Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. L’incontro bilaterale tra Donald Trump e Vladimir Putin, tenutosi ad Anchorage, in Alaska, a Ferragosto, ha segnato una frattura silenziosa, ma profonda, nella struttura dell’ordine mondiale post-1945.

Non è stato un semplice summit tra due figure politiche fuori dagli schemi, né un mero riavvicinamento tattico tra Washington e Mosca.
È emersa, invece, la traccia concreta di una possibile riconfigurazione dell’equilibrio strategico globale.
Un’offensiva diplomatica in piena regola, mascherata da gesto di apertura, che punta a riscrivere le regole dell’architettura di sicurezza euro-atlantica con modalità e simbolismi che evocano la brutalità ordinata della logica di potenza novecentesca. La scelta dell’Alaska come sede dell’incontro non è stata casuale: terra contesa nella memoria imperiale zarista, ceduta nel 1867 agli Stati Uniti, essa rappresenta oggi un confine fisico e psichico tra due visioni del mondo. Trump e Putin vi si sono ritrovati come due “egemoni” in cerca di un nuovo patto di spartizione.
Lo spazio era neutro solo in apparenza: il sottotesto era carico di segnali strategici.
Fonti qualificate vicine al Consiglio di Sicurezza Nazionale statunitense hanno rivelato che i colloqui non si sono limitati a generiche riflessioni su una tregua.
Putin ha posto sul tavolo una proposta strutturata: congelamento immediato del fronte, riconoscimento de facto della Crimea come territorio russo, legittimazione amministrativa delle entità separatiste nel Donbas, e in cambio, una neutralità “attiva” dell’Ucraina, formalmente sganciata dalla NATO, ma protetta da un vago schema di garanzie multilaterali.
Mosca la chiama “una Finlandia armata ma non atlantica” – un riferimento storico tanto potente quanto ambiguo: quella Finlandia che, tra il 1944 e il 1991, fu costretta a vivere in un limbo geopolitico, formalmente sovrana ma sostanzialmente condizionata da Mosca.
Questa proposta, già avanzata più volte negli anni precedenti in ambienti russi, trova ora un ascoltatore disposto, se non a firmare, quantomeno a non respingere: Donald Trump.
La sua visione geopolitica si fonda su un realismo transazionale, spogliato da ogni velleità ideologica.
La pace – nella sua concezione – non è un obiettivo, ma una merce da negoziare.
Ed è in questa logica brutale che nasce la frase destinata a scuotere gli equilibri: “Zelensky può concludere la guerra in 24 ore, se lo vuole davvero”.

Una dichiarazione cinica, calibrata per massimizzare il discredito di Kiev e al contempo rafforzare l’idea che la guerra non sia più una questione di aggressione e resistenza, ma di volontà politica.
È un colpo diretto all’asse transatlantico. Una detonazione che ha costretto l’Europa a reagire in modo coordinato, rapido e, per certi versi, disperato.
Nel giro di pochi giorni, una contro-offensiva diplomatica si è materializzata nella capitale americana.
Ieri, a Washington, nove figure centrali della politica euro-atlantica si sono schierate – simbolicamente e politicamente – accanto a Volodymyr Zelensky, in quello che a molti analisti è apparso come un tentativo di arginare la deriva bilaterale Trump-Putin.

Da sinistra a destra, nella storica foto: Ursula von der Leyen, Keir Starmer, Alexander Stubb, Volodymyr Zelensky, Donald Trump, Emmanuel Macron, Giorgia Meloni, Friedrich Merz e Mark Rutte.
Il peso della coreografia non è secondario. Lo scatto, apparentemente anodino, è in realtà un messaggio visivo: Kiev non è sola. Ma la vera partita si gioca dietro le quinte, tra le ombre lunghe dei dossier e i tracciati paralleli delle diplomazie.
Von der Leyen, pur priva di un mandato esecutivo in politica estera, ha simbolicamente incarnato la volontà della Commissione europea di legare la ricostruzione dell’Ucraina a un quadro normativo coerente con i principi del diritto internazionale.
Keir Starmer, appena entrato a Downing Street, ha confermato la linea britannica della non-negoziabilità dell’integrità territoriale ucraina.
Alexander Stubb, Presidente della Finlandia, ha evocato Yalta senza nominarla, ammonendo che ogni concessione oggi si traduce in un’avanzata domani.
Macron, oscillante tra grandeur francese e realismo continentale, ha proposto uno schema di garanzie europee, autonome ma integrate nella logica NATO.
Giorgia Meloni ha esteso la discussione al quadrante mediterraneo, evidenziando le interferenze russe nei Balcani e nel Sahel.
Friedrich Merz ha portato la voce della Germania atlantista, contraria a qualsiasi neutralizzazione dell’Ucraina che sancirebbe una sconfitta strategica per l’intero fronte orientale.

E Mark Rutte, Segretario Generale della NATO, ha messo in chiaro che ogni schema di garanzia dovrà tradursi in presenza militare, non in dichiarazioni politiche.
Zelensky, nel cuore del gruppo ma sempre più solo nel peso delle scelte, ha pronunciato – secondo fonti diplomatiche – uno dei discorsi più duri della sua carriera internazionale.
Ha respinto qualunque proposta che preveda la cessione permanente di territori, minacciando la rottura diplomatica con Washington nel caso emergessero accordi paralleli tra Trump e Putin.
Ha chiesto garanzie scritte, verificabili, operative.
La memoria del Memorandum di Budapest del 1994, quando Kiev cedette il terzo arsenale nucleare del mondo in cambio di vaghe promesse di protezione, pesa come una lezione drammatica e ancora aperta: senza deterrenza credibile, la diplomazia è solo una liturgia vuota.
Il vertice di Washington di ieri non è stato quindi un semplice summit multilaterale.
È stato, a tutti gli effetti, il tentativo disperato dell’Europa di riaffermare un principio basilare: nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina.
Ma dietro questa formula, apparentemente etica, si cela una verità geopolitica inquietante.
L’Occidente è oggi attraversato non da una frattura tra Europa e Stati Uniti, ma da una faglia interna agli stessi Stati Uniti: quella tra la dottrina Biden – multilaterale, fondata sulla sicurezza collettiva – e la visione trumpiana, basata su accordi diretti, transazionali, e su una divisione del mondo in sfere d’influenza. Una nuova Yalta, stavolta senza Roosevelt, senza Churchill, ma con Trump e Putin.
Washington 2025 si presenta dunque come una soglia storica.
Se l’Europa non riuscirà a trasformare la sua unità tattica in una strategia strutturale – costruita su deterrenza reale, interoperabilità militare, intelligence condivisa e una capacità autonoma di proiezione di forza – cederà il passo a un ordine mondiale dove la forza torna a prevalere sul diritto, e la pace si compra al prezzo dell’impotenza.
La postura europea, oggi, deve evolvere da dipendenza a responsabilità. Altrimenti sarà il continente stesso a diventare oggetto, e non soggetto, della storia.
Zelensky è uscito dal vertice circondato da parole di sostegno, ma privo di impegni vincolanti.
Trump non ha ritrattato nulla, né intende farlo.
L’Europa si trova stretta tra la lealtà all’Alleanza e il bisogno di sopravvivenza strategica.
E mentre i fronti restano aperti, con l’autunno alle porte e le forniture militari in bilico, la vera domanda resta sospesa: è ancora possibile un ordine internazionale fondato sul diritto, o stiamo entrando definitivamente in una nuova era di geometrie brutali, dove la geopolitica è scritta a quattro mani da chi può e da chi osa?
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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