Ucraina: non ci sono santi. Il Bene e il Male devono aspettare

Di Vincenzo Santo*

Kiev. Il mondo è passato senza soluzione di continuità dal Covid 19 all’Ucraina.

I canali televisivi e le radio, con un solo colpo di scorrevole, come sa chi ha studiato con il regolo calcolatore, hanno messo da parte vaccini, vax e novax e persino il green pass, per accogliere altri esperti.

Lo spettacolo deve continuare e ha purtroppo preso il gusto di voler persino educare.

E dopo questa guerra, la speranza dei media sarà forse nell’arrivo di una carestia, l’ultimo cavaliere dell’Apocalisse cha manca all’appello per completare un ciclo nel breve volgere di un paio d’anni.

Soldati ucraini

Gli altri li abbiamo già avuti, infatti. E due, quello con l’arco e quello con la spada, persino in un colpo solo, grazie a Putin.

E quanto piacciono le frecce sulle carte topografiche a un popolo che dell’essere soldato e delle cose militari non ha più la più pallida idea.

La meteorologia degli eventi impera, perché vogliamo sapere quando, dove e se Putin si fermerà, per poterci rasserenare e passare un’altra notte tranquilli.

Il Presidente russo Vladimir Putin

NON SI PUO’ VATICINARE IL FUTURO

Domani si vedrà. Se non vaticini il futuro non sei nessuno, ed ecco gli astrologi degli accadimenti che lanciano certezze, salvo fare marcia indietro il giorno successivo.

Del resto, ci si può azzeccare, succede il 50% delle volte. Tuttavia, le guerre con il loro andamento si studiano dopo.

Vaticinarne il futuro è peccato di presunzione, quella di conoscere nel dettaglio non solo ciò che gira nella mente di Putin, del suo circolo e in quella dei generali russi, ma anche della controparte.

L’unica, peraltro, che si sgola di più raccontandoci, ovviamente, ciò che conviene. Noi faremmo la medesima cosa.

Clausewitz parlava di fog e friction quali elementi di disturbo, inevitabili, per chiunque fosse padrone dei propri piani, una volta entrato in guerra e posto dinanzi alla situazione di dover applicare quei piani.

Carl von Clausewitz

Figurarsi per gli “altri”, coloro che di quei piani non hanno la più pallida idea.

Ma se siamo così bravi, mi chiedo, come mai non l’abbiamo fermato prima Putin?

Forse ci sono sfuggiti tutti gli accadimenti che ci hanno portato a questo risultato? Quindi, le cause, cioè i motivi che possono aver generato il fatto?

Non c’è dubbio. Ma se vogliamo ambiziosamente arrivare a duna veloce conclusione avvicinando in una trattativa le posizioni che oggi appaiono inconciliabili, occorre riprendere alla mano questo percorso.

Senza reticenze e con umiltà, perché fanno parte della politica, un processo che non cessa mai, proprio perché volto a individuare possibili soluzioni e compromessi su cui articolare il futuro.

Anche quello immediato. La politica, infatti, continua. In questo, il pur bravo ufficiale prussiano sbagliava.

Ma la politica di allora aveva una connotazione diversa e in contesti differenti, lo si può perdonare.

E sbaglia anche chi tra i nostri politici crede che la diplomazia, l’anima della politica internazionale si fermi allo scoppio del cannone. Hanno detto anche di questo. Imperdonabili.

Che cosa avviene invece? Accade che chi cerca di farlo, tentando di analizzare i motivi viene accusato di parteggiare per Putin.

Si ricomincia il tifo tra buonisti e cattivisti. “Allora tu lo stai giustificando!”, dicono con disprezzo e con modi accusatori.

Molti lo fanno per ignoranza, confondendo giustificazione con motivazione.

Oppure, per i più furbi, è solo una debole scusa per nascondere le responsabilità di tutti, a mio giudizio soprattutto qui in Occidente, per non aver fatto di tutto per impedire questa tragedia.

Oppure, infine, per gli incapaci, che pure in tanti abitano la nostra politica, per ingraziarsi “il debole” che si è di fatto lasciato solo con le proprie disgrazie. Ho detto debole, non incolpevole. In questa tragedia, di incolpevoli non ce ne sono.

