Yossi Cohen e il “principale ostacolo”: il ruolo di Sisi nelle strategie israeliane

Di Chiara Cavalieri*

TEL AVIV. L’ex capo del Mossad Yossi Cohen, figura centrale della sicurezza israeliana negli ultimi vent’anni, ha definito il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi come “il principale ostacolo” ai progetti israeliani sulla Striscia di Gaza. Le dichiarazioni sono emerse durante la presentazione del suo nuovo libro The Sword of Freedom, davanti a circa 450 persone, e rilanciate dal sito israeliano hm-news.

L’ex capo del Mossad Yossi Cohen

Il piano sul Sinai e il rifiuto egiziano

Cohen ha rivelato che, già dal 2014, aveva avanzato l’idea di trasferire al Mossad la gestione del dossier Gaza, sebbene l’agenzia non si occupi tradizionalmente di Cisgiordania e Striscia. Parallelamente, sono stati discussi con l’Egitto piani per il trasferimento temporaneo dei civili di Gaza nel Sinai durante le operazioni militari israeliane.

II Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi

Il Presidente al-Sisi, però, ha respinto con fermezza qualsiasi proposta del genere.

Per Cohen, proprio Sisi si configura come il “principale ostacolo” a un disegno che Israele considera giustificato da logiche demografiche (la popolazione di Gaza rappresenterebbe meno del 2% di quella egiziana), ma che Il Cairo rifiuta come una violazione della sovranità nazionale e una minaccia all’identità dello Stato.

Normalizzazione con l’Arabia Saudita

Un capitolo importante del libro riguarda la normalizzazione con Riad. Cohen racconta di un colloquio diretto con Mohammed bin Salman, durante il quale il principe ereditario avrebbe liquidato la questione palestinese con parole sorprendenti: “A me non importa, e a te?”.

The Sword of Freedom ( la spada della libertà) di Yoshi Cohen

Tuttavia, Cohen spiega che un accordo Israele–Arabia Saudita resta vincolato a un’intesa preliminare tra Washington e Riad, con garanzie di sicurezza per il regno, rendendo la normalizzazione con Israele subordinata a un più ampio quadro strategico con gli Stati Uniti.

Qatar: condanna e necessità

L’ex capo del Mossad non risparmia critiche al Qatar, accusando Al Jazeera di “orribile incitamento contro Israele”.

Eppure, riconosce che Doha resta indispensabile come principale canale di comunicazione con Hamas e come  mediatore credibile nella liberazione dei prigionieri.

Un paradosso che rivela la natura ambivalente dei rapporti israelo-qatarioti.

Le preoccupazioni dopo Doha e il vertice arabo-islamico

Alle rivelazioni di Cohen si aggiunge il contesto delle tensioni regionali successive al tentato assassinio dei leader di Hamas a Doha e al vertice arabo-islamico di emergenza.

Un funzionario israeliano anonimo ha sottolineato che, nonostante le dichiarazioni pubbliche di condanna, i Paesi arabi e la Lega araba sanno che qualsiasi influenza effettiva sulla Striscia di Gaza richiede il mantenimento dei legami di sicurezza con Israele.

Un rapporto della Israeli Broadcasting Corporation, Kan 11, intitolato “I timori si sono avverati?”, conferma che le relazioni bilaterali con Egitto, Giordania ed Emirati Arabi Uniti non sono state compromesse dall’incidente in Qatar.

Al contrario, il coordinamento della sicurezza, in particolare con Egitto e Giordania, resta pienamente operativo.

Il vertice di Doha, pur caratterizzato da condanne accese, ha rivelato divisioni tra gli Stati membri: l’Iran ha guidato la linea dura, mentre Emirati e Bahrein – vincolati dagli Accordi di Abramo – hanno frenato su eventuali escalation.

Il primo ministro malese Anwar Ibrahim ha criticato l’inazione, affermando: “Le parole non porranno fine alla violenza e le dichiarazioni non libereranno la Palestina. Devono essere adottate misure punitive concrete”.

La dichiarazione finale si è limitata a un appello vago ad “adottare misure legali ed efficaci per fermare l’aggressione israeliana”, giudicato insufficiente persino dall’opinione pubblica araba, che ha definito il vertice “patetico” e un’“occasione persa”.

Messaggio chiave di Cohen

In The Sword of Freedom Cohen riconosce, implicitamente, che Israele non può affidarsi esclusivamente alla forza militare.

I fallimenti del 7 ottobre 2023 hanno dimostrato che la sicurezza richiede anche dialogo con i vicini arabi, persino con gli avversari.

Il libro mette in luce due contraddizioni profonde: da un lato la convinzione israeliana che calcoli demografici o logiche di sicurezza possano persuadere l’Egitto; dall’altro, la realtà egiziana di Sisi, per il quale sovranità, identità e costanti nazionali restano linee rosse non negoziabili.

Cohen consegna così un’analisi che, al di là delle intenzioni, rivela i limiti della visione israeliana: un approccio tecnocratico e securitario incapace di comprendere la profondità politica e simbolica delle posizioni arabe.

Parallelamente, le dinamiche emerse dopo il vertice di Doha dimostrano che, dietro le dichiarazioni pubbliche, la cooperazione con Israele resta vitale per molti Paesi arabi.

In Medio Oriente, dunque, la geopolitica continua a muoversi tra fermezza dei principi e pragmatismo degli interessi, in un equilibrio instabile ma tutt’altro che secondario.

*L’autrice è presidente della associazione Italo-Egiziana Eridanus e vicepresidente del Centro Studi UCOI-UCOIM. 

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