Rapporto Esercito 2018: altro che dual use e resilience…

Di Vincenzo Santo*

Roma. Ho letto il recente “Rapporto Esercito 2018”.

L’ennesimo grido di allarme, per chi sa leggere, che la Forza Armata “porge” alle orecchie dei nostri politici. Ahimè, temo ormai sorde. Se ne trae, pur con il garbo istituzionale con cui il documento si presenta, una situazione che è di disagio, al di là delle polemiche di vario ordine che si potrebbero ancora alimentare sulle buche delle strade romane, sulla guardianìa ai campi Rom oppure sull’interminabile e costosissima, non solo dal punto di vista pecuniario, “Strade Sicure”. Sempre che chi legge voglia anche capire.

Una missione sulla diga di Mosul

Ho già scritto mesi fa sull’argomento, chiedendomi che tipo di Esercito si voglia avere. Ci ritorno, approfittando di questa uscita.

Correttamente, il documento parte dall’esame del personale, per poi toccare altri aspetti, dall’organizzazione all’addestramento sino agli equipaggiamenti. Un quadro chiaro, come chiara fu l’audizione che tenne pochi mesi fa l’attuale Capo di Stato Maggiore, Generale di Corpo d’Armata Salvatore Farina, alle Commissioni Difesa e della quale, ripeto, ho già scritto.

Pochi sono gli aspetti sui quali questa volta mi soffermerò brevemente: personale, addestramento e ammodernamento. Ma secondo un mio ordine.

Tanto per cominciare, voglio rimarcare che per un Esercito di professionisti le unità devono essere stanziate dove esistono aree addestrative e poligoni che consentano loro di condurre attività addestrative ed esercitative ad ampio respiro.

Gli “antichi” direbbero: per non meno del livello di gruppo tattico su base battaglione. E dove non esistono queste strutture vadano create o “recuperate”. Oppure si vada anche all’estero. Quindi occorrono risorse! Di certo, il solo farsi venire l’idea di trasferire i militari dove sono le famiglie di origine significa non avere capito il ruolo dell’istituzione militare o disinteressarsene. E oggi il disinteresse sta anche nel vedere con quanto ritardo un decreto missioni debba vedere la luce.

E la simulazione in addestramento va senz’altro bene, ma niente può sostituire il confrontarsi con il terreno, magari su terreni di volta in volta differenti, dove l’immaginazione e la creatività dei comandanti, vanificando la noia della necessaria ripetitività, costituiscono il sale di un buon addestramento. Ma a tutto c’è un limite.

E sul personale sarebbe ora di riflettere seriamente se determinati irrinunciabili requisiti psico-fisici debbano essere fatti passare per pratiche persecutorie oppure se determinate “libertà civili” siano appropriate per salvaguardare l’integrità e la coesione dei reparti.

In ambito Difesa, siamo arrivati al punto che Marina e Aeronautica litigano per chi debba avere determinati velivoli Short Takeoff Vertical Landing (STOVL), il cui costo unitario si aggira mediamente sui 100 milioni di euro. É segno che da tempo nell’area Difesa la confusione regna sovrana. Questa è la sensazione di un cittadino che paga le tasse. Assegnando questi velivoli solo alla Marina si risparmierebbero più di 800 milioni, una cifra che all’Esercito farebbe molto comodo. Tanto per cominciare.

Un F35-B in volo

E questo governo c’ha messo il carico da cinquanta, anche solo andando a filosofeggiare con i concetti astrusi quali il duplice uso e la resilienza (brutte traduzioni dall’inglese). Come se il dual use non fosse già nel DNA del soldato e quello di resilience non lo avessimo incarnato dopo decenni di pseudo-trasformazioni. Credetemi, di resilience ne abbiano da vendere e del dual use siamo già provati professionisti.

Ci si rende conto che non si può più andare avanti con “atti di indirizzo” come quello seguente, riportato, con altri, in un recentissimo documento del Ministero (1), e che per quanto attiene alla componente terrestre, recita questa Priorità Politica (PP2): “… disporre di una Componente Terrestre bilanciata e flessibile, orientata ad operare nelle aree di prioritario intervento, in ogni tipo di ambiente e lungo l’intero spettro delle operazioni. Le forze terrestri dovranno mantenere una giusta proporzione tra forze leggere, medie e pesanti, che siano rapidamente proiettabili, modernamente armate ed equipaggiate e con un’adeguata capacità di comando e controllo, di supporto logistico nonché di ingaggio di precisione. In particolare, al fine di colmare il gap tecnologico dello Strumento terrestre, si prevedono principalmente interventi mirati all’ammodernamento della componente pesante, al potenziamento del segmento medio e allo sviluppo di programmi tesi all’incremento dei livelli di protezione delle forze …”.

