Turchia, il dinamismo di Erdogan mette a rischio gli interessi italiani nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Urge una risposta rapida

Di Fabrizio Scarinci

Ankara. Nata nel 1923 sulle spoglie dell’Impero Ottomano, per molto tempo la Repubblica Turca è stata ben lontana dal ricoprire un ruolo di primo piano a livello internazionale.

L’Impero Ottomano

Infatti, nonostante una collocazione geografica di grande valore strategico, una popolazione relativamente numerosa e le audaci riforme modernizzatrici di stampo kemalista, il forte ritardo economico e produttivo accumulato in epoca tardo-ottomana nei confronti delle potenze più avanzate limitava ancora pesantemente la credibilità della Turchia come attore geopolitico di rilievo.

Nel 1952 il Paese, minacciato dal potente vicino sovietico, scelse di entrare a far parte della NATO, diventando così il bastione sud-orientale dell’Alleanza.

In questo nuovo scenario le Forze Armate turche avevano principalmente il compito di rallentare, in collaborazione con le forze statunitensi presenti in Anatolia, eventuali offensive sovietiche verso il Mediterraneo.

A tale scopo Ankara venne aiutata dai suoi nuovi alleati a rafforzare il proprio dispositivo militare che, grazie anche alla disponibilità di ingenti quantitativi di mezzi di seconda mano o acquistabili a prezzi particolarmente convenienti, ebbe modo di crescere fino a diventare, nel giro di un ventennio, uno dei più consistenti dell’Alleanza Atlantica.

Tuttavia, le carenze industriali e tecnologiche che caratterizzavano il Paese continuavano a relegarlo in una posizione subalterna rispetto all’Occidente, senza il supporto del quale il mantenimento di un simile strumento militare sarebbe stato infatti impossibile.

In seguito al colpo di Stato cipriota del 1974, che vide il rovesciamento del Governo dell’arcivescovo Makarios ad opera di militari filo-greci, la Turchia invase l’isola con il pretesto di proteggere la locale comunità turcofona, arrivando ad occupare illegittimamente oltre il 40% del suo territorio.

La questione turco-cipriota è sempre calda

La reazione occidentale fu piuttosto dura e, malgrado l’importanza della posizione strategica del territorio turco, gli Stati Uniti misero in atto nei confronti di Ankara un pesante embargo sulla vendita di sistemi d’arma.

Tuttavia, tale situazione rappresentò un forte incentivo allo sviluppo di capacità produttive autoctone nel settore degli armamenti e alcuni anni dopo, quando l’embargo ebbe termine, i turchi pretesero e ottennero un maggiore coinvolgimento delle loro aziende nell’ambito della produzione dei sistemi destinati alle Forze Armate del Paese.

A tale riguardo, un esempio particolarmente noto è costituito dall’acquisizione, da parte della Turkish Aerospace Industries, della licenza di produzione del caccia F-16 Fighting Falcon, prodotto in centinaia di esemplari a partire dal 1987.

Sempre cooperando con aziende di altri Paesi, il complesso militare-industriale turco ebbe poi modo di beneficiare di significativi spillover anche riguardo alla produzione di navi e sottomarini, mentre le forze terrestri iniziavano a poter contare sul supporto di aziende come Otokar e Aselsan, create tra gli anni ’60 e ’70 e notevolmente cresciute nei decenni successivi.

Fu in ogni caso tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo che la condizione geopolitica del Paese visse la svolta più radicale.

Infatti, se la fine della Guerra Fredda diede alla Turchia l’opportunità di tornare a giocare un ruolo di primo piano nell’area compresa tra il Mediterraneo e l’Asia Centrale, la progressiva liberalizzazione degli scambi economici e finanziari internazionali e gli accordi commerciali con l’Unione Europea, favorendo una formidabile crescita dell’economia del Paese, fornirono ad Ankara strumenti più adeguati al fine di perseguire tale ambizioso progetto politico.

Nel 2002 le elezioni furono vinte dal partito di ispirazione islamica AKP, fondato e guidato da Recep Tayyip Erdogan, il quale, proprio beneficiando dello strepitoso boom economico di quel periodo, ha avuto modo di consolidare il suo potere e di restare alla guida del Paese fino ai nostri giorni.

