Un nostro Consiglio di Sicurezza Nazionale: partiamo con il piede giusto

Di Vincenzo Santo*

Roma. Giorni fa mi è capitato di leggere un articolo sul sito “eastwest.eu” ( https://eastwest.eu/it/intelligence-italiana-riforma-national-security-council/) dal titolo “La riforma dell’intelligence italiana”. Viene specificato che l’idea che potrebbe vedere la luce sarebbe quella di riformarla in un National Security Council (NSC), sul modello di altri, non ultimo quello americano. Al suo vertice un consigliere. Ne ho tratto qualche motivo di preoccupazione. Ma non perché io non creda che ci sia tale esigenza.

L’ho scritto più volte sulle pagine di questa rivista.

Un riferimento storico può tornare utile.

Quello americano venne creato nel 1947 (più tardi, nel 1949, a seguito di una riorganizzazione, il NSC fu inserito all’interno dell’Executive Office del presidente) perché gli americani si erano convinti che il Dipartimento di Stato, cioè gli Esteri, non fosse più adeguato a seguire le politiche nei confronti dell’allora Unione Sovietica, date le crescenti tensioni, e perché l’esperienza della guerra e i momenti successivi alla sua fine, avevano fatto maturare la necessità di avere un’agenzia che guardasse a una “multiplicity of factors, military and diplomatic”. Tra l’altro, merita ricordarlo, c’era da ricostruire l’Europa e rivedere l’assetto internazionale.

Quanto il nostro MAECI sia diventato inadeguato io lo vedo da come ci si muove come Nazione nei vari scacchieri. Tanto per cominciare in quello del Mediterraneo, dove per esempio abbiamo scelto già da qualche tempo, non solo adesso che Erdogan spadroneggia in Tripolitania, di fargli da scendiletto. Del resto, pur mancando uno strumento come il citato NSC, se accettiamo persino che vi vengano nominati rappresentanti politici senza un profilo adeguato a un settore così delicato, cosa potremmo aspettarci?

Dell’articolo di eastwest, ciò che mi preoccupa è il passaggio seguente: “… sempre più tra Palazzo Chigi e Farnesina si ragiona su una sorta di foro interministeriale permanente nel quale il Presidente del Consiglio e gli altri membri del Governo responsabili della sicurezza nazionale possano pianificare gli indirizzi strategici della politica estera, di difesa e sicurezza con strategie a medio e lungo termine. Insomma, proprio quello che manca all’attuale architettura dell’intelligence italiana …”. Un lavoro da intelligence? Se così è, allora c’è davvero da preoccuparsi.

Spero si tratti di un’incomprensione dovuta probabilmente all’interpretazione del termine “sicurezza”. Nel quadro infatti della formulazione di strategie, l’intelligence è pur sempre una componente fondamentale ma non va confusa con la security. Questa va interpretata nell’accezione che implica più in generale il fronteggiare pericoli di varia natura, anche ambientali e geologici, il garantire la ininterrotta fornitura di beni essenziali per il benessere e la produttività di una nazione, nonché la capacità di potersi velocemente adeguare a cambiamenti inattesi che possano configurarsi in minacce ai nostri interessi. Basta seguire l’etimo della parola, se cura, cioè libero dalla preoccupazione per qualsiasi cosa. Quel security all’interno dell’acronimo NSC nulla ha a che fare con l’intelligence, o meglio, non è solo intelligence.

Una strategia nasce da un’analisi geopolitica che, studiando gli eventi e tentando di prevederne l’evoluzione e le dinamiche, quindi le possibili conseguenze, alla luce degli interessi della nazione, valutati costi e rischi, individua gli obiettivi strategici da conseguire, o il loro mantenimento, secondo una triade che veda la combinazione “intelligente” di mezzi, fini e modalità (means, ends, ways). La grande strategia, poi, sta proprio nel saper equilibrare i mezzi a disposizione, il famoso DIME (gli strumenti di potere di una nazione: Diplomatic, Informational, Military, ed Economic), disponibili al momento o da creare secondo una oculata programmazione finanziaria e industriale, con gli obiettivi stessi. Non di certo un lavoro di intelligence!

