Ucraina: quali sono e a cosa stanno mirando i quattro attori fondamentali del conflitto

Di Fabrizio Scarinci.

KIEV. La guerra in Ucraina ha certamente avuto un fortissimo impatto su tutto il Sistema Internazionale, coinvolgendo, direttamente o indirettamente, numerosissimi Paesi.

Attacco russo in Ucraina

Tuttavia, anche in ragione della relativa rilassatezza strategica mostrata dagli europei nel corso degli ultimi decenni, dei palesi limiti che al momento caratterizzano India e Giappone in qualità di attori globali e dell’insufficiente peso specifico della Turchia (che pure ha favorito il raggiungimento di alcuni importanti accordi riguardo alla possibilità di esportare grano da parte degli ucraini), gli unici soggetti davvero in grado di determinare l’andamento del conflitto sembrerebbero essere i due belligeranti, (costituiti, come noto, da Russia e Ucraina) e le due maggiori potenze mondiali (costituite dagli USA e dalla Repubblica Popolare Cinese).

Per tale ragione, al fine comprendere le dinamiche in corso appare assolutamente indispensabile concentrarsi sia sulle attuali esigenze strategiche dei quattro Paesi appena citati, sia sulle dinamiche generate dalla loro reciproca interazione.

Gli attuali obiettivi di Mosca

Numerosi elementi, come ad esempio lo scarso numero di uomini impiegato nell’attacco del 24 febbraio scorso, rivelano come Mosca abbia intrapreso la sua “operazione militare speciale” nella convinzione di avere di fronte a sé un avversario estremamente debole e internamente diviso, che vedendo penetrare le truppe Cremlino sul suo territorio non avrebbe potuto far altro che alzare bandiera bianca.

Un militare del Cremlino in azione

Con tale mossa, i pianificatori russi intendevano verosimilmente annettere una buona fetta delle regioni orientali e meridionali dell’Ucraina (in modo da acquisire alcune aree caratterizzate dalla presenza di materiali rari e qualche milione di abitanti in più, sicuramente utili anche in ragione delle non propriamente rosee proiezioni demografiche della Federazione) e attuare un cambio di regime a Kiev; cosa che avrebbe dovuto evitare una volta per tutte il suo ingresso nella NATO ed infliggere un duro colpo alla strategia globale portata avanti dagli Stati Uniti e dai loro alleati.

Come tutti sanno, però, sottovalutare la volontà di resistere degli ucraini, nonché l’opera di rafforzamento del loro apparato militare portata avanti nel corso degli anni precedenti con l’aiuto della NATO si sarebbe rivelato un gravissimo errore, che i russi avrebbero pagato con la mancata presa di Kiev e il sostanziale fallimento della maggior parte dei loro obiettivi iniziali.

Scombinando i piani di Mosca, gli ucraini avrebbero, inoltre, dato agli occidentali la possibilità di aiutarli inviando loro ingenti quantitativi di materiale bellico, in molti casi anche di tipo particolarmente avanzato.

Grazie ad esso le forze di Kiev sarebbero riuscite dapprima a frenare l’avanzata nemica anche nelle regioni orientali e meridionali del Paese, e, successivamente, a lanciare una poderosa controffensiva che avrebbe costretto i russi a ritirarsi in maniera vistosa sia nella regione di Kharkiv che in quella di Kherson.

A quel punto, onde evitare un crollo di proporzioni ancora più ampie, il Cremlino avrebbe intrapreso, da un lato, la mobilitazione di circa 300.000 uomini (gestita, a dire il vero, in modo piuttosto farraginoso) e, dall’altro, l’iniziativa di annettere attraverso dei referendum farsa le regioni di Lugansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson; cosa che, almeno a livello teorico, avrebbe anche potuto costituire (e costituirebbe tuttora) il preludio all’utilizzo di ordigni nucleari tattici al fine di conservarle (a tal proposito, bisogna, infatti, ricordare come la dottrina militare russa contempli l’utilizzo di armi nucleari non solo in risposta ad attacchi condotti con armi dello stesso tipo ma anche al fine di contrastare attacchi convenzionali in grado di minacciare l’esistenza stessa della Federazione, e che, pur non rientrando in quella categoria, le controffensive ucraine potrebbero comunque scatenare la “fantasia interpretativa” di un regime putiniano in evidente difficoltà).

