere la fine, avrebbe provocato, nel tempo, diverse centinaia di migliaia di vittime da entrambe le parti, costringendo Mosca ad organizzare diverse campagne di reclutamento e ad intraprendere una non facile riconversione del proprio sistema economico allo scopo di adattarlo alle crescenti necessità dell’apparato militare.
In tale situazione, il Cremlino avrebbe, quindi, rotto gli indugi per lanciarsi in modo ancor più marcato tra le braccia del suo ingombrante vicino cinese, tentando di intimorire l’Occidente proprio con la prospettiva del gigantesco blocco eurasiatico a cui si faceva riferimento pocanzi.
Una mossa che, almeno nel medio-lungo periodo, sembrerebbe, però, non essere troppo conveniente. Basti solo pensare, tanto per fare un esempio, a come la Repubblica Popolare, caratterizzata da una popolazione e da un’economia molto più grandi di quelle della Federazione Russa, tenda a considerare come “proprie” alcune regioni della Siberia orientale.
Certo, almeno per qualche tempo i russi potrebbero comunque contare sul proprio gigantesco potenziale nucleare (lo stesso che hanno più volte minacciato di usare in caso di intervento diretto della NATO in Ucraina) e sulla propria special relationship con l’India al fine di riequilibrare i propri rapporti di forza con la Cina ed evitare una condizione di totale subalternità.
D’altro canto, però, se dovessero essere questi i presupposti della partnership non ci può certo aspettare che Mosca e Pechino diano luogo alla più solida delle alleanze.
In America, intanto, anche per via di una serie questioni politico-sociali da non prendere sottogamba, la stella di Donald Trump non si sarebbe per nulla offuscata, finendo col rilanciare l’ex Presidente in una nuova corsa per la Casa Bianca.
Una corsa entrata nel vivo proprio negli ultimi mesi e che, al momento, complici le condizioni psico-fisiche del suo avversario, sembrerebbe anche destinato a vincere.
Riguardo all’Ucraina, il tycoon ha già reso nota la propria intenzione di cercare una soluzione diplomatica per arrivare alla fine del conflitto, superando, quindi, la politica di netta contrapposizione adottata finora dall’Amministrazione Biden.
Appoggiata anche da una parte del Pentagono, questa linea sembrerebbe la naturale evoluzione dell’approccio adottato dall’ex Presidente negli anni del suo mandato, anche se, ovviamente, riprendere oggi un vero dialogo distensivo con Mosca potrebbe risultare assai più complicato.
Oltre a questo potrebbe, poi, esserci qualche considerazione di carattere meramente pratico, come quella per cui, in assenza di un intervento diretto della NATO, il fronte ucraino sembrerebbe ormai destinato ad una situazione relativo stallo, con lenti e incostanti progressi quasi solo da parte russa.
Di conseguenza, arrivare ora ad un congelamento della situazione potrebbe essere, per un’eventuale Amministrazione Trump, una buona soluzione, sia in ragione del fatto che l’Ucraina sarebbe comunque riuscita a sopravvivere (infliggendo, peraltro, enormi danni alle capacità militari del Cremlino), sia in considerazione delle altre priorità strategiche di Washington.
Questa soluzione potrebbe, però, comportare la (più o meno) definitiva rinuncia di Kiev alla parte del proprio territorio attualmente in mani russe e una pressoché totale incertezza riguardo al futuro ingresso dell’Ucraina nella NATO; due questioni su cui l’Amministrazione Biden, incline a considerare ogni cedimento di fronte al Cremlino come un duro colpo alla credibilità degli USA, non vorrebbe fare nessuno sconto.
Sulla stessa lunghezza d’onda, almeno ufficialmente, anche la maggior parte dei leader occidentali, che durante il summit hanno ribadito la propria intenzione di non trattare con Putin e di continuare a supportare Kiev, alla quale dovrebbero arrivare, entro fine anno, altri 40 miliardi di euro da spendere per le esigenze legate al conflitto.
Tra i vari mezzi in arrivo figurerebbero, in particolare, anche i primi caccia F-16 ex danesi e olandesi, mentre Stati Uniti, Germania, Romania, Paesi Bassi e Italia si sarebbero impegnati a fornire nuove batterie antiaeree (nello specifico, è previsto che Washington, Berlino e Bucarest forniscano alcuni sistemi Patriot, che i Paesi Bassi provvedano, insieme ad altri alleati all’invio di componenti essenziali al loro funzionamento e che l’Italia invii una delle proprie batterie di Samp-T).

