Unione Europea, Generale Camporini: “Bene il Fondo per la Difesa comune, ma troppi entusiasmi per la PESCO”

Di Lodovica Palazzoli

Roma. Non era esattamente così che era stata pensata la cooperazione strutturata permanente, dice Vincenzo Camporini, ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, che a Reportdifesa spiega: “Per la PESCO ((Permanent Structured Cooperation) sono scettico; quando fu immaginata, all’epoca del Presidente francese Giscard d’Estaing, l’idea degli estensori era chiara: un gruppo di Paesi con la volontà e le capacità necessarie, avrebbero deciso di mettere insieme le risorse nel settore della difesa per avviare una cooperazione integrata. Il progetto prevedeva un’apertura ad altri Paesi, purché rispettassero i parametri di disponibilità ed efficienza previsti dal Protocollo 10”.

Il Generale Vincenzo Camporini

Insomma l’idea di fondo era quella di avere un motore snello e potente per la cooperazione strutturata, che permettesse anche una certa agilità nelle decisioni. Quest’ultimo punto sarebbe ora quello più critico. “La PESCO è decisa su proposta di alcuni Stati membri con un voto a maggioranza nell’ambito del Consiglio Europeo ma all’interno della cooperazione occorre l’unanimità, che a 25 componenti, come si prospetta adesso, significa che non si è fatto un passo avanti, ma semmai indietro. Perciò ritengo esagerati gli entusiasmi sulla PESCO”.

L’iniziativa che potrebbe rivelarsi davvero decisiva, a detta dell’ex numero uno della Difesa italiana, è semmai l’istituzione del Fondo comune per il finanziamento dei progetti europei.

Si parla tanto di Difesa europea ma quali sono i risultati che si potranno avere?

“Le istituzioni dell’Unione non avevano preso in considerazione fino a questo momento l’aspetto del finanziamento dei programmi di sviluppo militare – aggiunge il Generale Camporini  -. Il Fondo ha rappresentato un salto di qualità, perché le cifre non sono indifferenti, seppur non sufficienti. Stiamo parlando di circa 1 miliardo di euro l’anno destinato a cofinanziare progetti comuni per un 20% del costo totale. Questo significa che il miliardo stanziato dall’Europa dovrebbe muovere circa 5 miliardi l’anno di investimenti, se i Paesi saranno disposti a mettere il restante 80%».

Uno degli ostacoli storici alla crescita dell’integrazione europea è stata la frammentazione del mercato della difesa. Ogni Paese ha messo in atto una politica di difesa delle industrie nazionali che ha portato al finanziamento di un numero eccessivo di programmi. Tanto per fare un esempio, in Europa si contano 15 modelli diversi di blindati, mentre negli Stati Uniti sono soltanto 2.

“Le economie di scala attuate dall’America sono impossibili in Europa e a risentirne è l’efficacia della spesa per gli equipaggiamenti militari – spiega Camporini -. In campo aeronautico l’Europa ha sviluppato 3 velivoli da combattimento di quarta generazione; gli Stati Uniti solo uno e ne hanno prodotto qualche migliaio di esemplari. Il nostro Eurofighter, invece, arriverà probabilmente al massimo a 600. Adesso però abbiamo il Fondo che induce le industrie europee a collaborare. Se il meccanismo avrà successo gradualmente invece di farsi concorrenza decideranno di specializzarsi nei settori in cui vantano eccellenze uniche. Il tutto dovrebbe creare un sistema industriale molto più efficiente e efficace di quello attuale”.

Qualche progetto comune già esiste: è il caso di un velivolo senza pilota da sorveglianza impiegabile a media e alta quota, ma non è la sola ipotesi al vaglio. Le esigenze europee di controllo del mare hanno portato allo studio di un velivolo da pattugliamento marittimo. «In Italia ha concluso da poco il servizio l’Atlantic, sostituito dagli ATR 72, che hanno capacità operative non del tutto adeguate alle esigenze. Lo stesso problema esiste anche in altri Paesi, quindi c’è spazio per lanciare il progetto di un pattugliatore comune, da costruire in un numero appropriato di esemplari, garantendo anche una standardizzazione sia degli equipaggiamenti che degli addestramenti”

Un ATR

Proprio nel settore addestrativo, l’Italia vanta un’eccellenza nella formazione dei piloti militari, che operano nella base di Lecce sul sistema T-346.

Grande lo sviluppo industriale del T346

«Lì si possono aprire buone prospettive. Oggi nel mondo, nel settore dell’addestramento al volo, credo nulla eguagli il programma messo a punto dalla Leonardo. Al di là delle capacità tecniche dell’aeroplano, il sistema addestrativo è estremamente integrato e in grado di massimizzare il risultato di ogni singola ora di volo. Ora si tratterà di vedere se ci sarà la possibilità di negoziare un accordo nell’ambito PESCO tra Paesi europei. Lecce è diventata una base internazionale, manuali e attività sono svolti in inglese e ci sono allievi piloti che arrivano da ogni parte del mondo».