Il Presidente russo, Vladimir Putin

A fronte di tale rischio, la NATO avrebbe, però, risposto dichiarandosi pronta ad intraprendere la distruzione delle forze russe coinvolte nelle operazioni in Ucraina mediante l’utilizzo di armi convenzionali; cosa che, di fatto, lascerebbe a Mosca solo tre opzioni: quella di trattare da una condizione ancor più sfavorevole, quella di cercare di continuare a combattere (col rischio, però, di scatenare un’escalation nucleare localizzata che li vedrebbe verosimilmente perdenti) e quella di scatenare un attacco nucleare totale contro i Paesi della NATO (che, soprattutto in assenza di una corrispondente minaccia in tal senso da parte occidentale, sembrerebbe essere una totale assurdità).

Alla fine, la ferma risposta della NATO e l’elevatissimo livello di tensione raggiunto durante lo scorso mese di settembre avrebbero indotto Mosca ad un progressivo abbassamento dei toni, che, unito alla corrispondente preoccupazione da parte statunitense, sembrerebbe aver avuto l’effetto di rilanciare il dialogo, se non altro al fine di scongiurare il rischio di escalation.

Al tempo stesso, il Cremlino avrebbe iniziato a lanciare alcune proposte di trattativa, che si sarebbero notevolmente intensificate (così come gli attacchi missilistici miranti ad indurre Kiev ad accettarle) in concomitanza con il definitivo abbandono di Kherson, attuato poiché, grazie all’utilizzo dei sistemi HIMARS forniti dagli USA, gli ucraini avrebbero distrutto tutte (o quasi tutte) le infrastrutture necessarie al sostentamento logistico delle forze russe sulla riva destra del fiume Dnepr, dove, se avessero mantenuto le loro posizioni non sarebbero riuscite a resistere a causa della mancanza di rifornimenti.

HIMARS in azione

Naturalmente, soprattutto considerando quella che è, ad oggi, la situazione sul campo, la cosa più probabile è che si tratti di un tentativo di prendere tempo in attesa di costituire linee difensive migliori e attendere l’arrivo dei riservisti in fase di reclutamento/addestramento, che renderebbero possibile sferrare un nuovo attacco più in là nel tempo o, più semplicemente, consolidare le conquiste effettuate nel corso degli ultimi mesi.

Per tale ragione, oltre a non sortire alcun effetto sugli ucraini (che il loro territorio lo rivorrebbero tutto), almeno finora tali proposte non sarebbero state prese troppo sul serio neanche da parte statunitense.

Il Presidente ucraino Volodymir Zelensky

USA e Ucraina: possibili divergenze  

Cionondimeno, non si può neppure nascondere come il rifiuto aprioristico di qualsiasi forma di trattativa posto, al momento, in essere da parte ucraina non sia poi così apprezzato dalle parti di Washington.

C’è comprensione, certo, c’è ammirazione, c’è da tener fede alla storica “narrativa” della potenza americana impegnata in difesa della democrazia (non sempre seguita, com’è ovvio che sia, ma pur sempre utile ad offrire una cornice valoriale alla grande strategia a stelle e strisce).

La strategia, però, si basa essenzialmente su fatti concreti, e, nel caso specifico, se gli ucraini combattono per l’integrità e la sovranità del loro Paese, ciò che ha indotto gli Stati Uniti (e, con essi, i loro alleati) a supportarli è stata soprattutto la volontà di dimostrare ai russi, ai cinesi e, volendo anche ad altri rivali minori, che, malgrado la loro non trascurabile situazione di crisi, resa particolarmente evidente dalle varie divisioni interne all’UE, dai numerosi episodi di disordine esplosi negli USA nel corso del 2020, dall’assalto a Capitol Hill e dal ritiro dall’Afghanistan (in seguito al quale i russi avrebbero definitivamente iniziato a preparare l’attacco), le loro capacità tecnologiche e militari risultano ancora assolutamente credibili, e che chiunque le sfidasse non farebbe altro che andare incontro a cocenti umiliazioni.

Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden

Di conseguenza, sebbene sia gli ucraini che gli occidentali abbiano più volte dichiarato di non voler concedere nulla al Cremlino, sembrerebbe emergere con sempre maggiore evidenza come il nulla dei primi non sia per forza di cose uguale al nulla dei secondi, dato che, se i primi mirerebbero alla completa liberazione del loro Paese, i secondi sembrerebbero, per l’appunto, avere come obiettivo primario quello di dare a Mosca una “lezione” dura abbastanza da far sì che a nessuno venga più in mente (almeno per qualche tempo) di porre in essere clamorosi mutamenti dell’assetto internazionale danneggiando gli interessi del blocco euro-atlantico; due obiettivi che, com’è facile intuire, non sembrerebbero necessariamente convergenti.

Se, infatti, gli USA “decidessero” (come, peraltro, alcune dichiarazioni dei loro apparati lascerebbero intendere) che far fare ai russi una figura barbina di otto mesi circa (condita, peraltro, dall’ingresso delle storicamente neutrali Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica) sia già un qualcosa di sufficiente al fine di mostrare al mondo la superiorità della loro tecnologia e delle loro capacità militari, e che spingersi oltre (col rischio di scatenare il terzo conflitto mondiale o di causare degli sconvolgimenti del Sistema Internazionale comunque poco favorevoli all’Occidente) non sia la scelta più giusta per propri interessi (tanto più considerando che, come ricordato dal Capo di Stato Maggiore USA Mark Milley, le probabilità che gli ucraini riescano a proseguire la loro offensiva nel Donbass sembrerebbero essere piuttosto scarse), il governo di Kiev dovrebbe aspettarsi un progressivo mutamento di rotta da parte di Washington, che, a quel punto potrebbe propendere in modo sempre più netto per l’avvio di un percorso negoziale.

La Cina dietro le quinte

In tale contesto entra, poi, in gioco anche la Cina; partner di Mosca, nonché principale avversario sistemico del sistema globale di alleanze a guida statunitense, che fino a questo momento (anche in ragione della terza rielezione di Xi Jinping alla guida del Partito Comunista; un “impegno interno” di non poco conto) sembrerebbe aver scelto di restare alla finestra, osservando, per lo più cautamente (e con pochissimi interventi di natura verbale), lo svolgersi degli eventi, rispetto ai quali sembrerebbe nutrire interessi di natura piuttosto controversa.

Il Presidente cinese, Xi Jinping

A tal proposito, va innanzitutto ricordato come, dal punto vista di Pechino, se gli USA sono il competitor per eccellenza, “reo” di ostacolare la propria espansione marittima, la Russia, di cui, tra la altre cose, i cinesi non avrebbero mai accettato fino in fondo il dominio sulla Siberia (giudicato da Pechino come l’ultimo grande residuo del colonialismo europeo) non è certo considerata un vero amico, ma piuttosto un rivale strategico da ridurre, possibilmente con le buone (e magari anche con qualche temporaneo contentino) ad una condizione di vassallaggio sempre più marcata.

Di conseguenza, il fatto che la leadership moscovita stia tenendo impegnati gli USA nel teatro europeo (distogliendoli, quindi, dallo scacchiere dell’Indopacifico), erodendo al contempo la sua credibilità militare e la sua solidità economica (cosa che, nei prossimi anni la obbligherà a vendere proprio alla Repubblica Popolare enormi quantitativi di gas e petrolio a basso costo), non può che rendere Pechino particolarmente felice.

