Di Giuseppe Gagliano*
SPIEZ (SVIZZERA). C’è un luogo, nel cuore della Svizzera, di cui quasi nessuno parla.
Eppure custodisce un potenziale tanto salvifico quanto devastante.
A Spiez, nell’Oberland bernese, si trova un laboratorio di alta sicurezza che ospita alcuni degli agenti patogeni più pericolosi del pianeta.

Ufficialmente, è un centro per la prevenzione delle pandemie.
Ma dietro le rassicurazioni ufficiali si intravedono domande scomode, legate al potere, alla geopolitica e alla gestione di ciò che, in mani sbagliate, potrebbe diventare un’arma.
Nel 2021, nel pieno della pandemia di Covid-19, l’Organizzazione Mondiale della Sanità firmò un protocollo con il Governo federale svizzero: nasceva così il BioHub, un deposito globale di virus e microrganismi ad alto rischio.

La missione dichiarata è “nobile”: raccogliere, sequenziare e condividere rapidamente con i laboratori di tutto il mondo gli agenti patogeni in grado di provocare nuove pandemie.
Coronavirus, varianti, Ebola, Marburg, antrace: a Spiez vengono coltivati, catalogati, congelati e inviati solo a centri considerati “qualificati” dall’OMS.

Ma se la facciata è quella della scienza al servizio dell’umanità, la realtà è più complessa.
Un deposito centralizzato di agenti patogeni è un obiettivo sensibile per hacker, terroristi e perfino Stati ostili.
Chi controlla davvero i controllori? Quanto è sicuro affidare a un solo centro la custodia di materiali che potrebbero, anche per errore, scatenare una catastrofe globale?
La storia di Spiez rivela radici militari.
Nato nel periodo tra le due guerre mondiali come laboratorio per la difesa chimica e biologica, per decenni è stato un nodo cruciale delle strategie svizzere di protezione civile. Oggi, in un mondo dove scienza, economia e politica sono sempre più intrecciate, il laboratorio è diventato uno snodo geopolitico.
Alcuni analisti avvertono: il BioHub potrebbe trasformarsi in uno strumento di pressione, un asset strategico nelle mani di poche élite scientifiche e politiche.
La Svizzera ha sempre giocato la carta della neutralità, ma la gestione di un simile arsenale biologico la proietta al centro di equilibri delicatissimi. Gli stessi Paesi in via di sviluppo, spesso destinatari di aiuti sanitari, temono che il sistema favorisca le grandi potenze, lasciando indietro chi non ha accesso diretto ai dati e alle risorse custodite a Spiez.
E il silenzio che circonda il BioHub è forse l’aspetto più inquietante. Pochi cittadini europei sanno della sua esistenza.
Pochi giornalisti hanno avuto accesso alle informazioni reali. In un’epoca segnata da pandemie, crisi energetiche e guerre tecnologiche, la domanda diventa inevitabile: chi vigila su chi vigila? E siamo sicuri che la promessa di “prevenire” non nasconda, per qualcuno, la tentazione di “controllare”?
* Presidente Centro Studi Cestudec
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