USA: il ritorno di Donald Trump nel contesto dell’adattamento della strategia di Washington al mondo multipolare

Di Fabrizio Scarinci

WASHINGTON. Come era ovvio che fosse, nel corso delle ultime settimane il mondo intero ha puntato i propri riflettori sulla superpotenza a stelle e strisce, dove, con oltre il 50 % del voto popolare e ben 312 grandi elettori Donald Trump ha di nuovo conquistato la Presidenza.

La scelta del popolo americano di riportare il tycoon alla Casa Bianca avviene in quello che, senza ombra di dubbio, si configura come il periodo storico più complesso e pericoloso che il mondo abbia mai vissuto dai tempi della Seconda guerra mondiale.

Per tale ragione, sono in molti coloro che si interrogano su quali cambiamenti la nuova Amministrazione potrebbe apportare con riferimento alla strategia degli USA riguardo al mondo esterno. Non da ultimo considerando il “duro” stile comunicativo  dell’ex e, allo stesso tempo, futuro Presidente, nonché la sua intenzione di portare avanti un progetto politico imperniato sul famoso concetto di ’”America first”.

L’ex e, allo stesso tempo, neo eletto Presidente degli Stati Uniti Donald Trump

Il fallimento dell’approccio statunitense al mondo del dopo-Guerra fredda

Per “snocciolare” meglio tale argomento risulta, però, doveroso fare una brevissima premessa allo scopo di chiarire, da un lato, come il Presidente degli Stati Uniti non sia affatto dotato di poteri assoluti (cosa da cui si può facilmente evincere che non abbia neppure la capacità di prendere ogni tipo di decisione in maniera completamente autonoma) e, dall’altro, come, nella maggior parte dei casi, le strategie dei vari Paesi tendano a mutare non tanto sulla base dei cambi di governo, quanto piuttosto in ragione di elementi e/o tendenze di natura molto più profonda.

In tal senso, quindi, tutte le differenze di approccio in campo internazionale che caratterizzano il pensiero politico “trumpiano” dovrebbero concettualmente essere inserite nell’ambito di un più grande cambiamento di tipo strutturale in atto ormai da diverso tempo.

Un cambiamento inevitabilmente collegato alla progressiva transizione del Sistema Internazionale dall’assetto “unipolare” nato con il crollo del blocco sovietico a quello molto più “frammentato” che caratterizza i nostri giorni.

Nell’immediato post-Guerra fredda, infatti, l’egemone superpotenza a stelle e strisce avrebbe gradualmente posto in essere un’ambiziosa strategia mirante, da un lato, a rafforzare il proprio primato attraverso la promozione dei valori liberal-democratici (che, al netto dell’inevitabile cooperazione di Washington con vari regimi di stampo dittatoriale e/o illiberale, hanno sempre rappresentato un elemento cardine della “narrativa” statunitense) e, dall’altro, a far sì che i suoi maggiori competitor traessero quanti più benefici economici possibili dal sistema globale da essa guidato (così da incentivarli a supportarlo piuttosto che a sfidarlo).

I risultati di tale approccio sarebbero stati, però, molto diversi da quelli inizialmente auspicati e, col tempo, avrebbero addirittura finito per favorire il declino di quell’assetto internazionale che, inizialmente, si intendeva consolidare.

In Europa, ad esempio, l’espansione verso oriente del blocco euroatlantico, volta principalmente a rafforzare le nascenti democrazie dei Paesi dell’Est e ad evitare il ripetersi di quei tragici fenomeni di instabilità di cui, negli anni 90, i Balcani si sarebbero resi protagonisti, non avrebbe, purtroppo, riportato stabilità nell’ambito di un continente ormai “orfano” di quel terrificante ma comunque solido equilibrio venuto a mancare con il crollo del muro di Berlino.

Col tempo, infatti, tra l’Alleanza occidentale e la sempre più “revanchista” Federazione Russa (erede assai ridimensionata del defunto impero sovietico ma ancora in possesso di un enorme arsenale nucleare) si sarebbe progressivamente accesa un’intensa dinamica competitiva, in cui, alla graduale acquisizione di nuovi membri ad est da parte del blocco euroatlantico, sarebbe corrisposto un atteggiamento sempre più ostile da parte di Mosca, che, dal canto suo, avrebbe cercato di minare la solidità del rapporto tra gli USA e alcuni dei loro principali alleati europei facendo leva, tra le altre cose, sulla possibilità di fornire a questi ultimi (Germania e Italia su tutti) ingenti quantitativi di gas e materie prime a basso costo.