Un F-16 olandese in volo – Aldo Bidini – Gallery page https://www.jetphotos.com/photo/7401086 Photo https://cdn.jetphotos.com/full/3/94923_1340889723.jpg
Dal canto suo, il neo eletto Premier britannico Kier Starmer ha annunciato pubblicamente di aver dato a Kiev l’autorizzazione ad utilizzare i missili da crociera Storm Shadow forniti dal Regno Unito anche per condurre attacchi all’interno del territorio russo.
Qualcosa di simile è stato fatto, tra l’altro, anche dagli americani, sebbene solo con riferimento alle regioni russe adiacenti al confine (una misura tutto sommato superflua dato che, con i sistemi forniti finora, colpire città come Mosca o San Pietroburgo risulterebbe comunque estremamente difficile), e dai francesi, che, come noto, hanno fornito un congruo quantitativo di missili Scalp-EG.
Sempre durante il vertice, inoltre, il Primo ministro ungherese Viktor Orban, molto vicino a Donald Trump (nonché sostenitore della necessità di riaprire il dialogo con Mosca), sarebbe stato, in qualche modo, “isolato”.
Poco dopo l’inizio del semestre ungherese alla guida dell’Unione Europea, infatti, egli avrebbe intrapreso un’intensa missione diplomatica, che lo avrebbe portato prima a Kiev, poi a Mosca e, infine, a Pechino.
In molti sospettano che, nel corso di questi viaggi, Orban abbia illustrato a Putin e Xi Jinping una bozza di piano di pace scaturita dagli ambienti vicini all’ex Presidente statunitense; un sospetto rafforzato anche dall’incontro privato che il Premier ha avuto con il tycoon durante la sua permanenza negli USA.
In ogni caso, però, le enormi chances di Donald Trump di tornare alla Casa Bianca devono essere state notate anche durante il summit (dove, a dire il vero, è assai probabile che siano state l’argomento principale).
In conseguenza di ciò, non è affatto inverosimile che molte delle decisioni prese abbiano come obiettivo principale proprio quello di preparare l’Alleanza al possibile cambio di Amministrazione, facendo in modo che le eventuali decisioni di Trump non vadano a rappresentare una rottura politica troppo netta con il passato.
In questo senso, perfino l’invio di aiuti militari (il cui coordinamento dovrebbe, tra l’altro, passare dagli USA alla strutture della NATO proprio al fine di metterlo al riparo dagli eventuali problemi di carattere politico che potrebbero sorgere a Washington) potrebbe non essere del tutto in contrasto con l’ipotesi di una futura mediazione (anche perché gli ucraini dovrebbero comunque arrivare al tavolo dei negoziati controllando quanto più territorio possibile).
Riguardo all’ingresso di Kiev nella NATO, invece, se, da un lato, Trump appare tendenzialmente ostile (anche se, a dire il vero, da ambienti a lui vicini sarebbe trapelata una certa disponibilità a continuare con il supporto militare anche in seguito alla fine della guerra), dall’altro, i leader occidentali avrebbero ripetuto anche quest’anno che, pur essendo ormai irreversibile, il processo di avvicinamento dell’Ucraina all’Alleanza potrebbe comunque richiedere diverso tempo. Non solo per via del conflitto in corso (se Kiev entrasse ora porterebbe, di fatto, la NATO e la Russia allo scontro totale), ma anche per via alcuni standard interni da rispettare.

Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky durante un recente incontro a Kiev con il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg
La cosa più logica che si può dedurre da ciò è che i governi della NATO non vorrebbero, al momento, fare promesse che un’eventuale Amministrazione Trump potrebbe impedire loro di mantenere (con tutte le conseguenze del caso per la credibilità dell’Alleanza) al fine di arrivare a qualche forma di distensione con Mosca.
Di qui la possibile scelta di congelare il problema dando a Trump l’opportunità di rinviare l’ingresso dell’Ucraina senza che questo faccia troppo scalpore.
Allo stesso tempo, però, l’Alleanza si comunque premunita di inviare a Kiev un proprio rappresentante, che dovrebbe avere il compito di facilitare i rapporti istituzionali e la cooperazione in materia di Difesa tra Kiev e Bruxelles.
Una mossa, questa, che sembrerebbe avere il duplice scopo di rassicurare gli ucraini e di impedire a Mosca di ottenere il parziale successo strategico da essa ricercato dopo aver preso atto dell’impossibilità di rimuovere il governo Zelensky, consistente, da un lato, nell’annessione delle regioni del Donabass e, dall’altro, nell’ottenimento di una neutralità permanente dello stato ucraino (neutralità che potrebbe, ovviamente, tornare a violare più in là nel tempo).
