Di Giuseppe Gagliano*
ANKARA. Volodymyr Zelensky vola in Turchia per parlare di pace, mentre l’esercito ucraino colpisce la Russia con missili a lunga gittata. È l’immagine perfetta della guerra che entra nel quarto anno: diplomazia e fuoco incrociato, tavoli negoziali e sistemi d’arma avanzati che viaggiano in parallelo, senza che l’uno sembri davvero influenzare l’altro. Sullo sfondo, il ruolo della Turchia, che da “ponte” tra Mosca e Kiev torna a proporsi come mediatore indispensabile, e quello degli Stati Uniti, che oscillano tra l’invio di armamenti e la pressione sulle parti per sedersi a parlare.
La Turchia, crocevia obbligato della trattativa
Ankara si conferma il luogo naturale dei contatti indiretti tra Russia e Ucraina. Stato membro della Alleanza Atlantica, ma legato alla Russia da interessi energetici e militari, la Turchia è una delle poche capitali in grado di parlare con tutti. In passato ha ospitato i colloqui che hanno permesso scambi di prigionieri e il recupero dei resti dei soldati caduti, piccoli spiragli di umanità in un conflitto di logoramento.
Zelensky annuncia di voler rilanciare quel formato, portando “soluzioni pronte” da proporre ai partner e parlando di una “pace giusta”, formula che in codice significa ritiro russo dai territori occupati e garanzie di sicurezza per Kiev. Dall’altra parte, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha interesse a mostrare alla propria opinione pubblica e al mondo un ruolo centrale: mediatore in Ucraina, potenza regionale che non si limita a eseguire le strategie occidentali, ma prova a dettarne alcune.
A questa cornice si aggiunge la presenza dell’inviato speciale degli Stati Uniti, Steve Witkoff, segno che Washington non vuole abbandonare il terreno diplomatico proprio mentre rilancia quello militare.

Mosca resta alla finestra, ma ascolta
Il Cremlino fa sapere che a Istanbul non ci saranno rappresentanti russi. Una assenza che non è una rinuncia, ma un modo per non conferire a questo giro di incontri il rango di negoziato formale. Il portavoce Dmitry Peskov precisa che Putin è disposto a parlare con Turchia e Stati Uniti dei risultati dei colloqui, mantenendo Mosca in una posizione di attesa vigile: non partecipa, ma osserva, misura toni e contenuti, valuta i margini.
Su questa scelta pesa anche il deterioramento del rapporto con Washington, aggravato dalle nuove sanzioni imposte dal presidente Trump ai grandi gruppi energetici russi. Se l’energia è la principale leva di Mosca, colpire il settore petrolifero e del gas significa toccare il cuore della sua capacità di proiezione esterna. Lo stallo diplomatico è quindi anche il riflesso di una battaglia economica che si gioca sui bilanci di Stato e sul peso delle sanzioni.
ATACMS contro S-400
Mentre la diplomazia si muove, la guerra prosegue con una escalation qualificata. Kiev rivendica di aver colpito obiettivi militari in territorio russo con missili a lungo raggio forniti dagli Stati Uniti. Mosca risponde di aver abbattuto tutti i vettori con i sistemi di difesa S-400 e con le batterie missilistiche e di artiglieria contraerea, mostrando fotografie dei resti e accusando l’Ucraina di aver messo a rischio infrastrutture civili.
Al di là della propaganda di entrambe le parti, il dato politico è chiaro: l’Ucraina usa sistematicamente armamenti occidentali per colpire la Russia oltre confine. È il frutto di una progressiva rimozione dei limiti inizialmente posti da Washington, che temeva una reazione incontrollabile del Cremlino. Prima l’uso solo su territorio occupato, poi l’allargamento alle regioni di confine, ora l’impiego dichiarato come strumento di pressione per portare Mosca al tavolo.
Per la Russia, questi attacchi confermano il racconto di una guerra diretta con gli Stati Uniti e i loro alleati. Per l’Ucraina, servono a mostrare che il conflitto non è più confinato al proprio suolo e che il costo per Mosca crescerà nel tempo.

Tra sostegno militare e paura del salto di qualità
La questione dei missili a lunga gittata è il punto più delicato della strategia americana. L’amministrazione precedente aveva gradualmente allentato le restrizioni, accettando che Kiev colpisse la Russia per compensare la superiorità numerica e industriale di Mosca. L’attuale Casa Bianca, pur mantenendo una posizione ufficialmente più cauta, si trova davanti a un dato di fatto: l’Ucraina considera questi sistemi indispensabili per evitare una guerra di posizione senza fine, che consuma uomini e mezzi senza spostare la linea del fronte.
La richiesta di armamenti con gittata ancora maggiore, capaci di raggiungere profondità strategiche nel territorio russo, è quindi un tentativo di rovesciare i calcoli del Cremlino, colpendo infrastrutture logistiche e basi lontane dal fronte. Ma ogni chilometro in più di raggio d’azione rende più sottile il confine tra “sostegno a un alleato attaccato” e “partecipazione indiretta a un conflitto tra potenze nucleari”.
Il peso geopolitico di Ankara nella partita ucraina
Nel mezzo di queste tensioni, la Turchia prova a capitalizzare per sé. È membro della Alleanza Atlantica, ma non ha aderito alle sanzioni occidentali contro la Russia, importa energia russa e coopera con Mosca in Siria, nel Caucaso e nel Mar Nero. Allo stesso tempo fornisce droni e supporto politico all’Ucraina, che considera un tassello importante nel suo disegno di potenza regionale.
Presentarsi come piattaforma della pace significa per Ankara guadagnare credito in Occidente, pur mantenendo aperta la porta a Mosca. È una politica di bilanciamento che aumenta il valore strategico della Turchia agli occhi di Washington e di Bruxelles, soprattutto in un Mediterraneo orientale dove si intrecciano rotte energetiche, accordi navali, controllo degli stretti e dossier migratorio.
Pace, ma a quali condizioni?
Zelensky parla di “pace giusta”, ma la distanza tra la posizione ucraina e quella russa resta enorme. Kiev non può permettersi di accettare una congelazione delle linee attuali senza garanzie solide, perché significherebbe legittimare l’occupazione di una parte consistente del proprio territorio. Mosca, dal canto suo, non ha alcun interesse a riconsegnare ciò che considera ormai acquisito, soprattutto dopo aver pagato un prezzo alto in termini di uomini, risorse e isolamento internazionale.
In questo quadro, gli incontri in Turchia, l’intervento degli emissari statunitensi, l’uso di missili a lunga gittata, sono tutti tasselli di una stessa realtà: una guerra che non è ancora pronta a trasformarsi in pace, ma che attraverso diplomazia e pressioni militari cerca di costruire il terreno su cui, un giorno, si potrà discutere davvero di fine delle ostilità. Fino ad allora, il doppio binario di negoziati e bombardamenti resterà la norma.
*Presidente Centro studi strategici (Cestudec)
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