Il Presidente russo Vladimir Putin, salito al potere nel 1999 e rimasto da allora alla guida del Paese con una breve parentesi da Premier tra il 2008 e il 2012

La crisi tra Russia e Occidente avrebbe, poi, coinvolto anche il progetto di scudo antimissile della NATO, che, malgrado il ridotto numero di intercettori GBI previsti nel progetto, nonché il carattere pionieristico dello stesso, sarebbe stato visto dal Cremlino come fattore destabilizzante per la propria deterrenza strategica.

A partire dalla metà degli anni 2000, gli effetti del progressivo deteriorarsi dei rapporti tra Russia e Occidente si sarebbero visti in diverse aree dello spazio ex sovietico e non solo.

Il massimo della tensione sarebbe, però, stato raggiunto in Ucraina, Paese diviso tra tentazioni atlantiste da un lato e russofile dall’altro su cui, sin dal 1992, vuoi per la sua vicinanza con il cuore stesso della Federazione Russa, vuoi per via di quel filone culturale e storiografico secondo cui l’antica Rus’ di Kiev sarebbe il primo vero antenato dell’attuale Stato russo, Mosca avrebbe sempre preteso di esercitare un certo grado di controllo.

Nel corso del già menzionato periodo egemonico, Washington sarebbe, poi, intervenuta, a più riprese, anche nel complesso teatro mediorientale, dove, in seguito agli attentati dell’11 settembre, il proposito legato alla promozione dei valori liberal-democratici avrebbe acquisito, forse come mai prima di allora, una connotazione di tipo squisitamente ideologico.

Il bilancio finale sarebbe stato, ovviamente, disastroso.

Infatti, oltre che rivelarsi del tutto (o quasi del tutto) fallimentari, i dispendiosissimi sforzi profusi al fine di “esportare” e consolidare sistemi di natura democratica nell’ambito di Stati non nazionali in cui i valori liberali non avevano, di fatto, mai attecchito (si parla, in particolare, di Afghanistan e Iraq), avrebbero, di fatto, provocato una situazione di completa disgregazione sociale, che, in molti casi, avrebbe causato l’entrata in scena di attori anche peggiori dei regimi che si era deciso di deporre.

In Afghanistan, ad esempio, dopo circa vent’anni di presenza nel Paese, le forze occidentali avrebbero finito per lasciare nuovamente il campo ai Talebani.

Forze USA durante il ritiro dall’Afghanistan (U.S. Air Force photo by Staff Sgt. Kylee Gardner)

In Iraq, invece, l’operazione “Iraqi Freedom” e la conseguente decisione statunitense di “azzerare” l’intero apparato amministrativo e di sicurezza del vecchio regime di Saddam Hussein avrebbero, di fatto, spianato la strada sia a diversi gruppi di miliziani e terroristi, sia ad attori esterni quali Turchia e Iran.

Decisamente controversi sarebbero, poi, stati anche gli effetti di quel processo legato all’aumento esponenziale degli scambi e degli investimenti internazionali noto ai più con il termine di globalizzazione; ossia il principale “strumento” che gli USA avrebbero utilizzato per indurre il mondo, e, in particolar modo, i loro principali competitor a privilegiare una condotta di tipo cooperativo piuttosto che competitivo.

Come noto, negli anni 90 il principale “target” di tale strategia era rappresentato dalla Repubblica Popolare Cinese; Paese di oltre un miliardo di abitanti retto da un regime ancora ufficialmente comunista che durante la Guerra fredda, allo scopo di “coprirsi le spalle” contro i suoi ex alleati sovietici, aveva scelto avvicinarsi agli USA (con cui permanevano comunque diverse ragioni d’attrito, si pensi a Taiwan) avviando, tra la altre cose, anche un processo volto all’introduzione di alcuni elementi di capitalismo nell’ambito del proprio sistema economico.

Da Washington, come noto, Pechino avrebbe ottenuto diversi accordi commerciali particolarmente favorevoli, che, insieme al suo ingresso nel WTO, avvenuto nel 2001, avrebbero portato il suo sistema economico a crescere fino a diventare, nell’arco di un decennio o poco più, il secondo più grande al mondo dietro quello statunitense.

Nondimeno, tale miracolo economico avrebbe comportato non solo un’enorme velocizzazione del processo di deindustrializzazione in atto negli USA (anche se, a dire il vero, la crescita dell’economia a stelle e strisce non si sarebbe mai davvero interrotta se non durante la crisi dei mutui subprime), ma anche un progressivo ampliamento delle velleità geopolitiche di Pechino.

Grazie alla sua poderosa crescita, infatti, la Repubblica Popolare avrebbe avuto modo di intraprendere, con una percentuale non certo eccessiva del suo Prodotto Interno Lordo, un significativo rafforzamento del proprio strumento militare, a cui, con buona pace di tutti coloro propensi a credere nel detto secondo cui “dove passerebbero le merci non passerebbero gli eserciti”, si sarebbe accompagnata una condotta politica sempre più assertiva.