Il Presidente turco Erdogan con alcuni consiglieri militari

Tale classe dirigente, perfettamente conscia dei mutamenti geopolitici intervenuti dopo la fine del confronto bipolare, è apparsa fin da subito piuttosto decisa a cogliere le numerose opportunità offerte dalla nuova situazione.

Fortemente ispirato dalle idee del futuro primo ministro Ahmed Davutoglu, il governo a guida AKP ha portato avanti una politica mirante ad espandere l’influenza di Ankara nel mondo arabo-islamico, rivolgendo la propria attenzione sia ai paesi limitrofi un tempo parte dell’Impero Ottomano, sia a quelli dell’Asia Centrale, dove il crollo dell’Unione Sovietica aveva reso indipendenti diversi popoli etnicamente e culturalmente affini alla Turchia.

Il primo ministro Ahmed Davutoglu

Tale politica, incentrata tanto sull’incremento degli interscambi di natura economica e finanziaria quanto sulla valorizzazione delle comuni radici culturali e religiose, non appariva, almeno inizialmente, in contrasto con l’appartenenza del Paese all’Alleanza Atlantica e con l’ambizione di Ankara di entrare a far parte dell’Unione Europea.

Un valido aiuto al fine di comprendere quelli che erano gli orientamenti strategici di Ankara negli anni 2000 è offerto dalle parole dello stesso Davutoglu, pronunciate quando, nel 2009, recatosi a Washington in veste di ministro degli Esteri, ebbe modo di spiegare come gli Stati Uniti, prima superpotenza della Storia ad emergere al di fuori della massa continentale afro-eurasiatica, avrebbero potuto conservare il proprio ruolo soltanto attraverso la ricerca di una proficua collaborazione con le maggiori potenze regionali di tale massa continentale, il cui controllo restava in ogni caso imprescindibile.

Tra queste potenze, egli naturalmente inseriva la Turchia, alla quale, sempre secondo la sua visione, gli statunitensi avrebbero dovuto in qualche modo subappaltare il ruolo di gendarme nella regione mediorientale.

Tuttavia, sebbene la sua visione dell’Afro-Eurasia, come area decisiva per l’assetto geopolitico mondiale, fosse sostanzialmente corretta, Davutoglu sembrava non tenere conto di quali fossero i reali obiettivi statunitensi riguardo ad essa.

Da circa un secolo, infatti, Washington mira ad evitare l’ascesa o il consolidamento di attori egemonici capaci di sfidare la propria posizione (in particolar modo se politicamente ostili).

In quest’ottica, sebbene il Medio-Oriente non abbia la stessa rilevanza di regioni come l’Europa o l’Estremo Oriente, e la Turchia sia ben lungi dall’essere un potenziale competitor globale degli USA, l’idea di favorire l’ascesa di una potenza come Ankara, anche a scapito di altri alleati, in una regione comunque importante e caratterizzata da equilibri piuttosto delicati, non suscitava troppo entusiasmo al Pentagono e al Dipartimento di Stato.

Inoltre, con il passare del tempo, la possibilità che tra i due Paesi si instaurasse un simile tipo di cooperazione si ridusse ulteriormente, lasciando spazio a gravi tensioni e sospetti reciproci.

Infatti, constatata la refrattarietà statunitense a supportare le loro ambizioni, i turchi iniziarono a rivolgere la loro attenzione verso oriente, nella speranza che con russi e cinesi fosse possibile instaurare forme di collaborazione capaci di garantire ad Ankara maggiori aperture nel perseguimento delle proprie ambizioni.

Un primo segnale di questo nuovo corso della politica estera di Ankara si ebbe già nel 2012, quando il Paese assunse lo status di “dialogue partner” in seno alla Shanghai Cooperation Organization (SCO), un’organizzazione fondata proprio da Russia e Cina e dedita, tra l’altro, alla cooperazione in ambito strategico tra i suoi membri.