Nei giorni scorsi ho letto di qualcuno che, chiamando in causa persino Anna Arendt e David Hume, ha bollato come banale, o qualcosa del genere, il meccanismo “causa-effetto”, il concetto di causalità, insomma.

Con lo scopo di derubricare a menzogna o sciocchezza, e quindi immeritevole di qualsiasi argomentazione, l’ipotesi che sia stato l’irragionevole allargamento della NATO ad aver infastidito l’orso russo.

Un azzardo filosofico che molto male si attaglia ai fatti del mondo, in quanto pone come presupposto che i ragionamenti, lo dice Hume, derivino dall’abitudine, e che “il credere” sia più il prodotto della parte sensitiva che non della parte cognitiva della natura umana.

Ma nei fatti del mondo è questa che entra in gioco e le cause hanno il loro peso.

Infine, credere, come mi pare pensasse la Arendt, che la storia sia piena di eventi la cui frequenza e accadimento hanno luogo solo perché creati e interrotti solo dall’iniziativa dell’uomo in quel momento, libero di agire, mi pare limitativo.

Esiste un passato. Certo, una causa non è detto che generi uno stesso evento, anche se tale “congiunzione o successione”, nelle parole di Hume, dovesse ripetersi una moltitudine di volte. Concordo.

Ma allora vale anche per la Conferenza di Monaco del 1938. Non la si può prendere, per gli stessi motivi per i quali si rigetta l’ipotesi dell’argomento della NATO, come causa di quanto ha deciso o deciderà ancora Putin, perché causa ante fattuale della tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

I protagonisti della Conferenza di Monaco (1938)

Farlo è una contraddizione, ma dimostrazione del solito tifo e dell’opera di convincimento strumentale di chi è il “male”.

Ogni “effetto” ha una causa, in natura e nelle azioni umane. Ma ciò non pregiudica la libertà dell’uomo nel fare delle scelte sulla base dei “motivi” che lo inducono a farle.

Ciò che sceglie produce un effetto e delle conseguenze, che a loro volta costituiscono possibili motivi per altre scelte.

Ora, se questa causalità, possa essere generata per deduzione del singolo, per via della sua esperienza, analogo discorso non lo si può fare per un sistema costituito di più persone in più ruoli, tra loro collegati e coordinati. Un governo o uno stato persino.

Parlando onestamente delle cause potremmo giungere a risolvere un problema sfuggendo dal medesimo paradigma secondo cui l’abbiamo creato.

Abbiamo trascurato che il mondo in due decenni è completamente cambiato anche in termini di proiezione di potenza, altrove ho scritto di “distribuzione di potenza”, e con presunzione ci siamo fatti soli interpreti dei “timori” degli altri, e di valutarli, e delle rispettive esigenze di sicurezza; soprattutto, in questa tragedia abbiamo operato colpevolmente per dissuasione spacciandola per deterrenza.

Honoré de Balzac, riporta che, secondo Napoleone, “comprendere gli interessi di tutti è di un governo ordinario; il prevederli è di un grande governo”.

Noi, come Occidente, che tanto andiamo fieri anche quando siamo noi a farle le invasioni, abbiamo di fatto in mano il governo del mondo. Su questo c’è poco da discutere.

Ma è ordinario o grande? Partiamo da una posizione di indubbia forza che può dare alla testa.

Ma è sull’interesse delle parti che si articola una discussione. Non sulle passioni innescate dalle immagini e dalle chiacchiere.

E invece non lo stiamo facendo, perdendoci dietro le carte topografiche, le direttrici di attacco, il carro russo dato alle fiamme, le parole di Zelens’kyj, i rifugiati, la pietà per i bambini, le concioni di Putin, le solite interviste banali alla prima massaia che capita, le riprese di chi fugge o dei razzi che arrivano, naturalmente solo quelli russi arrivano sui civili, e le bandiere gialloblu.

Mancano gli inginocchiamenti, per ora.

E, infine, la perenne richiesta dei media di parlare del “futuro”. Non è altro che spettacolo.