D’altro canto, però, gli stessi cinesi (anch’essi partecipanti all'”assalto” della frastornata America post-fuga da Kabul con un notevole incremento delle loro incursioni aeree su Taiwan) hanno potuto toccare con mano il notevole irrigidimento avuto da Washington e dal suo sistema di alleanze in seguito all’invasione dell’Ucraina, che, nel prossimo futuro, potrebbe portare non solo ad ostacoli sempre più insidiosi per il progetto delle nuove vie della seta e ad ulteriori forme di ritorsione economica, ma anche ad un riarmo sempre più intenso da parte di molti alleati degli USA, non solo in Europa ma anche in Asia, dove la Cina ha di fronte a sé un Giappone sempre più orientato al riottenimento di un ruolo da potenza di primo piano.

Un caccia multiruolo J 16 dell’aeronautica cinese. Tali aeri sono stati largamente impiegati nel corso delle numerose incursioni su Taiwan condotte da Pechino nel corso dell’ultimo anno e mezzo

In ragione di ciò, sia in occasione dell’ultimo summit della Shanghai Cooperation Organization di Samarcanda, sia nel corso del recente G 20 di Jakarta, Xi avrebbe preferito mantenere un atteggiamento cautamente critico nei confronti di Mosca; una linea che potrebbe mirare, da un lato, a rassicurare Washington sul fatto che, almeno per il momento, pur essendo un rivale conclamato, la Cina non avrebbe la benché minima intenzione di rimettere in discussione il sistema di governance globale a guida statunitense, e, dall’altro, a contribuire all’isolamento della Russia prima di iniziare a “divorarla”.

Conclusioni

Quanto appena detto ci riporta, dunque, sui campi di battaglia dell’Ucraina, dove, a questo punto, l’Occidente sembrerebbe avere non solo la necessità di ribadire la propria credibilità, ma anche quella di evitare che l'”orso” si faccia definitivamente sbranare dal “drago”, che a quel punto si troverebbe davvero nella condizione di sovvertire l’attuale ordine internazionale.

Cosa potrebbe venir fuori da questa situazione, al momento, non è dato saperlo. Secondo alcuni, Vladimir Putin aveva inizialmente scommesso di riuscire a rafforzarsi in Europa e di ottenere, al contempo, una partnership con Washington allo scopo di bilanciare l’ascesa di Pechino.

Se le cose stessero davvero così, il primo obiettivo sarebbe stato decisamente mancato, ma, malgrado tutto, il Cremlino potrebbe ancora mirare ad una normalizzazione delle relazioni (e magari all’ottenimento di qualche piccolo vantaggio rispetto alla situazione iniziale) in virtù della seconda scommessa, basata, per l’appunto, sul fatto che, presto o tardi, gli USA e i loro alleati si troverebbero comunque a dover affiancare alle proprie convinzioni morali (da cui comunque derivano numerosi vantaggi sul piano internazionale) le loro “impellenze strategiche” di carattere più concreto, che potrebbero effettivamente spingerli ad esplorare la possibilità di avviare con Mosca un processo negoziale (che, peraltro, non partirebbe neppure da una posizione di debolezza, considerando l’entità dell’umiliazione ricevuta sul campo dai russi).

Negli ultimi tempi, tale dilemma avrebbe, effettivamente, tenuto banco anche in Occidente, dove un numero crescente di osservatori sembrerebbe ritenere altamente probabile che l’attuale Amministrazione statunitense possa presto rompere gli indugi e dedicarsi alla non facile ricerca di una soluzione di compromesso che sia in grado, da un lato, di non scontentare eccessivamente Kiev (che, vale la pena ricordarlo, combatte da mesi per la completa liberazione del suo territorio), e, dall’altro, di non compromettere del tutto una futura convergenza con la Federazione Russa in funzione anticinese (anche se, arrivati a questo punto, è lecito supporre che il maggiore ostacolo per il raggiungimento di quest’ultimo obiettivo potrebbe essere proprio la stessa permanenza al potere di Vladimir Putin e del suo entourage, con cui i rapporti sembrerebbero ormai del tutto compromessi).

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