Parallelamente a questo cambio di rotta, anche l’evoluzione della politica interna turca stava iniziando a diventare motivo di scontro tra Ankara e suoi alleati tradizionali.

Decenni di negoziati con la Comunità e l’Unione Europea avevano progressivamente fatto in modo che i militari turchi, difensori della laicità dello Stato, venissero allontanati dai gangli del potere e lasciassero il governo del Paese nelle mani di istituzioni civili e democratiche e, in definitiva, fu proprio questo cambiamento a rendere possibile la vittoria dell’AKP.

Per alcuni anni Erdogan apparve poi agli occhi di europei ed americani come un leader illuminato, capace di conciliare Islam e democrazia, e durante le cosiddette primavere arabe in molte occasioni analisti, esperti e politologi auspicarono per i paesi in questione un futuro “alla turca”.

Tuttavia, se nel 2012, durante gli incontri con i Fratelli Musulmani libici, il Presidente turco pronunciava ancora frasi quali “… non abbiate paura della laicità, laicità non significa abbandonare la propria religione, essa garantisce invece la possibilità di praticare la religione che si è scelta …”, le cose sarebbero radicalmente cambiate a partire dall’anno successivo, quando, in seguito alle proteste di Piazza Taksim e alla fuga di notizie su un suo presunto coinvolgimento diretto nella cosiddetta “Tangentopoli turca”, egli intraprese un’opera di progressiva restrizione delle libertà civili, trascinando il Paese lungo un percorso autoritario non privo di elementi di matrice islamista e complicando in tal modo anche lo stesso cammino di Ankara verso l’adesione all’Unione Europea.

Diverse polemiche ha poi suscitato, a livello internazionale, il comportamento tenuto dal governo turco riguardo alla crisi siriana, nell’ambito della quale, almeno per un certo periodo di tempo, il Paese ha rischiato non solo di rompere con un Occidente già di per sé piuttosto confuso e del tutto incapace di elaborare una strategia efficace, ma anche di guadagnarsi un isolamento totale.

In particolare, nell’ambito di tale crisi, i turchi hanno perseguito principalmente due obiettivi: quello di favorire la caduta del regime di Bashar Assad e quello di indebolire le milizie curdo-siriane dello YPG (Unità di Protezione Popolare), a loro volta ostili al regime siriano ma anche alleate del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan).

Milizie YPG

Non va infatti dimenticato che questo partito, attualmente considerato un’organizzazione terroristica dalla Turchia, dagli Stati Uniti e anche dall’Unione Europea, porta avanti la causa dell’indipendenza dei territori curdi sottoposti alla sovranità di Ankara sin dalla fine degli anni 70.

I turchi hanno quindi supportato e finanziato diversi gruppi di combattenti, alcuni dei quali molto vicini alle posizioni islamiste più radicali sia contro i curdi che contro Damasco.

Ankara ha inoltre mantenuto un atteggiamento piuttosto ambiguo anche nei confronti dell’ISIS, chiudendo un occhio riguardo al transito sul suo territorio dei numerosi “foreign fighters” ansiosi di unirsi al “Califfato” e mostrandosi per molto tempo piuttosto riluttante ad intervenire militarmente contro di esso, probabilmente nella speranza che i suoi combattenti annientassero le milizie curde della Rojava.

Essendo russi e iraniani impegnati a salvare il regime di Assad, al fine di conservare la propria influenza su Damasco, il comportamento di Erdogan in Siria ha anche messo Ankara in rotta di collisione con Mosca e Teheran, arrivando, soprattutto con i russi, a sperimentare livelli di tensione particolarmente elevati.

Tuttavia, se nel corso degli ultimi anni, complice anche il silenzio di USA e UE durante la notte del fallito golpe del 15 luglio 2016, il rapporto tra Turchia ed Occidente sembra essersi ulteriormente deteriorato, le relazioni russo-turche sembrano aver goduto, almeno in apparenza, di un progressivo miglioramento.

Infatti, superate le fasi più acute della crisi dovuta all’abbattimento del jet russo, avvenuto il 24 novembre 2015, Putin ed Erdogan, mostrando anche una certa dose di pragmatismo, hanno riaperto numerosi dossier in tema di commercio, energia e cooperazione politico-strategica.