Una condotta che, come noto, Pechino avrebbe manifestato non solo nello scacchiere dell’Estremo Oriente, dove avrebbe incrementato la propria pressione su Taiwan e le sue irrealistiche rivendicazioni sulle acque del Mar cinese meridionale, ma anche in altre aree del mondo, dove avrebbe perseguito un significativo incremento della propria influenza economica e politica nei confronti di diversi Paesi di Asia e Africa e dato grande impulso a diverse iniziative volte a ridurre l’influenza geopolitica degli USA e, più in generale, dell’Occidente in seno al panorama internazionale. Si pensi, a tal proposito, alla SCO (Shanghai Cooperation Organization), al gruppo dei cosiddetti “BRICS” (organismo principalmente economico che Pechino avrebbe creato verso la fine degli anni 2000 con Brasile, Russia e India e a cui, nel 2010, si sarebbe aggiunto anche il Sudafrica) e alla famigerata “Belt and Road Initiative”.

Una LPD Type 071 della People’s Liberation Army Navy della Repubblica Popolare Cinese

Gli USA e i loro nuovi imperativi strategici

L’idea che, a fronte dei mutamenti appena descritti, Washington dovesse necessariamente operare una qualche forma di cambiamento nel suo modo di approcciarsi al mondo esterno avrebbe iniziato a farsi largo già nei primi anni della Presidenza Obama, in un momento in cui apparivano ormai evidenti non solo l’assertività di Russia e Cina, ma anche la stanchezza degli USA, che, lungi dall’assomigliare all’egemone pressoché incontrastato di pochi anni prima, intravvedevano ora il rischio di cadere nella trappola del cosiddetto “imperial overstretch”; ossia quel fenomeno (descritto dal celebre studioso Paul Kennedy nel suo famoso saggio “The Rise and the Fall of the Great Powers”) per cui quando una potenza arriverebbe ad estendersi troppo al di là delle sue reali capacità economiche e militari sarebbe destinata al crollo o a un inesorabile declino.

Certo, poi cambiare l’approccio tenuto da una superpotenza del calibro degli USA non è affatto cosa semplice e, sicuramente, richiede un certo lasso di tempo.

A tal proposito, ricordiamo, infatti, come anche l’Amministrazione Obama abbia, in parte, agito su presupposti di natura ideologica; si pensi, tanto per fare un esempio, alla scelta di contribuire al rovesciamento di Gheddafi; operazione in seguito alla quale, prendendo, forse, atto dell’impossibilità di dare al Paese un modello di governo democratico, non sarebbe neppure stata avviata una missione di stabilizzazione post-conflict, col risultato finale di lasciare la Libia nelle mani di Ankara e Mosca.

F-16 statunitensi ad Aviano durante la crisi libica del 2011 (US Army Photo by SSG Tierney P. Wilson) (Not Yet Reviewed)

Cionondimeno, a partire da quegli anni, Washington avrebbe progressivamente cercato di dismettere l’atteggiamento marcatamente “mondialista” dei due decenni precedenti in favore di una condotta maggiormente focalizzata sulla preservazione della propria condizione geopolitica e meno incline a “sprecare” risorse su obiettivi di scarso valore, come, per l’appunto, quello di esportare e consolidare la democrazia in Paesi che democratici non erano mai stati.

Un cambiamento che, a ben guardare, avrebbe caratterizzato, in una maniera o nell’altra, l’agire di tutte la Amministrazioni succedutesi nel corso dell’ultimo quindicennio (anche se, poi, quella di Biden si sarebbe si sarebbe, chiaramente, ritrovata ad operare nell’ambito di un quadro generale molto più deteriorato).

Nello specifico, tra le maggiori priorità emerse vi sarebbero state quella di attenuare il fenomeno della globalizzazione, quella di conferire maggiori responsabilità agli alleati in fatto di Difesa e Sicurezza, quella di contenere la Cina sul piano militare e, non da ultima, quella di evitare che attorno alla crescente potenza di Pechino potesse consolidarsi un blocco di potere concorrente con il sistema di alleanze guidato da Washington.

Riguardo al primo di questi punti, ossia quello riguardante la necessità di plasmare in maniera differente il fenomeno della globalizzazione, se l’Amministrazione Obama, poco incline a svolte di tipo repentino, avrebbe ancora cercato di dare impulso ad iniziative come la “Trans-Pacific Partnership” e la “Transatlantic Trade and Investiment Partenership” (ossia delle aree di libero scambio pensate al fine di ridimensionare il rapporto commerciale USA-Cina), Donald Trump, più incline al principio dell’America First”, avrebbe invece puntato sull’imposizione di barriere tariffarie, utilizzate, in primo luogo, nei confronti di Pechino ma, in parte, anche nei confronti di molti Paesi e/o soggetti tradizionalmente partner degli USA.

