Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. Ieri, Benjamin Netanyahu è stato ricevuto alla Casa Bianca per una cena ufficiale con il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Un incontro dal forte valore simbolico e politico, durante il quale il primo ministro israeliano ha consegnato a Trump una lettera ufficiale di candidatura al Premio Nobel per la Pace, elogiando il suo ruolo nei negoziati per un cessate il fuoco a Gaza e negli Accordi di Abramo.

Il gesto, altamente mediatico, si inserisce in un contesto geopolitico teso ma strategicamente orientato.
Trump ha ribadito il suo impegno per un cessate il fuoco di 60 giorni nella Striscia di Gaza, con incluso uno scambio di ostaggi. Netanyahu, tuttavia, ha precisato che qualsiasi soluzione dovrà includere tre condizioni imprescindibili: la distruzione totale di Hamas, l’esilio della sua leadership e il disarmo completo dell’organizzazione.
A margine del confronto, è riemerso il piano Trump-Riviera del Medio Oriente, una visione che coniuga sicurezza e ricostruzione attraverso la creazione di una zona industriale a Gaza e l’eventualità per la popolazione palestinese di trasferirsi altrove.
Netanyahu ha parlato di libertà di scelta, ma la proposta rischia di alimentare nuove tensioni, poiché potrebbe essere percepita come una forma di pressione indiretta all’emigrazione.
Il tentativo di ridefinire gli equilibri regionali si inserisce in una cornice più ampia, ereditata dalla logica della Guerra Fredda: da un lato Stati Uniti e Israele che cercano di stabilizzare l’area attraverso alleanze selettive e normalizzazioni diplomatiche; dall’altro, l’Iran e l’asse sino-russo che promuovono un ordine alternativo.
Gli Accordi di Abramo, rilanciati da Trump, rappresentano uno dei cardini di questa strategia di contenimento e aggregazione.
A rafforzare questa dinamica è il recente attacco congiunto israelo-americano contro le installazioni nucleari iraniane, che ha consolidato la cooperazione militare tra i due Paesi.
Pur mantenendo una linea dura, Trump ha lasciato aperto uno spiraglio per futuri colloqui con Teheran, nella logica di una pressione multilivello che combina deterrenza e diplomazia.

Le implicazioni strategiche sono molteplici.
Il rinnovato asse USA-Israele rafforza l’immagine di Trump come leader globale, capace di proporre una visione alternativa per la stabilizzazione del Medio Oriente.
Ma la pace che si prospetta è profondamente condizionata: passa dalla smobilitazione totale di Hamas, da un piano di ricostruzione controllata e da una ridefinizione dello status della popolazione palestinese.
Non si tratta di un ritorno al tavolo dei due Stati, bensì di un nuovo paradigma: sicurezza e deterrenza in cambio di governance e sviluppo.
Infine, la proposta di candidatura al Nobel per la Pace rappresenta un’ulteriore mossa comunicativa destinata a dividere.
Trump era già stato nominato in passato per altri tentativi di mediazione internazionale, ma la sua figura resta polarizzante.
In particolare, la recente offensiva contro l’Iran ha sollevato critiche da parte di diversi attori internazionali, tra cui il Pakistan, che aveva elogiato Presidente americano per la de-escalation tra Islamabad e Nuova Delhi, salvo poi condannare duramente l’intervento militare.
L’incontro tra Netanyahu e Trump sancisce dunque un passaggio chiave nella ridefinizione della postura americana in Medio Oriente.

Un’operazione che punta a superare l’antico schema “terra in cambio di pace” in favore di un’architettura regionale centrata sulla deterrenza militare, sulla ricostruzione condizionata e sulla rimozione degli attori ritenuti destabilizzanti. Le sue conseguenze saranno durature, nel bene o nel male.
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