Potrei stare ore a ironizzare sulle varie espressioni utilizzate nel passaggio precedente. Già il titolo la dice lunga sulla qualità di questo documento che tra l’altro si prefigge di programmare la performance, cioè (dall’inglese) l’atto di operare con successo o meno, che è cosa non assolutamente programmabile. Il massimo dell’orgasmo concettuale.

Ma in che lingua parliamo? Ci siamo ormai asserviti a un linguaggio che descrive concetti inattuabili, genericamente vacui, quindi inutili.

Tuttavia, un barlume di luce c’è, in quello stesso documento si parla anche di potenziamento e ammodernamento, ed è già qualcosa. Ma di quanto sarebbe questo qualcosa? Risposta difficile.

Sono anni che l’Esercito è impiegato in Patria e all’estero ininterrottamente e l’usura si sente ormai da un pezzo con un turnover che riguarda uomini, materiali e mezzi molto impegnativo. Le scarse risorse compromettono l’ormai inderogabile urgenza di ammodernare, per un comparto le cui necessità, purtroppo, confrontate con quelle più lucrose di Marina e Aeronautica, fanno meno gola.

Oggi l’Esercito versa in uno stato di sofferenza causato da anni di prolungato ipo-finanziamento, da cui deriva una posizione di arretratezza tecnologica tale da porre a rischio l’interoperabilità con le forze terrestri dei paesi alleati e con le stesse Forze Armate consorelle”.

Appare urgente che da parte governativa si prenda seriamente in considerazione la necessità di prendersi a cuore il settore. Nella sua ultima audizione dinanzi alle Commissioni Difesa, il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito sottolineava di aver “… chiesto in sede interforze che la quasi totalità delle risorse di investimento che dovrebbero essere disponibili nel breve termine sul Bilancio Ordinario e sul Fondo Investimenti – ovvero 5 miliardi di euro nei prossimi 5/6 anni – siano destinate all’Esercito … se si vuole dare allo strumento militare terrestre lo stesso impulso ricevuto dalle componenti Marina e Aeronautica …”. Tutto sommato, colmare tale divario prestazionale deve essere ritenuto un requisito urgentissimo, qualificante e abilitante per l’intera Difesa. Quando per esempio si parla di “Sistema lndividuale di Combattimento/Soldato Sicuro” se ne beneficiano tutti in ambito Difesa, non solo l’Esercito.

Ma è il valore aggiunto che possono dare linee di mezzi, carri armati e velivoli allo stato dell’arte che può garantire un vantaggio contro un ipotetico avversario, in un moderno modo di condurre la guerra, e fornire al combattente la convinzione di essere al centro dell’attenzione del Paese, potendo contare sul meglio per sopravvivere sul campo e potere quindi assolvere al compito assegnato. E sentirsi importante.

Certo è che se l’aspirazione è quella di riempire le buche sulle strade romane, tutto questo comunque non serve. Bastano i 255 milioni assegnati nel 2018 per l’esercizio.

E se invece fosse guerra? Se mai ci si dovessimo trovare davvero? Non parlo del fantomatico 2% preteso da Trump e al quale tutti vanno dietro senza chiedersi il perché. Le spese vanno commisurate a requisiti operativi che scaturiscono da ipotesi di impiego, più o meno immediate, sulle quali incide anche la necessità di essere interoperabili con gli Alleati, questo sia chiaro. Quindi, una cosa è non eccedere in spese senza un supposto operativo, altra cosa è ammodernare lo strumento, adeguandolo alle sfide di potenziali situazioni conflittuali condotti in modo moderno per le quali pur mi risulta ci esercitiamo. La guerra, piaccia o no questo termine, è sempre la stessa nella natura, cambia semmai nel carattere che a sua volta è sensibile alla civilizzazione, cioè alla modernità crescente.

Altra cosa, infine, è costringere i comandanti a tutti i livelli a esprimersi in encomiabili ma sovente infruttuosi salti mortali per tenere i parchi in efficienza. E ciascun cittadino dovrebbe seriamente preoccuparsi osservando i non esaltanti livelli di efficienza denunciati nel rapporto e riportati qui in figura. E forse oggi, al momento in cui scrivo, sono financo peggiori.