Successivamente, però, lo strumento dei dazi sarebbe stato più volte impiegato anche da Joe Biden, che avrebbe, quindi, confermato l’intenzione di Washington di operare un parziale disimpegno dal proposito di guidare un sistema-mondo economicamente interconnesso allo scopo di “riprendere fiato” e rinsaldarsi a livello interno.

Per quanto riguarda, invece, la richiesta di un maggiore impegno da parte degli alleati in materia di Difesa e Sicurezza, essa si sarebbe fatta molto più pressante già durante gli anni dell’”era” Obama.

In Europa, dove il progressivo deterioramento delle relazioni tra Russia e Occidente risultava ormai sempre più evidente, tali pressioni avrebbero fatto in modo che, in occasione del summit del Galles del 2014, i membri della NATO si accordassero allo scopo di dedicare alla Difesa almeno il 2% del Prodotto Interno Lordo.

Foto di rito dei ministri degli Esteri dei Paesi NATO a margine del summit del Galles del 2014

Nondimeno, nel periodo immediatamente successivo i reali progressi registratisi in tal senso sarebbero stati davvero pochi, soprattutto con riferimento ai Paesi di maggiori dimensioni.

Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, tale circostanza non avrebbe fatto altro che incrementare l’atteggiamento critico di Washington nei confronti degli europei, che molti americani vedevano ormai come soggetti parassitari intenti a “consumare”, gratuitamente o quasi, la sicurezza da essi prodotta.

Tali polemiche, che avrebbero investito pesantemente anche l’Alleanza Atlantica, sarebbero proseguite, in modo più o meno intenso, durante tutto il quadriennio della prima Presidenza Trump, lasciando strascichi significativi anche durante i primi mesi di Biden alla Casa Bianca.

Chiaramente, ciò che, in concreto, avrebbe spinto Washington a chiedere un maggiore impegno ai propri partner sarebbe stata, e veniamo qui al terzo punto, l’esigenza del Pentagono di adattare la propria postura strategica alla necessità di arginare le ambizioni di Pechino in Estremo Oriente; cosa che avrebbe inevitabilmente comportato lo studio di un parziale disimpegno da altre aree del pianeta, in cui gli alleati si sarebbero, verosimilmente, trovati a dover fare di più rispetto ai decenni precedenti.

Tra queste, quella in cui tale strategia si sarebbe, forse, avvertita in maniera più netta è, molto probabilmente, costituita da quella mediorientale, in cui, a partire dal 2011 (anno in cui gli USA avrebbero ritirato il grosso delle proprie forze dall’Iraq), l’Amministrazione Obama avrebbe progressivamente adottato un approccio molto più indiretto.

Ovviamente, però, nell’attuazione di questo processo non sarebbero mancati diversi effetti che potremmo definire “indesiderati”; cosa, forse, inevitabile considerando la fallacia degli obiettivi iniziali dell’azione statunitense.

In particolare, restando proprio sull’Iraq, lo Stato sarebbe stato lasciato in condizioni tali da non riuscire ad opporsi neppure all’invasione dei miliziani dell’ISIS; gruppo terroristico cresciuto nell’intricato contesto della guerra civile siriana, nell’ambito del quale l’incertezza dell’Amministrazione Obama avrebbe, tra l’altro, lasciato ampio spazio all’azione del Cremlino e di molti dei nemici di Washington nella regione.

Per quanto riguarda l’Iran, invece, nel 2015 esso avrebbe avuto modo di strappare un accordo sul nucleare che, oltre a non affrontare nessuno degli spinosi argomenti riguardanti le sue mire egemoniche nell’area, sarebbe, tra l’altro, servito solo a rallentare, e non certo ad impedire, la costruzione della “bomba”.

Forze missilistiche iraniane durante un’esercitazione – Credit Twitter

Sommate agli effetti della crisi dei mutui subprime del 2008, le modalità con cui USA avrebbero iniziato a sganciarsi dal Medio Oriente non avrebbero fatto altro che palesare la condizione di relativa debolezza di Washington; cosa sicuramente non positiva in un ambiente internazionale dove l’incertezza l’avrebbe fatta sempre più da padrona, dominando, come si è già avuto modo di ricordare, anche la sempre più delicata gestione dei rapporti bilaterali tra gli Stati Uniti e la Russia di Vladimir Putin, che, nel frattempo, avrebbe anch’essa dato un notevole impulso alla creazione di BRICS ed SCO e che, insieme a Pechino, e siamo quindi al quarto dei punti da noi elencati, avrebbe potenzialmente potuto costituire il nocciolo duro quell’ipotetico blocco antioccidentale di portata globale a cui si faceva riferimento pocanzi.