Anche se sembrano legati a doppio filo, la cooperazione strutturata permanente e il Fondo per la difesa non sono dipendenti l’una dall’altro. «È possibile ottenere finanziamenti dall’European Defence Fund se due Paesi si mettono d’accordo per un programma comune, quindi non occorre quella platea amplissima costituita dalla PESCO. Il legame tra i due esiste perché essa sta identificando esigenze operative comuni che potranno essere soddisfatte tramite accordi intergovernativi».

Per il momento la cooperazione strutturata permanente sembra comunque non toccare obiettivi prettamente operativi.

“Ci saranno attività di collaborazione, ma saranno limitate agli aspetti di addestramento, formazione, e ad alcuni aspetti logistici, con la limitazione dovuta alla mancata standardizzazione tra gli armamenti nazionali – sostiene ancora il Generale Camporini -. Quindi la PESCO qualcosa farà, ma non a livello operativo. Con la missione in Niger è stata persa un’occasione: resta una missione frutto più di un accordo tra Paesi, che di un’iniziativa attuata sotto la totale egida dell’UE. Un discorso che è valso anche per l’operazione UNIFIL in Libano: fu voluta dall’Italia che convinse i francesi ad unirsi e all’inizio i Paesi europei fornirono la maggior parte delle capacità operative, ma restò un’iniziativa dei singoli Paesi europei, non dell’Europa in sé e per sé”.

Delicati restano poi i rapporti con la NATO. Qualcuno, all’inizio, ipotizzò una sorta di divisione dei compiti fra le organizzazioni, in base alle differenti vocazioni: finanziario-diplomatiche quelle dell’Europa, prettamente militari quelle targate Nato. La situazione però non è così semplice.

“La PESCO deve fare i conti con alcune problematiche – aggiunge l’ex Capo di SMD -, come la procedura che porta all’assunzione delle decisioni e l’ambito concettuale con cui si confronta, per ora limitato alla parte inerente l’addestramento, la formazione e la logistica (poca). Anche nell’Alleanza atlantica vige la regola del consenso, ma c’è una grande differenza fra l’unanimità europea e il consenso della NATO. C’è la posizione condizionante degli Stati Uniti, però tante decisioni delicate sono state prese dall’Alleanza anche con distinguo sostanziali da parte di alcuni membri, come accadde per il Kosovo. La Grecia per motivi politici non poteva dare il consenso alla missione e così si ricorse al meccanismo dell’astensione costruttiva: Atene si dissociò da questa decisione, ma senza porre un veto, in modo che l’operazione potesse andare avanti. In Europa questa forma mentis deve ancora decollare. Lì la decisione su ogni tema è una battaglia, in cui ciascuno sembra voler far prevalere la propria posizione nazionale; nella Nato le cose sono un po’ diverse. Ad esempio ora, per quanto riguarda la riforma della struttura di comando dell’Alleanza, c’è una posizione fortemente critica da parte della Turchia, per motivi squisitamente politici. Ciò nonostante il lavoro va avanti e porterà a una decisione che dovrebbe essere presa dai ministri ai primi di febbraio. In Europa si compete ancora per essere i primi della classe; nella Nato il primo della classe c’è già”.

Il quartier generale della NATO a Bruxelles.

Eppure molti dei Paesi membri dell’Unione Europea sono anche parte della NATO, perciò sorprende l’atteggiamento altalenante con cui vengono prese le iniziative dagli stessi governi che siedono ora all’uno ora all’altro tavolo.

“Non è inconsueta la situazione in cui alcuni Paesi prendono una posizione in seno all’Alleanza atlantica – sostiene Camporini – che non è compatibile con quella presa in ambito dell’Unione Europea. È già capitato che all’interno dei singoli Paesi due uffici che si occupano della stessa materia per due organizzazioni diverse, non si parlino tra di loro”.

A proposito di posizioni diverse, un’attenzione particolare meritano quelle assunte dai governi al confine Est dell’UE.

“I Paesi di Visegràd (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia ndr) hanno posizioni delicate sia per la politica interna che per il loro atteggiamento nei confronti dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea – evidenzia il Generale -. Il problema c’è, è noto, e soluzioni al momento non ce ne sono. Ogni Stato può decidere la propria politica interna e questo può riflettersi su quella estera. Quando Haider ebbe successo, ci fu una posizione formale dell’UE nei confronti dell’Austria. È un film che stiamo rivedendo adesso nei confronti della Polonia. Sono azioni che possono avere effetti contraddittori fino a esaltare la volontà del singolo Paese di adottare una linea autonoma, anche in contrasto con il resto dell’Unione”.

Della Crimea, invece, non si parla più. “L’Europa applica ancora le sanzioni – analizza Camporini -, la cui efficacia è dubbia, perché storicamente le sanzioni non sono mai state elemento capace di cambiare le regole del gioco. Pensare che la Russia rinunci a quel lembo di territorio che considera proprio, credo sia abbastanza ottimistico. Il rapporto con la Russia però è fondamentale, non si stanca di ripeterlo neanche Jens Stoltenberg, Segretario Generale della NATO, che incita a proseguire il dialogo. Il punto è che da un lato abbiamo un personaggio come Putin, che è saldamente al potere. Dall’altra abbiamo una leadership europea con una serie di punti di domanda, a partire dalla Brexit, dalla formazione del del governo in Germania e a breve anche in Italia. Per parlare bisogna essere in due e in Europa voci unanimi fatico a vederle”.

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