Ancora Napoleone, credo sempre attuale, diceva che “bisogna offrire al popolo delle feste rumorose, gli sciocchi amano il rumore e la massa è costituita da sciocchi”.

Parafrasando Freud, nella contesa non c’è verità.

Dopo questa guerra, l’Europa potrebbe essere diversa da come si è oggi. Che si vinca o che si perda.

Non possiamo dare per scontato nulla. C’è chi, dallo scorso agosto lo si fa, con l’uscita dall’Afghanistan, parla di uno “strategic compass”, un concetto strategico per l’Europa, e di un esercito europeo. Quello fatto, o non fatto, dagli americani in Afghanistan non c’è piaciuto e, pertanto, la faccio breve, dobbiamo iniziare a pensarci da soli alla nostra sicurezza.

I concetti spesso rimangono sulle pagine scritte, ma quella dell’esercito, pur definendola una bella idea, chissà se sarà anche buona, visto anche che non se ne delineano i dettagli, laddove solitamente si nasconde il diavolo.

Inoltre, se la Russia andasse in bancarotta, e se Putin crollasse, lasciando il posto a un governo democratico e liberale, un qualcosa che finalmente ci potesse piacere, avremmo ancora bisogno di questo Esercito?

Io ne ho qualche dubbio. E se invece la Russia ne uscisse “indenne o persino vittoriosa”?

Ecco, credo sarebbe gioco forza riaprire la pagina di una nuova contrapposizione e ricominceremmo daccapo con l’ombrello americano, con buona pace per l’idea di un Esercito europeo. La paura di essere abbandonati da Washington sarà passata.

Molti si divertono a disegnare vari scenari, ipotizzando chissà quali altre mire abbia Putin. Si parla solo di lui e dei suoi progetti “territoriali” su altre terre.

Io non lo escludo e sono convinto che se così fosse si troverebbe a confrontarsi con la NATO. Va bene, occorre fermarlo, ma è così pazzo come tutti dicono?

E se siamo convinti di questo, mi chiedo, ce ne accorgiamo solo ora? Cioè, è mai possibile che ci si rende conto solo oggi che lui ha un preciso disegno “imperiale”, una sua dottrina, con la specifica volontà per la Russia che torni a essere rispettata e temuta, e che persino lo abbia scritto di recente? Solo ora?

E dagli eventi del 2014 che cosa abbiamo tratto? Nessuno ha mai fatto attenzione alle parole che in varie circostanze ha pronunciato e, soprattutto, che Mosca stesse riprendendo vigore, anche militare, già dalla guerra in Georgia nel 2008?

Le nostre cancellerie occidentali che cosa hanno fatto? Le nostre Agenzie di intelligence che cosa andavano a guardare? Io credo che dormissero e con loro i vari governi, tranne uno. Capirete chi.

I BUONI OCCIDENTALI 

Quindi, passiamo dall’altra parte della barricata. Quella dei “buoni”.

Parliamo di noi occidentali. Ne traccio uno io di scenario. Velocissimo.

Partiamo con una domanda: una Russia piegata e con un Putin fuori gioco farebbe comodo a qualcuno? Giù Putin, magari fatto fuori dagli stessi suoi fedeli, potremmo avere un regime più amico, forse solo un po’ più accondiscendente, ma non so davvero fino a che punto liberale e democratico.

Fatto questo, arriveremmo finalmente a quella fine della storia raccontata da Francis Fukuyama nel suo “The End of History and the Last Man”? Non so, ma non è questo il punto, in realtà. Le sue conclusioni, a mio parere, si muovono in armonia con il pensiero di Samuel Huntington nell’altro scritto “The Clash of Civilizations”.

Pensieri praticamente contemporanei. La democrazia liberale è inevitabile, dato il crollo del comunismo, e tocca all’America accompagnarne questa inevitabilità, dice Fukuyama.

E occorre un approccio proattivo per difendere la “propria civiltà”, quella occidentale, rinforza Huntington. Interessante questo contrasto tra “proattività e difesa”, vero? Si può comprendere molto di come, dai primi anni Novanta, gli Stati Uniti si siano mossi nel mondo, e con loro anche noi.

Quindi, da una parte, accompagnare la democrazia, dall’altra difendersi proattivamente.