Al fine di scongiurare tale eventualità, poco prima della sua rielezione (avvenuta nel 2012), il Presidente Obama avrebbe cercato una sorta di riavvicinamento con Mosca, facendo concessioni riguardo allo scudo missilistico NATO (che, dopo alcune trattative, si sarebbe scelto di incentrare sugli intercettori STANDARD SM-3 Block IIA, dotati solo di limitate capacità anti-ICBM), spingendo per la firma del trattato “New START” (notoriamente finalizzato alla riduzione degli arsenali nucleari strategici russo e statunitense) e, soprattutto, proponendo al Cremlino una sorta di “reset” finalizzato ad appianare le divergenze sorte in Europa; altro teatro da cui, almeno in teoria, i vertici politici di Washington avrebbero volentieri posto in essere una qualche forma di disimpegno (ovviamente molto più limitata di quella attuata in Medio Oriente).

Nel periodo immediatamente successivo, tuttavia, non si sarebbe registrata nessuna significativa distensione.

Infatti, se, da un lato, i russi si sentivano sotto assedio e nutrivano, ormai, un forte sentimento anti-occidentale, dall’altro, gli apparati statunitensi temevano che un clima apparentemente più disteso avrebbe potuto incentivare un ulteriore approfondimento dei legami tra il Cremlino e i loro alleati europei, con particolare riferimento proprio a quella Germania che aveva appena finito di costruire il gasdotto Nord Stream insieme alla Russia e che, nel 2008, unitamente ai francesi (all’epoca anch’essi piuttosto ben disposti nei confronti del gigante eurasiatico), si era espressa contro l’ingresso di Ucraina e Georgia in seno all’Alleanza Atlantica.

Nel 2014 sarebbero, poi, arrivati i fatti di Piazza Maidan (frutto dell’esplosiva situazione causata dall’ormai decennale competizione tra NATO e Russia per l’Ucraina), l’invasione della Crimea da parte delle truppe di Mosca e le conseguenti sanzioni da parte di Stati Uniti e Unione Europea, a cui, come noto, il Cremlino avrebbe risposto concludendo con la Cina un maxi-accordo da 400 miliardi di dollari sull’esportazione di gas. Un accordo che, nelle intenzioni dei vertici russi, avrebbe dovuto fungere da monito nei confronti dell’Occidente riguardo alla disponibilità di Mosca ad approfondire ulteriormente i propri legami con Pechino.

Un momento delle proteste di Piazza Midan del gennaio 2014

Con questa situazione sullo sfondo, già durante la sua prima campagna elettorale Donald Trump avrebbe sottolineato la necessità di riallacciare con la Russia al fine di evitare che scivolasse tra le braccia della Cina.

Durante il suo mandato, tuttavia, i principali problemi legati al rapporto tra Washington e Mosca sarebbero rimasti sul tavolo, con la Russia che avrebbe continuato a perseguire la sua strategia mirante a vincolare il cuore industriale del continente europeo alle sue risorse energetiche (tra l’altro, proprio in quegli anni sarebbe entrata nel vivo la costruzione del gasdotto Nord Stream 2, che il tycoon avrebbe sin da subito visto come il fumo negli occhi) e gli USA che avrebbero continuato a consolidare la propria sfera d’influenza in Europa orientale (cosa sempre più utile anche al fine di separare Mosca e Berlino).

In Medio Oriente si sarebbe, invece, registrata una più timida forma di collaborazione (anche se, a dire il vero, non priva di incidenti) allo scopo di sconfiggere l’ISIS, che avrebbe visto Trump accettare la permanenza di Bashar Assad, alleato di Mosca e Teheran, alla guida dello Stato siriano ma non di abbandonare la cooperazione degli USA con talune forze anti-regime.

Allo stesso tempo, però, Donald Trump, notoriamente sostenitore dello Stato Ebraico, avrebbe compiuto una vera e propria inversione a “u” in materia di relazioni con l’Iran, che si sarebbe tradotta nella fuoriuscita di Washington dal trattato sul nucleare siglato nell’era Obama e in un contrasto più diretto alle azioni clandestine di Teheran e del cosiddetto “Asse della Resistenza”.

Asse a cui gli USA avrebbero scelto di contrapporre un’intesa regionale tra Israele e diversi Stati musulmani, con particolare riferimento alle cosiddette monarchie del Golfo.

Strumento cruciale per il raggiungimento di tale obiettivo i famosi “accodi di Abramo”, che proprio con Trump avrebbero cominciato ad essere finalizzati.

Il Presidente Trump con Benjamin Netanyahu e i ministri degli Esteri di Emirati Arabi Uniti e Qatar durante la firma dei cosiddetti accordi di Abramo

Conformemente alla necessità di focalizzare l’attenzione sui teatri più importanti, durante la Presidenza del tycoon gli USA avrebbero anche iniziato a pianificare il ritiro dall’Afghanistan, che sarebbe, però, stato condotto, in maniera a dir poco caotica, dalla successiva Amministrazione Biden.