Un ulteriore motivo di preoccupazione mi deriva dal seguente passaggio di Adolfo Urso(1), il promotore a quanto pare dell’idea, laddove afferma che “… la legge attuale prevede che il Presidente del Consiglio possa delegare a un sottosegretario o a un Ministro senza portafoglio i compiti di coordinamento del comparto intelligence ma è un errore, serve un Ministro ad hoc per la sicurezza così come nel CISR (il Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica), dovrebbero sedere anche i Ministri delle Infrastrutture e della Ricerca per le competenze sugli aspetti economici e le fonti di energia … la strada maestra resta quella del Consiglio di Sicurezza Nazionale che garantirebbe un livello più elevato di coordinamento reso più urgente dalla natura multidimensionale e dall’elevata volatilità delle minacce come guerra batteriologica, sicurezza cibernetica e intelligence economica …”.

Ecco là, l’intelligence economica. Non ho alcun dubbio che la globalizzazione in effetti detti l’agenda delle cose del mondo. Uno stato come il nostro, tra le prime potenze industriali del pianeta, non può tenersi fuori dalla competizione che tecnologia e trasformazioni tanto accelerate impongono; non può più estraniarsi dalla tutela dell’apparato produttivo nazionale in tutte le sue fasi e, pertanto, pur aderendo alle regole del mercato, sempre più inevitabilmente pilotato dalla finanza, deve indirizzare in tal senso il lavoro di ricerca e di raccolta di informazioni da parte dell’intelligence nazionale. Come fanno altri a favore dei propri campioni. Pertanto, non serve creare un altro pomposo ambito disciplinare né tantomeno organismi ad hoc. A pelle giudico questo dell’intelligence economica uno specchio per allodole, utile a far fare cassetta da parte di taluni centri del pensiero. Sempre che sia vero che l’intelligence sia lo strumento di cui lo stato si serve per raccogliere, custodire e diffondere ai soggetti interessati, siano essi pubblici o privati, le informazioni rilevanti per la tutela della sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e delle imprese, come scritto nel sito del “Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica”, allora ci si impegni di più e meglio in questo settore, invece di puntare lo sguardo presuntuosamente verso altri orizzonti. La storia ci aiuta in questo, e la Repubblica di Venezia è un esempio di come l’interesse dello stato fosse legato all’interesse commerciale.

Consiglio di Sicurezza Nazionale

Torniamo alle parole di Adolfo Urso.

Confesso che mi sfugge completamente se si voglia aprire un nuovo posto da ministro, oppure se si voglia creare un nuovo comitato interministeriale o trasformare il suddetto già esistente CISR dandogli un altro nome, appunto Consiglio per la Sicurezza Nazionale (CSN), perdendo di vista, alla luce del significato di “security”, che cosa deve fare e che cosa può fare. Non solo, ma trascurando un particolare di non poco conto, il “con chi”. Cioè lo staff che dovrebbe rappresentare il fulcro di ogni processo di decisione in termini di politica per la sicurezza.

Ora, che il CSIR rimanga come tale o che venga a divenire un’altra cosa, ci può stare; che in esso trovi posto Tizio oppure Sempronio o entrambi, come invitati o per statuto, ci sta; che a determinati incontri venga invitata qualche figura del mondo imprenditoriale e produttivo va anche bene. Ci si sieda anche Babbo Natale. Tuttavia, mi chiedo, non è che l’idea preveda di cambiare solo nome allo CSIR e impiegare i nostri “servizi” quale staff già disponibile, a chilometro zero, per tale funzione?

