Di Cristina Di Silvio*
L’AJA. Durante il Vertice NATO dell’Aja, conclusosi ieri, tra i temi prioritari sono emerse l’espansione delle capacità convenzionali, l’incremento della readiness operativa in ambito Est-europeo e la convergenza degli Stati membri verso una soglia minima del 3–5% del PIL da destinare alla funzione difensiva.

Logo del summit NATO 2025
L’agenda ufficiale ha confermato l’intenzione dell’Alleanza di posizionarsi come attore globale non solo in ambito di hard deterrence, ma anche di stabilizzazione multidominio.
Eppure, tra righe ben allineate e comunicati perfetti, si è levata – laterale ma centrale – una domanda strategica che merita analisi: se la Difesa serve a proteggere una società, ma per renderla sostenibile la si priva delle sue fondamenta sociali ed economiche, quale sarà l’oggetto stesso della protezione?
Non si tratta di retorica civile o moralismo.
È un problema strutturale di dottrina.
L’apparato difensivo occidentale rischia, oggi, di diventare disfunzionale non per debolezza tattica, ma per miopia sistemica.

Il Segretario Generale della NATO, Mark Rutte
L’aumento previsto della spesa militare da parte di numerosi Stati membri (Germania, Paesi Bassi, Polonia in primis) spinge verso una ridefinizione della composizione funzionale del bilancio statale.
Se l’incremento del 5% del PIL per la Difesa viene realizzato senza un framework di compensazione macroeconomica, l’effetto netto sarà un graduale disinvestimento nei settori a più alta intensità sociale: sanità, educazione, mobilità civile, coesione territoriale.
Una Difesa che accresce la sua capacità cinetica al costo di de-strutturare la resilienza interna produce un cortocircuito.
La deterrenza esterna può risultare formalmente efficiente, ma strategicamente inutile, se la coesione interna viene erosa.
I documenti dottrinali dell’Alleanza Atlantica riconoscono, almeno formalmente, l’importanza del “Comprehensive Approach” e del “Whole-of-Government/Whole-of-Society model”.

Soldati della NATO in Kosovo nel corso di una esercitazione
Tuttavia, la traduzione operativa di tali approcci si è rivelata parziale e orientata in prevalenza alla sicurezza delle infrastrutture critiche e alla protezione delle supply chain militari.
Manca un bilanciamento effettivo tra sicurezza hard e sicurezza sociale.
Se la popolazione percepisce che la Difesa produce costi diretti (inflazione strategica, compressione del welfare, taglio ai servizi locali), la fiducia istituzionale si deteriora.
E senza fiducia, non c’è deterrenza che tenga.
La strategia NATO si fonda su due assi: sicurezza proiettiva e consenso interno.
Il secondo, però, è una variabile sottovalutata nei war game e nei contingency plan.
Una società che non riconosce più nel proprio apparato difensivo uno strumento di protezione, ma un vettore di sottrazione, entra in modalità difensiva contro le proprie stesse istituzioni.
È a questo punto che si innesca il vero rischio asimmetrico: non un attacco militare convenzionale, ma un crollo endogeno del supporto politico, della legittimità e – infine – della volontà di resistere.
La storia recente mostra: si può vincere sul piano operativo, ma perdere sul piano sociale.
Una revisione dottrinale è urgente.
Serve un bilancio strategico integrato che valuti ogni incremento di capacità militare non solo in termini di deterrenza “forward”, ma anche di impatto su parametri interni: fiducia pubblica, coesione civile, stabilità del consenso democratico.
Ciò implica una ridefinizione del concetto stesso di “Difesa nazionale”.
Difendere significa anche preservare le condizioni minime di esistenza dignitosa all’interno del perimetro statale.
La vera minaccia non è solo esterna.
È il deterioramento lento ma progressivo del capitale sociale.
Una società privata del suo equilibrio interno non è difendibile nel lungo termine.
Si può proteggere un confine, ma non si può militarizzare un’identità.
Se il sistema-Paese viene svuotato per renderlo più “protetto”, il trade-off non è sostenibile.
La Difesa rischia, allora, di diventare un fine in sé e, non più, uno strumento al servizio di una civiltà.
In un contesto strategico multipolare, la vera superiorità sarà detenuta da chi saprà integrare capacità operativa e tenuta sistemica.
E forse, è da lì che la NATO del XXI secolo dovrebbe ripartire.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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