In combinazione con il progressivo inasprimento delle divisioni politiche all’interno degli USA, manifestatosi in maniera particolarmente forte negli ultimi mesi della Presidenza Trump (si pensi alle violente proteste del movimento Black Lives Matter o al famoso assalto al Congresso del 6 gennaio 2021) tale ritiro avrebbe avuto un effetto a dir poco devastante sulla già traballante credibilità degli USA e dell’Occidente.

Non a caso, nel giro di pochissime settimane i cinesi avrebbero intensificato le loro pressioni su Taiwan (che, a partire da allora, avrebbe subìto innumerevoli violazioni del suo spazio aereo e navale ad opera delle Forze Armate di Pechino), mentre i russi avrebbero iniziato ad ammassare le proprie truppe al confine con l’Ucraina, che avrebbero, poi, attaccato il 24 febbraio 2022 con il duplice obiettivo di riaffermare la propria influenza sul Paese e di infliggere un colpo letale ad una NATO in crisi forse come mai prima di allora.

Il risultato ottenuto sarebbe stato, però, l’opposto, con il totale fallimento di quell’“operazione lampo” mirante alla rapida sostituzione dei vertici di Kiev che il Cremlino sembrerebbe aver posto in essere sottovalutando la determinazione degli ucraini.

Nel giro di pochissimi giorni, infatti, i russi si sarebbero ritrovati impantanati in un vero e proprio conflitto ad alta intensità, che avrebbe, peraltro visto le forze di Kiev ricevere aiuti sempre più consistenti da parte di America tornata in grande stile ad occuparsi di Europa e di un’Alleanza Atlantica ricompattatasi proprio al fine di contrastare l’azione di Mosca.

La guerra si sarebbe, poi, protratta per tutta la restante parte della Presidenza Biden, causando centinaia di migliaia di vittime da ambo le parti, nonché il rischio di un catastrofico scontro diretto tra la NATO e la Russia.

Tank russo in ucraina (Credit – Mil.ru)

Ad essa, nel frattempo, si sarebbe aggiunto anche il grave conflitto il Medio Oriente, iniziato (o, forse, sarebbe meglio dire riesploso) con il feroce attacco condotto da Hamas ai danni di Israele il 7 ottobre 2023 e proseguito coinvolgendo, in un modo o nell’altro, praticamente tutti i membri del già menzionato “Asse della Resistenza” (Iran, Siria, Hezbollah, Houthi e milizie filo-iraniane operanti in territorio iracheno).

Su Pechino, i conflitti in corso, con particolare riferimento a quello ucraino, sembrerebbero aver auto un effetto piuttosto ambivalente.

In particolare, se, da un lato, la dirigenza cinese avrebbe più volte invocato una soluzione pacifica, forse anche nel timore che quanto accaduto in Ucraina potesse spingere gli USA ad una condotta meno permissiva nella regione dell’Indopacifico, nonché ad un riarmo generalizzato di tutti loro alleati nell’area, dall’altro, essa sarebbe averne approfittato al fine di legare ancor di più a sé la Russia di Putin, con cui avrebbe firmato il famoso trattato di amicizia “senza limiti” e verso la quale avrebbe inviato un gran quantitativo di materiali “dual use” di cruciale importanza per l’industria bellica.

L’avvicinamento tra Russia e Cina sarebbe, inoltre, andato ad inserirsi in un contesto di generale allargamento dei BRICS, a cui, a partire dal 1° gennaio 2024 avrebbero aderito anche lo stesso Iran (che, tra le altre cose, avrebbe profuso notevoli sforzi anche al fine di supportare Mosca in Ucraina), gli Emirati Arabi Uniti (che pure si erano sempre posti come alleati dell’Occidente, nonché come pionieri nella normalizzazione degli accordi co Israele), l’Egitto e l’Etiopia.

Al gruppo, tra l’altro, ci è mancato poco che non aderissero anche l’Arabia Saudita, importantissimo alleato di Washington nella regione del Golfo che Pechino vorrebbe far riavvicinare al suo storico nemico iraniano in funzione anti-statunitense, e l’Argentina, che avrebbe, però, rinunciato ad aderire in seguito all’elezione di Xavier Milei.

Allo stesso tempo potrebbe, però, entrare la Turchia, potenza sempre più distante dalla NATO (di cui comunque continua a far parte) impegnata, da anni, in quello che sembrerebbe essere un progetto sostanzialmente autocefalo volto ad espandere la propria influenza nell’area compresa tra Africa settentrionale e Asia centrale.