Adolfo Urso

Riprendendo quanto in sintesi ho scritto sulla formulazione di una strategia, credo emerga chiaro che non si tratti di un compito da affidare al comparto intelligence che è settoriale. Ci ricordiamo della “multiplicity of factors” degli americani? Inoltre, ipotizzare la sua trasformazione snaturandone il DNA, che consiste proprio nel contribuire sì alla formulazione di strategie “di sicurezza” con i dati informativi disponibili, ma non nel formularle esso stesso, rischia di creare più danni che altro. Azzereremmo l’intelligence! Pertanto, auspico una strada diversa. E spero che la pubblicazione dello studio “bipartisan”, che leggo pare debba avvenire a breve, possa chiarire questo passaggio.

Ma chi sono e cosa dovrebbero fare queste due istituzioni, il Consigliere e il suo CSN, e soprattutto, a favore di chi? Vediamo di delinearne brevemente i profili. Intanto, di seguito, per comodità, userò il termine “qualcuno”, poi vedremo di chiarificare a quale figura istituzionale potrebbe o dovrebbe corrispondere.

Tanto per iniziare, il consigliere (in inglese è il National Security Advisor – NDA) è l’assistente principale di un “qualcuno” per gli affari attinenti alla sicurezza nazionale (sicurezza, lo ripeto alla noia, intesa come ho chiarito sopra). Egli lavora nell’ambito del “consiglio” ed è “assistito” da uno staff che produce ricerche, presentazioni e rapporti di intelligence, insomma un organismo che, lo ripeto, rappresenta il fulcro del processo decisionale in termini di sicurezza nazionale. Da lì parte anche la redazione della Strategia di Sicurezza Nazionale (SSN) – la National Security Strategy (NSS) anglosassone – da cui discendono tutte le altre.

Sotto l’aspetto pratico, l’ufficio del Consigliere, deve essere contiguo a quello di quel “qualcuno” e nei momenti di crisi deve operare all’interno di una ristretta unità di crisi di alto livello, aggiornando direttamente sugli eventi quel “qualcuno” stesso. Egli deve sfuggire a qualsiasi logica politica e partitica ed è nominato direttamente da quel “qualcuno”, non avendo la necessità di essere confermato da nessuno altro organismo istituzionale, quale requisito fondamentale per garantirne l’autonomia.

Di fatto, egli presiede le riunioni di coordinamento dei capi di dicastero, allo scopo di coordinare e formulare le linee di politica di sicurezza da proporre successivamente a quel “qualcuno”, in sede di CSN, prima che diventino esecutive.

Lo staff, sia chiaro, sfugge a ogni logica gerarchica che lo leghi a qualche altro dipartimento, proprio nel rispetto del suo ruolo “indipendente”, ma deve poter diramare linee guida e direttive ai dicasteri lungo canali formali. Tanto lo staff quanto chi lo dirige, cioè il Consigliere, hanno un doppio vantaggio, quello di poter accedere direttamente a quel “qualcuno” e di fissare l’agenda in merito agli affari di sicurezza nazionale.

Insomma, il Consigliere funge da primo artefice del processo interministeriale in materia di politica di sicurezza e deve essere in possesso di un cospicuo bagaglio culturale (economia, difesa, esteri …) che gli consenta di muoversi con disinvoltura nel “multiplicity of factors”. Lo ripeto ancora. Parliamoci chiaro, è una sorta persino di alter ego di quel “qualcuno” per la sicurezza nazionale.

 L’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama

Due parole ancora per lo staff. Abbiamo già detto che rappresenta il fulcro di ogni processo decisionale in materia di sicurezza nazionale. Si tratta di esperti di settore provenienti da altri ambiti dell’amministrazione ma anche dal settore privato. Non di certo dai ranghi dei partiti! Settori che, pur variando nel tempo, a seconda delle dinamiche e degli obiettivi, seguono una logica regionale (Medio Oriente, Artico, nord Africa ….) e una funzionale (pianificazione strategica, difesa, terrorismo, commercio internazionale, risorse energetiche ….). Il sapersi districarsi, ancora una volta, in quel “multiplicity of factors” della geopolitica è fondamentale.