E per Huntington, chi è l’avversario più pericoloso tra le otto principali civiltà da lui individuate? Ve lo dico io, non l’Islam, come qualcuno penserebbe per via delle derive fondamentaliste, ma quello che ha nel confucianesimo la sua tradizione filosofica e religiosa, cioè la Cina.

Sorpresi? E, per farla breve, quanto più pericolosa sarebbe la Cina con una spalla robusta militarmente e prodiga, in termini di risorse energetiche e minerarie, nonché con grandi spazi di manovra (Heartland), economica e finanziaria, che consentirebbero tra l’altro un più agevole accesso anche all’Artico? Tanto di più. E sta accadendo.

Tanto più per il solo fatto che strategicamente la sua proiezione sui mari del Pacifico sarebbe ancora più dirompente.

Come chi si spingesse in avanti facendo leva con le gambe su un muro. Pertanto, sarebbe meglio dividere Mosca da Pechino. Cosa riuscita “al contrario”, lo si ricorderà, con Kissinger e Nixon, agli inizi degli anni ‘70.

E come sarebbe possibile farlo? Magari dissanguando la Russia con un carico di sanzioni tali da ipotizzare una sollevazione popolare tipo Kiev nel 2014.

E come si fa ad applicare queste sanzioni dolorose? Basterebbe indurre Mosca a compiere una mossa deplorevole sul piano internazionale, e in Europa, in un posto molto vicino al cuore della vecchia Europa.

La Georgia e il Kazakistan non arrivano a far vibrare le corde del terrore e dell’emozione agli europei, di solito ricalcitranti quando si tratta di fronteggiare con determinazione e cattiveria Mosca. E poi, soprattutto, non c’è più la Merkel.

L’ex cancelliere tedesco Angela Merkel

Opportunità e convenienza, i due principali ingredienti per tracciare e applicare una strategia.

È parte di una visione ancora più ampia. Si tratta della necessità di mantenere l’instabilità a livello regionale per rendersi indispensabili, cioè riaccendere il mito della Indispensable Nation.

In un mondo in cui i cambiamenti climatici nonché le fonti energetiche e minerarie possono determinare nuove e diverse mappature nelle “geografie” delle risorse, e delle conseguenti linee di approvvigionamento e di comunicazione, quindi una conflittualità che vedrebbe negli oceani il principale terreno di confronto e di proiezione, il Rimland, pur un vecchio riflesso geopolitico, mantiene ancora ed estende il suo ruolo strategico e fa sì che nella Cina si materializzi la maggiore preoccupazione americana.

È uno scenario, non un atto di accusa. È sempre ammirevole, ai miei occhi, chi bada agli interessi della propria nazione e ne costruisce il tracciato, anche a scapito degli interessi altrui. Non c’è spazio per l’amore o l’amicizia disinteressata. Noi non lo facciamo, ce ne vergogniamo.

Andiamo a rimorchio, annebbiati invece dalla febbre manichea del bene e del male, presumendo il diritto di impersonare, noi occidentali, il bene e di affibbiare all’altro il male. Veniamo quotidianamente pasturati con questo mangime buonista. Il pelo sullo stomaco ci disturba.

Tentando di interpretare il pensiero di Prezzolini nel suo “Dio è un rischio”, con la fede si rischia la volubilità e si può cadere facili vittime dell’ipocrisia. Alla ragione si obbedisce. E la ragione ci serve ora, non la passione innescata strumentalmente dallo spettacolo e dalla pietà cristiana. Ripeto, nella contesa non c’è verità.

Quindi, si guardi ai fatti con freddezza, soprattutto ripercorrendone le cause, l’unico modo per sperare di porre fine presto a questa tragedia e tracciare un futuro, nella convinzione che non si può avere tutto. Pretenderlo ci porterebbe su un’altra strada dove però occorrerà prepararsi al peggio.

Pertanto, lasciamo perdere il bene e il male. Nessuno è un santo in questi affari. Per tornare a rivestire il ruolo dei “buoni” c’è tempo, quello che ci impone la Storia. Siamo noi che la “causiamo”.

*Generale di Corpo d’Armata Esercito (ris)

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