In seguito a tale riavvicinamento Erdogan ha progressivamente abbandonato l’idea di sostituire Bashar Assad e la sua attenzione si è quindi concentrata soprattutto sui curdi, nei confronti dei quali gli obiettivi di Ankara non sono certamente cambiati.

Durante l’Operazione “Scudo dell’Eufrate”, con cui finalmente, nell’estate del 2016, la Turchia si univa in modo più deciso agli sforzi della coalizione internazionale in funzione anti-ISIS, venivano infatti colpite anche le milizie dello YPG.

Da allora diverse altre operazioni sono state condotte contro i curdi. L’ultima di esse, denominata “Sorgente di Pace”, è stata lanciata solo poche settimane fa e ha visto le forze di Ankara spingersi all’interno del territorio siriano per creare, lungo tutta la frontiera tra i due Paesi, una fascia di sicurezza di circa 30 chilometri di profondità allo scopo di allontanare le milizie curde dai propri confini.

Diversi osservatori hanno però iniziato a sospettare, non a torto, che tale piano possa essere la premessa di una politica di tipo espansionistico, ispirata al concetto di “Grande Turchia”, che viene ciclicamente propugnato da decenni negli ambienti legati al nazionalismo turco e che anticiperebbe proprio l’annessione delle regioni curde di Siria ed Iraq, più o meno fino all’allineamento Aleppo-Kirkuk.

Tali sospetti devono essere venuti anche a Bashar Assad che, non a caso, ha minacciato l’invio delle sue truppe a combattere contro l’Esercito turco al fianco dei suoi “nemici” dello YPG, ed è solo grazie alla mediazione di Mosca che si è riusciti, almeno per ora, ad alleggerire la tensione tra Ankara e Damasco.

Con tale mossa, Putin si è visto riconoscere, anche grazie a un profilo più basso assunto dagli americani nel Paese, un ruolo di primo piano nella gestione del dossier siriano.

La collaborazione che Russia e Turchia hanno stabilito nel corso degli ultimi anni sembra quindi essere piuttosto forte, tuttavia non è chiaro se da essa possa scaturire o meno un definitivo allontanamento di Ankara dall’Alleanza Atlantica. Molti indicatori, incluso il bisogno reciproco tra Occidente e Turchia, farebbero immaginare solo una crisi temporanea.

Nonostante ciò, l’acquisto da parte turca del sistema di difesa antiaereo russo S 400, preferito al Patriot statunitense a all’italo-francese SAMP-T, rischia di pesare come un macigno sulle ormai già fragili relazioni tra Turchia e i suoi alleati occidentali.

Una batteria di missili S400

L’acquisizione di tali sistemi ha infatti causato un (nuovo) embargo sulla vendita di sistemi d’arma alla Turchia da parte degli Stati Uniti.

In particolare, l’amministrazione Trump, preoccupata dal fatto che l’inevitabile presenza di personale russo durante la fase di dispiegamento e sperimentazione iniziale dell’S-400 sul suolo turco possa aiutare Mosca a carpire segreti sulla rilevazione degli F-35 Joint Strike Fighter (JSF), ha dapprima escluso Ankara da quel programma, per poi allargare l’embargo anche ad altri sistemi. Tale scelta rischia di avere gravi conseguenze sulle capacità operative delle forze armate turche, specialmente in campo aereo e navale.

Nello specifico, l’Aeronautica turca, che dispone oggi di una linea di combattimento incentrata su circa 240 F-16C e circa 50 obsoleti F-4 Phantom II, mirava a dotarsi di 100 F-35 A al fine di rimpiazzare i velivoli più vetusti, mentre la marina, oltre ad avere in linea 8 Fregate di fabbricazione statunitense della classe “Oliver Hazard Perry”, aveva intenzione di acquistare una ventina di esemplari della versione B, a decollo corto e atterraggio verticale (STOVL), per imbarcarli sulla nuova portaelicotteri d’assalto anfibio “Anadalou”, la sua punta di diamante per soddisfare le ambizioni di proiezione del Paese in quello che noi abbiamo chiamato “Mediterraneo allargato”.