Attorno al sistema SCO/BRICS ruotano, poi, diversi altri Paesi; non da ultima la Corea del Nord di Kim Jong-Un, storico nemico degli USA con cui Donald Trump era riuscito ad ottenere un parziale riavvicinamento mirante a far sì che Pyongyang sospendesse lo sviluppo del suo arsenale nucleare), ma che dopo lo scoppio della guerra in Ucraina avrebbe scelto di schierarsi apertamente dalla parte di Mosca, in aiuto della quale avrebbe anche inviato, nel corso degli ultimi mesi, diverse migliaia di truppe di terra.

L’ultimo summit dei BRICS

Come potrebbe agire la nuova Amministrazione Trump

In buona sostanza, dunque, al suo ritorno alla Casa Bianca Donald Trump sembrerebbe trovarsi davanti un assetto internazionale molto diverso rispetto a quello che maggiormente converrebbe agli USA.

Allo stesso tempo, però, in tale contesto non mancherebbero alcuni elementi relativamente favorevoli.

Gli alleati, tanto per fare qualche esempio, sembrerebbero ormai aver compreso la necessità di impegnarsi di più in campo militare; un qualcosa di sicuramente positivo anche se la strada da fare appare ancora molto lunga e, ben difficilmente, Washington potrà essere soddisfatta da quanto fatto finora.

Quanto alla Cina, invece, malgrado l’allarme suscitato dal suo iperattivismo in campo strategico e militare, dalle minacce nei confronti di Taiwan e dall’intenzione del suo governo di avviare un significativo potenziamento del proprio arsenale nucleare, non si può non notare come le previsioni di crescita dell’economia del Paese siano decisamente meno rosee rispetto a quelle di qualche decennio fa; una circostanza che, in combinazione la situazione di progressivo ristagno demografico con cui presto Pechino dovrà fare i conti, potrebbe impattare non poco sulla capacità della Repubblica Popolare di sfidare gli USA per il primato mondiale.

Un altro elemento che gioca, senz’altro, a favore di Washington è, poi, costituito dalla notevole eterogeneità politica e culturale dei BRICS, a cui si sommano alcune annose questioni mai risolte nell’ambito del contesto asiatico, che potrebbero, senza dubbio, costituire una fastidiosissima spina nel fianco per gli ambiziosi progetti di Pechino.

Si pensi, in tal senso, alle numerose difficoltà che caratterizzano il rapporto della stessa Cina con la vicina India, avvelenato nel tempo da numerosi scontri di confine, nonché dallo storico supporto dato al Pakistan da parte della Repubblica Popolare.

Nel corso degli ultimi mesi, tra Pechino e Nuova Delhi ci sarebbe stato un importante riavvicinamento, che avrebbe portato, tra le atre cose, alla creazione di un meccanismo di pattugliamenti congiunti sull’Himalaya, ma la strada da fare sembrerebbe essere ancora molto lunga e si può, certamente, scommettere che gli USA cercheranno di frapporsi tra i due Paesi allo scopo di integrare quanto più possibile l’India nel loro schema di contenimento della Repubblica Popolare.

Per quanto riguarda, invece, l’eventuale tentativo di sganciare Mosca da Pechino, su cui Trump aveva molto spinto in precedenza, bisogna purtroppo osservare come, anche in ragione del pesante deterioramento dei rapporti avutosi negli ultimi anni, esso sembrerebbe, al momento, appartenere più al campo della fantascienza che a quello della realtà.

Nondimeno, in linea con quanto più volte dichiarato in campagna elettorale, nonché con la sua intenzione di alleggerire il fardello degli USA in Europa, il neo Presidente sarebbe comunque intenzionato a trovare una soluzione per congelare il conflitto ucraino.

In particolare, egli avrebbe parlato di una soluzione mediata, che, secondo quanto si è avuto modo di apprendere, dovrebbe basarsi, da un lato, sul congelamento della situazione generatisi sul campo (ed è fondamentalmente questa la ragione per cui, da qualche settimana a questa parte, i russi starebbero cercando di spingere allo scopo di conquistare quanto più territorio possibile) e, dall’altro, sull’archiviazione della “pratica” riguardante l’ingresso di Kiev nell’Alleanza Atlantica (anche se, ovviamente, si starebbero parallelamente studiando soluzioni efficaci al fine di offrire garanzie allo Stato ucraino, che, a questo punto non può certamente essere lasciato in balìa di Mosca).

Il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy con l’ex Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg nel 2023

Quanto al Medio Oriente, invece, è certamente molto complicato fare previsioni su cosa potrebbe accadere nel prossimo futuro, specie considerando che il caos sembrerebbe non accennare a fermarsi.

Tanto per dirne una, solo pochi giorni dopo l’inizio della tregua in Libano, il mai sopito fuoco della guerra civile siriana sembrerebbe essere improvvisamente tornato ad ardere a causa di un’offensiva del gruppo jihadista filo-turco Hayat Tahrir al-Sham contro la città di Aleppo (una mossa, peraltro, inattesa considerando che, riaccendendo tale focolaio, la Turchia tornerebbe, di fatto, ad ingaggiare una sfida indiretta con Russia e Iran, ossia due membri di quel BRICS a cui, di recente, si sarebbe molto avvicinata).