Il rafforzamento delle capacità della NATO in Europa
Naturalmente, però, lo scontro tra NATO e Russia non si limita alla sola Ucraina.
Le tensioni accumulate con Mosca nel corso degli ultimi anni hanno, infatti, indotto i Paesi dell’Alleanza a rafforzare le proprie capacità in tutto il continente, non solo aumentando le proprie spese militari (come già accennato) e migliorando le proprie difese missilistiche (ricordiamo, a tal proposito, come, proprio durante il summit, il Segretario Generale Stoltenberg abbia annunciato la piena operatività del sito AEGIS ASHORE di Redzikowo), ma anche tornando a schierare in Europa alcune categorie di sistemi offensivi dall’elevato valore strategico eliminate alla fine della Guerra fredda (ovviamente in versione aggiornata).
Entrando più nel dettaglio, lo schieramento di tali sistemi dovrebbe riguardare soprattutto la Germania, che, a partire dal 2026, dovrebbe ospitare (dapprima in maniera sporadica e, più in là nel tempo, in modo permanente) batterie americane di tipo Typhon (in grado di utilizzare missili superficie-aria SM-6 e missili da crociera Tomahawk) e/o di tipo Dark Eagle (concepite per il lancio di armi ipersoniche).
Intervenendo al vertice NATO, il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, ha spiegato che l’idea alla base di tale scelta vi sarebbe la volontà di permettere alla Germania ed altri Paesi europei di guadagnare tempo prima che lo sviluppo di armi d’attacco a lungo raggio proprie venga completato.
Proprio a tal proposito, sempre al vertice di Washington, Francia, Germania, Italia e Polonia hanno firmato la cosiddetta iniziativa ELSA (European Long-Range Strike Approach), che mira allo sviluppo e alla produzione di un nuovo missile a lungo raggio.
Secondo diverse fonti, questo nuovo sistema d’arma potrebbe essere costituito, in particolare, dalla variante terrestre dello Scalp Naval, nota, al momento come “Land Cruise Missile”, che MBDA ha recentemente presentato al salone Eurosatory.
Com’era facile aspettarsi, la notizia dello schieramento dei missili statunitensi ha subito mandato il Cremlino su tutte furie, con il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov che, proprio oggi avrebbe apertamente parlato della possibilità che, in caso di guerra, i russi potrebbero colpire le capitali dei Paesi europei intenti ad ospitare tali sistemi.
Il “capitolo Cina”
Come si è già ricordato pocanzi, i vertici politico-militari statunitensi identificano nella Repubblica Popolare Cinese il loro principale avversario strategico.
In ragione di ciò, benché la principale area di competenza della NATO in quanto organizzazione resti lo spazio euro-atlantico, nel corso del summit di Washington (non diversamente da quanto avvenuto nei vertici degli ultimi anni), particolare attenzione è stata posta anche sulle mosse di Pechino, sia con riferimento al conflitto in corso in Ucraina, sia nell’ambito di altri scacchieri (Indopacifico in primis).
Nello specifico, con riferimento al conflitto ucraino, si è tornati a sottolineare come, in virtù della partnership con Mosca, i cinesi avrebbero fornito ai russi non solo un certo grado di “schermatura politica”, ma che importanti quantitativi di tecnologie “dual use” particolarmente utili nella produzione di sistemi d’arma.
Per tale ragione, i leader dell’Alleanza avrebbero identificato Pechino come il principale “facilitatore” del conflitto che attualmente insanguina il continente europeo; una definizione a cui i vertici della Repubblica Popolare avrebbero risposto con una dura nota con cui la NATO verrebbe invitata ad abbandonare la sua “mentalità da Guerra fredda”.
Per quanto riguarda, invece, il contenimento delle ambizioni cinesi in Estremo Oriente, si è già ricordato come, da ormai diversi anni, gli USA stiano spingendo sia per un maggiore impegno da parte delle principali potenze marittime europee nell’ambito di tale scacchiere (e non è un caso che, proprio in questi giorni, la portaerei Cavour, la FREMM Alpino ed altri assetti delle nostre Forze Armate si trovino in Australia per un’importante esercitazione internazionale), sia per un maggiore approfondimento delle relazioni tra la NATO e suoi principali partner dell’area in questione.
Tra questi ultimi figurano, come noto, il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, la già menzionata Australia, la Nuova Zelanda, Singapore e, almeno in teoria, l’India, che, tuttavia, per ritenendo vitale il contenimento della Repubblica Popolare, intende anche mantenere la sua storica partnership strategica con la Russia (ricordiamo, tra le altre cose, come, proprio due giorni fa, in concomitanza con il summit di Washington, il Premier indino Nerendra Modi abbia fatto visita a Vladimir Putin).