L’embargo rischia però di avere ripercussioni pure a livello industriale e la cosa sarebbe ancor più grave per Ankara se anche gli europei, come più volte paventato, decidessero di seguire le orme di Washington. Infatti, se è vero che a partire dalla fine degli anni ’80 la Turchia ha notevolmente ampliato le sue capacità produttive, tanto che oggi l’industria della difesa nazionale rifornisce le forze armate per circa il 70%, vi sono anche forti dubbi sull’effettiva capacità del Paese di gestire da solo i progetti più avanzati e dal più elevato livello tecnologico.

In tal senso, un esempio su tutti TFX, ossia un caccia stealth di quinta generazione di produzione nazionale che i turchi, nei loro piani originari, avrebbero voluto affiancare all’F35.

F-35 in volo

È, infatti molto difficile che la Turchia, mai andata oltre la produzione su licenza di velivoli di quarta generazione, riesca autonomamente a soddisfare le rilevanti specifiche tecniche di un tale velivolo, dall’avionica ai materiali radar-assorbenti sino al propulsore, senza andare incontro a spese insopportabili e a tempi di realizzazione biblici. Inoltre, data la situazione internazionale, appare difficile che essa possa facilmente ottenere collaborazioni industriali “significative” che le possano consentire di accorciare i tempi di realizzazione.

Specie se si pensa che anche le poche aziende di peso coinvolte nel programma si starebbero tirando indietro, come nel caso della Rolls Royce, coinvolta inizialmente nello sviluppo del motore e ritiratasi il 4 marzo scorso.

In ogni caso, sebbene il blocco occidentale nei confronti della Turchia potrebbe rivelarsi solo uno strumento di pressione volto a ricondurre Ankara a più miti consigli, esso offre involontariamente alla Russia, e forse a qualche altra potenza eurasiatica, l’opportunità di incunearsi ulteriormente tra i turchi e i loro alleati storici.

Non a caso, nelle ultime settimane Mosca avrebbe proposto ad Ankara la vendita di 36 caccia Sukhoi 35, tra i più avanzati aviogetti di quarta generazione presenti sul mercato, e tale proposta potrebbe aprire la strada a ulteriori future collaborazioni, che potrebbero includere la fornitura dei più avanzati Sukhoi 57 nonché la tanto sperata assistenza tecnica per la realizzazione del TFX.

La possibilità di cooperare con la Russia in ambito militare ed industriale potrebbe in effetti rivelarsi per Ankara un valido moltiplicatore di forza negoziale nei confronti dell’Occidente, che dal canto suo avrebbe in realtà ancora un certo interesse nel mantenere la Turchia all’interno della NATO, specie considerando l’importanza strategica del suo territorio e il fatto che nella base di Kurecik, nel sud-ovest del Paese, è anche stato schierato un radar AN/TPY-2 (lo stesso del sistema THAAD) come parte del sistema di difesa antimissile dell’Alleanza.

La crisi con l’Occidente dovrebbe però essere gestita da Ankara con cautela, anche alla luce della condizione in cui versa oggi il sistema economico turco.

Negli ultimi anni infatti, malgrado la Turchia sperimentasse una crescita già di per sé abbastanza sostenuta, la sua Banca Centrale, istituto teoricamente indipendente, è stata erroneamente spinta da Erdogan all’attuazione di continue politiche monetarie espansive, forse con la speranza di velocizzare ulteriormente tale crescita attraverso l’aumento di investimenti di ogni tipo. Questo ha però fatto aumentare in modo esponenziale il tasso d’inflazione, che ha vanificato parte dell’aumento dei salari, disincentivato gli investimenti veramente innovativi e creato enormi difficoltà a tutti gli operatori indebitati con banche o istituti finanziari esteri.

Una situazione difficile che, oltre a costituire significativo ostacolo alla realizzazione delle ambizioni geopolitiche turche, rappresenta una grave minaccia alla stessa stabilità interna del Paese.