Tanto per dare un riferimento numerico, l’ultimo Bush aveva quasi 300 persone, mentre Obama più di 400. Per questa estate il numero dovrebbe scendere, su ordine di Trump, a poco più di un centinaio. Compito arduo per l’attuale NSA Robert O’Brien. Ma il numero, entro certi limiti, credo abbia un’importanza relativa, tutto sommato, purché sia chiaro quello che lo staff deve fare e con quali prerogative.

Sarà chiaro qui da noi? Mah!

Siamo vecchi di queste cose, e sappiamo perfettamente quanto il lavoro di coordinamento (una terribile parola che illude talvolta chi ritiene di dettarne i tempi da un lato, e inganna invece chi ritiene di poterci giocherellare dall’altro) possa essere lento, a volte fuorviante e spesso vittima di ostruzionismo e della ricerca ossessiva del consenso. I vari esponenti ministeriali cercheranno infatti di trarre il massimo vantaggio per il proprio comparto a spese della soluzione migliore. Fermo restando che i compromessi fanno parte del gioco, ma devono essere giocati a carte scoperte, sapendo che non possono esistere veti. Una cosa, ancora, deve essere chiara: coloro che presiedono i vari comitati di coordinamento devono essere sempre appartenenti allo staff del Consiglio di Sicurezza. Regola d’oro!

Ecco, ho solamente tracciato alcuni “ingredienti” che aiutino a comprendere di cosa si stia parlando e delle competenze, funzioni, modalità e, importantissima cosa, indipendenza che dovrebbero essergli ascritte a questi due elementi.

A conferma di quanto da me anticipato in apertura: leviamoci dalla testa di ricavare questo staff solo dall’intelligence, ovvero attribuire all’intelligence un doppio cappello. Se questa è l’idea. Ma spero di aver interpretato male.

Ce la faremo? Sì, se si terrà conto di queste indicazioni generali. Se invece si vuole soltanto mettere in vita un’ennesima agenzia interministeriale, magari guidata da un politico per garantirgli una poltrona, e che essa debba dipendere esclusivamente, nella pratica, dalla buona volontà degli altri, si lasci perdere. Si lasci perdere se non si vuol capire che queste funzioni prescindono da legacci politici e partitici. Si lasci perdere se non si ha chiaro in testa a chi debbano fare capo. Cioè quel “qualcuno”, l’ultimo tassello.

Chi potrebbe essere?

L’Italia non è una repubblica presidenziale né tantomeno un premierato. Il modello che abbiamo fin qui commentato funziona a una condizione, che ci sia uno che abbia la responsabilità di decidere. Per arrivare a quello, per noi, ci vorrebbe una riforma costituzionale.

La nostra Costituzione fissa un quadro di competenze tanto per il Presidente della Repubblica quanto per il nostro Presidente del Consiglio, che non è un “premier”, cioè un primo ministro. La Costituzione, infatti, non utilizza mai questa denominazione. E, del resto, non ha la forza di un “premier”, pur con le varianti introdotte dalla legge n. 400/1988, poi modificata con Decreto Legislativo n. 303/1999. Questi, come definito all’articolo 95, dirige la politica generale (che significa?) del governo e ne è responsabile, ma lo è unitamente agli altri ministri in forma collegiale per gli atti del Consiglio dei Ministri. Quello che secondo me è ben più importante è quanto riportato all’articolo 87 per il Presidente della Repubblica, laddove specifica che egli “… ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio Supremo di Difesa (CSD – nda) costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere …”.