Il cacciatorpediniere antiaereo Maya della Marina giapponese. Negli ultimi anni il rapporto tra Tokyo e la NATO è divenuto sempre più stretto – Credit by 海上自衛隊
Oltre che in Estremo Oriente, inoltre, Pechino risulta sempre più attiva anche in Medio Oriente e nel continente africano, dove, peraltro, sembrerebbe agire in tandem con Mosca.
Come ricordato in diverse recenti occasioni, tutto questo pone all’Occidente una sfida piuttosto complessa (non solo di carattere militare, ma anche di tipo economico, politico e culturale) che americani ed europei avrebbero iniziato a comprendere solamente negli ultimi anni.
In ragione di ciò, è, oggi, ritenuta di primaria importanza, anche a Bruxelles, la delineazione di un’efficace strategia di contenimento anche per quanto riguarda le aree appena menzionate, che, come noto, risultano geograficamente molto vicine a diversi importanti membri dell’Alleanza.
Nasce la figura del Rappresentante Speciale della NATO per il vicinato meridionale
Proprio con riferimento a quanto appena detto, l’istituzione della figura del Rappresentante Speciale della NATO per il vicinato meridionale costituisce, senz’altro, un passo molto importante.
Tra i vari fattori alla base di questa rinnovata attenzione dell’Alleanza Atlantica per il proprio fianco sud vi è, ovviamente, anche l’impegno profuso a riguardo dal nostro governo, che sembrerebbe orientato a lavorare affinché il nostro Paese recuperi, quanto più possibile, il suo ruolo di naturale connettore tra Occidente, Africa e Medio-Oriente.
Al fine di recuperare questa centralità, l’Italia, già piuttosto attiva nel cosiddetto “Mediterraneo allargato”, ha notoriamente posto in essere, nel corso degli ultimi anni, diverse mosse di una certa importanza, tra cui il lancio del “Piano Mattei” per l’Africa (che dovrà, ovviamente, prendere corpo nel prossimo futuro), la fuoriuscita dal progetto cinese per le “Nuove Vie della Seta” (mossa attuata con l’obiettivo di rinsaldare la propria alleanza con gli USA e facilitare il supporto di Washington ai piani di Roma) e l’assunzione di un ruolo più attivo nella difesa del fianco orientale della NATO (cosa che mira ad aumentare la credibilità, e, di conseguenza, il peso politico del Paese all’interno dell’Alleanza).
Durante il summit, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha discusso delle tematiche inerenti il fianco sud anche nell’ambito di un incontro bilaterale con Recep Tayyip Erdogan, Presidente di una Turchia in forte crescita sul piano politico-strategico che, negli ultimi anni, ha, per noi, rappresentato sia un alleato che un competitor.
Stando a quanto comunicato dal governo, l’incontro avrebbe consentito ai due leader di confrontarsi con l’obiettivo di rafforzare il coordinamento bilaterale sia in ambito politico, militare ed economico, sia per ciò che concerne i temi connessi ai fenomeni migratori.
Dal canto suo, il ministro degli Esteri Antonio Tajani si è, invece, spinto a proporre un candidato italiano per il nuovo ruolo appena menzionato; un’ipotesi che, se si realizzasse, costituirebbe, certamente, un importantissimo successo.
Nondimeno, al fine di recuperare davvero un ruolo di primo piano, è bene che il nostro Paese raggiunga, quanto prima, l’obiettivo di spendere per la Difesa almeno il 2% del PIL. Senza un concreto supporto materiale, infatti, qualsiasi disegno strategico è, per forza di cose, destinato a restare sulla carta.
Al momento, tale obiettivo è ancora fissato per il 2028, ma le difficoltà non sono poche.
Per tale ragione, il ministro della Difesa Giudo Crosetto ha, più volte, avanzato l’interessante ipotesi di far sì che tali spese vengano escluse dalle regole di bilancio UE (cosa che, a ben guardare, sarebbe anche logica, considerando gli importanti ritorni economico-tecnologici da esse derivanti), ma non è ancora chiaro quale potrebbe essere la risposta di Bruxelles e degli altri partner europei.
In ogni caso, è importante continuare sulla strada intrapresa senza pensare di fermarci (cosa che, come ben sappiamo, potrebbe facilmente accadere qualora russi e ucraini raggiungessero un accordo), poiché l’alternativa sarebbe quella di contare poco e continuare a subire decisioni altrui.
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