Per questo motivo, mettendo da parte (per il momento) le loro convinzioni in materia di politica monetaria, Erdogan e i leader dell’AKP sembrano ora intenzionati a cambiare strada, optando per politiche più restrittive, evidentemente con lo scopo di abbassare il tasso d’inflazione ed ottenere una crescita economica più solida e basata sull’innovazione.

Restano comunque seri dubbi sull’effettiva capacità del Paese di tornare ai livelli di crescita sperimentati negli anni precedenti e un peggioramento delle relazioni con l’Occidente porrebbe dei rischi ancora più seri per l’economia di Ankara.

Altre criticità, derivanti da un eventuale avvicinamento alla Russia e alla SCO, potrebbero scaturire dal fatto che Mosca e Pechino presentano nella realtà punti di scollamento e non è affatto certo che la Turchia possa davvero contare su quel blocco senza trovarsi poi di fronte ad un’ulteriore difficile scelta di campo. Va comunque da sé che se il clima politico tra Ankara ed occidente dovesse peggiorare ulteriormente nulla potrebbe essere escluso, neppure una fuoriuscita del Paese dalla NATO.

In definitiva, sulla base di quanto osservato, è forse possibile descrivere la Turchia come una delle maggiori incognite del panorama geopolitico contemporaneo.

Riguardo alla forza complessiva del suo sistema-paese, pur avendo superato gli 82 milioni di abitanti, al 2019 il PIL nominale del Paese è ancora di soli 750 miliardi di dollari circa, una cifra inferiore a quella dei Paesi Bassi. Sebbene le potenzialità militari di un paese non siano una mera funzione della grandezza del suo prodotto interno lordo (e si è già accennato a tal proposito al discreto livello di capacità raggiunto dalla Turchia nel settore dell’industria della difesa), risulta comunque difficile immaginare che Ankara, con tali risorse economiche, possa assurgere nel breve termine al rango di protagonista globale, a maggior ragione qualora non riuscisse a riprendere il cammino della crescita. Cionondimeno, soprattutto grazie ad un mix di assertività e capacità di adattamento rispetto alle vicende regionali, il Paese pare essere comunque riuscito a conseguire un ruolo di un certo rilievo nella sua regione.

Naturalmente, non si deve escludere che anche la pavidità mostrata dall’Europa, ricattata in merito al fenomeno migratorio, ha giocato un ruolo importante a tale riguardo.

Un esempio di ciò è dato da quanto accaduto nel corso delle ultime settimane nel Mediterraneo, dove Erdogan ha stipulato con il governo di Tripoli un accordo riguardo alla spartizione delle Zone Economiche Esclusive (illegittimo sul piano del Diritto Internazionale del Mare) che la dice lunga su quale sia il livello di assertività mostrato dai turchi riguardo al controllo e allo sfruttamento delle risorse energetiche nel Mar di Levante, che Ankara considera ormai come il suo giardino di casa, ai danni di paesi come Grecia, Cipro e Israele.

E Italia, anche se la cosa sembra non essere abbastanza chiara agli occhi dei nostri governanti.

É di questi giorni la notizia secondo cui Ankara interverrà a sostegno del Governo di Serraj, in difficoltà di fronte alle truppe di Haftar.

Erdogan e Serraj in un recente incontro in Tunisia

Tale fatto costituisce un’esplicita indicazione della volontà turca di ripresentarsi con voce autorevole al pubblico arabo, tentativo sostanzialmente fallito durante le primavere arabe, e la Libia rappresenta ora un’irrinunciabile ultima opportunità.

Inutile dire come anche qui il nostro Paese, soprattutto con l’ENI, abbia molto da perdere. Ma né il nostro governo né tantomeno l’Unione Europea sembrano avere una linea chiara sul da farsi.

Tuttavia, considerando l’impatto che le azioni turche possono avere nella regione del Mediterraneo e del Medio-Oriente, un’analisi costante della politica di quel Paese appare quanto mai necessaria e urgente, soprattutto da parte dell’Italia, la quale può ormai ritrovarsi con i propri interessi messi a serio rischio proprio a causa del dinamismo turco nell’area,

Che facciamo, aspettiamo ancora che si apra un tavolo?

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