Il CSD fu istituito con una legge, la n. 624 del luglio 1950, che non brillò per completezza e chiarezza allo scopo di inquadrarne il ruolo costituzionale ma che, al suo articolo 1 sancisce che lo stesso “… esamina i problemi generali politici e tecnici attinenti la difesa nazionale e determina i criteri e fissa le direttive per”. l’organizzazione e il coordinamento delle attività che comunque la riguardano

Per quanto precede, e riprendendo quanto scritto da Riccardo Bellardi(2), il combinato-disposto delle prerogative di cui sopra delinea come il Presidente della Repubblica, seppur con una posizione e poteri peculiari, non possa che essere un attore politico attivo, come gli altri organi costituzionali, con propri orientamenti e indirizzi. Una figura ben diversa da quella delineata da talune visioni che lo vorrebbero invece figura vaga e quasi mitologica, di “solo” garante e tutore imparziale, pur attivo, del corretto funzionamento della Costituzione e dei suoi valori fondamentali.

La soluzione “di compromesso”, quindi, starebbe nella trasformazione del Consiglio Supremo di Difesa in Consiglio per la Sicurezza Nazionale, enfatizzandone il ruolo di “collegio direttivo”.

Lasciamo stare il CSIR dove sta!

Tutto sommato, cambiarne il nome nella Costituzione non dovrebbe essere impresa titanica, come invece lo sarebbe cambiare il regime repubblicano in presidenziale o procedere con il premierato. Le funzioni, invece, possono essere facilmente cambiate per legge, fissandone quella di direzione in materia non solo di difesa ma anche di sicurezza nazionale (sempre come riportato all’articolo 1 della legge 624 già citata, nonché nel Codice dell’Ordinamento Militare).

Al contrario, una collocazione differente, con quel “qualcuno” nella figura del PDC, tanto il CSN quanto il Consigliere verrebbero a trovarsi impegolati inevitabilmente in beghe partitiche e politiche, soprattutto laddove i governi si reggano su accordi dalle fragili fondamenta, come spesso ci capita, prigionieri di devianze populiste poco affidabili e di “simpatie internazionali” fuorvianti per la definizione di qualsiasi strategia. Come detto, si tradurrebbe in un’ennesima agenzia da lottizzare.

In conclusione, era comunque ora che ci si iniziasse a pensare sul serio. Occorre tuttavia fare molta attenzione a non innamorarsi di risposte e soluzioni semplici che non tengano conto e non siano rispettose delle prerogative di taluni organismi indispensabili nel campo dell’intelligence e che non garantiscano, di contro, a ciò che si vuole creare quelle necessarie attribuzioni per lo sviluppo di analisi geopolitiche. Analisi che sfuggano alla logica giornalistica del commento cronistico, ma che finalizzino strategie da implementare, immuni da simpatie o antipatie politiche per quello o per quell’altro leader internazionale, ma che tengano ben fermo il timone verso il conseguimento di obiettivi a salvaguardia di un interesse nazionale, per esempio la prosperità del paese, per dirne uno.

Da qui, un esempio solo all’apparenza banale.

In quel febbraio del 2018, nelle acque cipriote, se avessimo avuto un Consigliere per la Sicurezza Nazionale, la SAIPEM 12000 l’avremmo fatta scortare da un paio di fregate, conoscendo perfettamente le intemperanze territoriali turche. Non è successo. Piccola cosa abbiamo pensato in quei giorni, “cosa volete che sia”, qualcuno avrà anche detto. E, invece, se avessimo mostrato i muscoli allora, oggi non piangeremmo, in merito a Libia e al Mediterraneo, sulla nostra estromissione e sul nostro ruolo da scendiletto per i turchi. Ne sono certo.

Insomma, ci è mancato quel “multiplicity of factors”.

1() Vicepresidente del Copasir (la commissione di vigilanza sui servizi) e guida della Fondazione Fare Futuro.
2() Il Consiglio supremo di difesa. Storia, organizzazione, attività – il Mulino.

 

*Generale di Corpo d’Armata (Ris) dell’Esercito

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Autore