Israele: la questione del Diritto internazionale. Nel mezzo delle rovine e delle sirene, le norme sembrano più un’illusione che una guida

Di Cristina Di Silvio* 

WASHINGTON D.C. Il 13 giugno scorso Israele ha lanciato l’Operazione “Rising Lion”, un attacco coordinato contro obiettivi militari e nucleari in territorio iraniano.

Edifici di Tel Aviv colpiti da attacchi iraniani

Il giorno dopo, l’Iran ha risposto con una pioggia di missili su Tel Aviv, Haifa, installazioni militari e – inevitabilmente – aree urbane.

Si contano centinaia di vittime. Entrambe le parti invocano il Diritto internazionale.

Ma nel mezzo delle rovine e delle sirene, le norme sembrano più un’illusione che una guida.

Il Diritto internazionale viene evocato per giustificare, mai per prevenire.

È diventato un paravento dietro cui ogni Stato recita la propria versione della legittimità. Israele afferma di aver agito in “autodifesa preventiva”, una dottrina che non esiste formalmente nel Diritto positivo internazionale.

L’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite autorizza l’uso della forza solo “in caso di attacco armato”.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres

Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte Internazionale di Giustizia (CIJ), inclusa l’Opinione consultiva sul muro in Cisgiordania del 2004 e la sentenza Nicaragua versus USA del 1986, la legittima difesa richiede un’aggressione reale, non ipotetica.

Nessuna prova pubblica fornita da Tel Aviv mostra che Teheran fosse sul punto di colpire.

E allora sorge la domanda: Israele ha agito come Stato sovrano o ha violato l’art. 2(4) della Carta, che vieta l’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato?

L’Iran risponde con la stessa arma: il diritto. Sostiene di esercitare una risposta proporzionata e legittima a un’aggressione armata già in corso.

È vero che l’art. 51 consente l’autodifesa, ma solo finché il Consiglio di Sicurezza non ha preso misure adeguate.

Inoltre, per essere legittima, la difesa armata deve rispettare i principi di necessità e proporzionalità, due pilastri del diritto consuetudinario, ribaditi nella sentenza Oil Platforms della CIJ (2003).

Una riunione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite

Le ritorsioni iraniane, però, hanno colpito obiettivi civili, creando un serio rischio di violazione del diritto internazionale umanitario.

Le Convenzioni di Ginevra (1949) e il Protocollo I del 1977 vietano gli attacchi indiscriminati, e impongono di distinguere in ogni momento tra civili e combattenti.

L’Iran, come Israele, è parte delle Convenzioni, e vincolato a questi principi.

Nel frattempo, la comunità internazionale si mostra impotente.

Il Consiglio di Sicurezza è bloccato dal veto statunitense contro ogni risoluzione che critichi Israele, e da quello russo contro qualunque sanzione all’Iran.

È la solita paralisi.

L’Assemblea Generale ha discusso la possibilità di convocare una sessione d’emergenza ai sensi della risoluzione “Uniting for Peace” (377 A) ma finora nulla di concreto.

In teoria, quell’articolo permette all’Assemblea di raccomandare misure collettive quando il Consiglio fallisce.

In pratica, è un’arma spuntata: le sue decisioni non sono vincolanti, ma politicamente simboliche.

La Corte Internazionale di Giustizia, massimo organo giurisdizionale delle Nazioni Unite, ha ricevuto una richiesta di parere consultivo da un gruppo di Stati membri del Movimento dei Non Allineati.

Ma i tempi della Corte sono lenti, e i pareri consultivi non obbligano nessuno.

Nessuno dei due belligeranti ha riconosciuto la competenza della Corte per un contenzioso diretto, e non c’è alcuna giurisdizione obbligatoria che consenta di giudicare l’illegalità degli atti.

L’UNHCR e l’OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs ONU) denunciano crimini di guerra, ma non hanno strumenti coercitivi.

La CPI (Corte Penale Internazionale) potrebbe, in teoria, indagare su possibili violazioni gravi del diritto umanitario, ma l’Iran non è parte dello Statuto di Roma, e Israele ha firmato ma mai ratificato il trattato.

Il risultato è che la giurisdizione della Corte è limitata, a meno che il Consiglio di Sicurezza non la investa formalmente del caso.

Cosa che non accadrà, per i motivi di cui sopra. Ecco il punto.

Il Diritto internazionale è più presente che mai nel discorso politico, ma più impotente che mai nella prassi.

Tutti lo invocano. Nessuno lo teme.

Le norme esistono, ma sono diventate strumenti retorici nelle mani degli Stati, non vincoli reali.

Si parla di jus ad bellum e jus in bello, ma si agisce secondo logiche di deterrenza, escalation e vendetta.

Il multilateralismo, fondato sul principio dell’eguaglianza sovrana e sull’interesse collettivo alla pace (art. 1 Carta ONU), è in crisi strutturale. Gli strumenti giuridici esistono, ma sono paralizzati da veti, interessi geopolitici e impunità sistemica.

Allora la domanda torna a martellare: il conflitto Iran-Israele è legittimo o illegale?

E la risposta è la più inquietante: è entrambe le cose, a seconda di chi racconta la storia. Il diritto internazionale sopravvive, ma solo come linguaggio del potere.

La sua forza non sta più nella norma, ma nell’uso che se ne fa. E finché non si ripristinerà un meccanismo credibile di responsabilità, resterà solo un lessico giuridico per guerre politiche.

*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Torna in alto