In ogni caso, però, per ciò che concerne il conflitto tra Israele e i membri del filo-iraniano Asse della Resistenza, Donald Trump sembrerebbe intenzionato a supportare lo Stato Ebraico anche più di quanto non abbia fatto l’Amministrazione Biden (che, pur fornendo enormi quantitativi di armi e munizioni, avrebbe più volte cercato di imporre soluzioni diplomatiche non molto in linea con quanto auspicato da Tel Aviv) e a prendere ancor più di petto il “problema Iran”, anche se, non potendo “sprecare” tempo e risorse nella conduzione di un “regime change” (ricordiamo, tra le altre cose, come l’Iran sfiori ormai i 90 milioni di abitanti), egli potrebbe, più che altro, cercare di mettere sotto pressione gli Ayatollah mediante operazioni mirate condotte in maniera congiunta con i suoi alleati regionali e/o incrementando il proprio sostegno alle forze di opposizione.

Riassumendo a grandi linee, si può quindi immaginare che la nuova Amministrazione intenda riprendere il perseguimento di una maggiore razionalizzazione delle risorse (cosa messa, ovviamente, da parte a causa degli eventi bellici degli ultimi anni), adottando un approccio per cui, soprattutto in caso di congelamento del conflitto ucraino, agli europei verrebbero progressivamente affidate maggiori responsabilità con riferimento alla sicurezza del loro continente (anche se Washington continuerebbe, verosimilmente, a mantenere le sue basi e, soprattutto, a presidiare il cosiddetto “trimarium”), mentre Israele e i suoi nuovi partner arabi si vedrebbero appaltata buona parte del contenimento dell’Iran in Medio Oriente.

Il tutto allo scopo di concentrarsi sul contenimento di Pechino in oriente (obiettivo prioritario a cui, peraltro, concorrono, già oggi, diversi alleati regionali e non) e sulla necessità di impedire un ulteriore consolidamento del suo sistema di alleanze.

Carrier BattleGroup della US Navy in navigazione

Come ben sappiamo, in Europa, non diversamente da quanto accaduto nel 2016 (anno della prima vittoria elettorale di Trump), l’idea di ritrovarsi il tycoon alla Casa Bianca sembrerebbe aver suscitato più di un malumore.

Pur avendo intrapreso la strada di un maggiore impegno nell’ambito della Sicurezza, infatti, gli europei scontano comunque diversi decenni di relativa disattenzione rispetto alle tematiche di tipo strategico e temono, di conseguenza, l’instabilità che potrebbe scaturire dall’assenza degli USA dalle aree di loro maggiore interesse.

Il tutto, senza, poi, contare che, dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, la presenza di Washington in Europa avrebbe, senza dubbio, costituito un essenziale fattore di bilanciamento nelle relazioni tra i maggiori Paesi del continente.

Tuttavia, occorre anche ricordare come, al netto dell’esigenza di contenere la Cina, in seno alla “grande strategia” statunitense l’Europa ricopra ancora un ruolo fondamentale (non foss’altro per via del suo ancora considerevole conglomerato di capacità) e come, ben difficilmente la presenza di Washington si ridurrà davvero al di sotto del livello di guardia.

Stesso discorso, e qui veniamo a noi italiani, per il bacino del Mediterraneo, che, ancora nei prossimi decenni, continuerà a rappresentare la più rapida via di comunicazione tra lo scacchiere del nord-Atlantico e quello dell’Indopacifico.

Come accennato pocanzi, al fine di adattarsi al nuovo contesto nato dai profondi mutamenti di cui sopra, sia l’Italia che altri Paesi del vecchio continente sembrerebbero aver scelto di venire incontro alla richieste di Washington contribuendo in maniera più attiva all’implementazione del meccanismo di sicurezza globale da essa guidato (si pensi, tanto per fare un esempio, all’ormai costante presenza di unità navali europee nelle acque del Mar cinese meridionale).

Con il ritorno di Donald Trump, è, ovviamente, assai probabile che i Paesi europei siano destinati ad accentuare ulteriormente tale tendenza, con lo scopo ultimo di conservare adeguati livelli di collaborazione con l’alleato d’oltreoceano anche per ciò che concerne le questioni di loro primario interesse.

Nondimeno, al fine di tutelare i propri interessi nel sempre più pericoloso mondo di oggi, sarà comunque necessario che essi riescano a rafforzare la loro indipendenza in ambito industriale e tecnologico e a coordinare in maniera più efficace il loro agire nell’ambito degli scacchieri di comune interesse.

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