Una scheda sui livelli di efficienza dei mezzi

Ed è un bel problema. Ripeto, se l’aspirazione è quella di riempire le buche sulle strade romane, tutto questo comunque non serve. Bastano i 255 milioni assegnati nel 2018 per l’esercizio.

Pertanto, mi chiedo perché mai partecipiamo alle esercitazioni NATO – che non mi risulta prevedano fasi complesse volte a rinnovare manti stradali o presidiare campi di Rom – se poi non si fa nulla o si fa pochissimo per stare al passo con gli altri, ovvero per mettersi per tempo in condizione di fronteggiare adeguatamente eventuali impegni in cui potremmo trovarci, e magari con poco preavviso, scontrandoci con forze più moderne in equipaggiamento e tattiche, ben più attrezzate del solo fatto “ibrido”? Uno dei concetti, questo, dietro al quale stiamo consumando le nostre capacità di pensiero. Senza senso!

Certo, non deve essere cosa facile dirigere un organismo di tale portata, l’Esercito, alla luce dell’evidente per me indifferenza politica che sa solo correre dietro con pedante e pervicace attenzione a concetti, come detto, vacui quali “duplice uso” – mi raccomando che sia sistemico – e “resilienza” elevati all’onore di meritarsi una vera e propria pubblicazione (2).

Due idee che pongono la necessità di “… una revisione del concetto stesso di Difesa …” e “… ottenere uno strumento militare che sia capace di meglio integrarsi con la componente civile, per compiti sia militari sia non militari a supporto della collettività e quale contributo alla resilienza nazionale …”. Ma non lo facciamo di già?

Il Presidente della nostra Repubblica, mi chiedo, è a conoscenza di tutto questo? Nel suo ultimo Consiglio Supremo se n’è parlato? Sono convinto che il suo Consigliere dovrebbe fargli leggere questi documenti cui ho fatto cenno per fargli comprendere dove si stia andando.

Io ho ormai maturato la spiacevole convinzione che l’orientamento sia decisamente polarizzato verso la sola quarta missione delle Forze Armate, cioè quella che sancisce il “… concorso alla salvaguardia delle libere istituzioni e svolgimento di compiti specifici in circostanze di pubblica calamità ed in altri casi di straordinaria necessità ed urgenza …” e si stia andando verso di essa, omettendo però due specifiche fondamentali, quelle della straordinaria necessità e dell’urgenza. Se così fosse, davvero abbiamo bisogno di tanti oppure solo professionisti?

E, a proposito di professionisti, come ha scritto recentemente qualcuno su altra testata, “… il termine professionista è ormai passato nel gergo comune per definire il militare …” senza, dico io, tenere in considerazione il “sistema soldato” che va ben oltre la singola figura e che ne dovrebbe caratterizzare la “diversità” rispetto ad altre categorie. Una diversità che postula anche doverose rinunce.

Ma questo i nostri politici non lo hanno mai voluto capire. E poca sensibilità dimostrano nei confronti di un comparto molto complesso.

Così, per esempio non è dato sapere che cosa il governo abbia opposto nel dibattimento in sede di Corte Costituzionale, per evitare l’istituzione dei sindacati in ambito Forze Armate. A richiesta, è stato risposto formalmente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri come segue: “… La richiesta non può essere accolta, avendo ad oggetto atti defensionali sottratti all’accesso ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), del DPCM 26 gennaio 1996, n. 200 (Regolamento recante norme per la disciplina di categorie di documenti formati o comunque rientranti nell’ambito delle attribuzioni dell’Avvocatura dello Stato sottratti al diritto di accesso)”.

Mi verrebbe da pensare che non sia mai stato prodotto nulla per contrastare questa deriva.

Ma un altro provvedimento mi dà conferma della scarsa sensibilità – o della scarsa convinzione – verso il comparto, cioè quello di aver voluto promuovere al rango di Maresciallo moltissimi Volontari in Servizio Permanente semplicemente superando un test tutto sommato facilmente abbordabile – mi è stato detto.

Una sorta di sanatoria qualcuno ha commentato. Quel che è peggio, tuttavia, un concorso al quale si sono presentati concorrenti con evidenti lacune sull’uso dell’uniforme alcuni, e altri, temo in gran numero, la cui sagoma non poteva che far generare grandi dubbi sulle loro capacità fisiche e, quindi, sul loro rispetto dei requisiti.

Questi comportamenti da soli la dicono lunga sui principi che io credo si stiano incuneando nelle coscienze dei nostri professionisti.

Ma il ministro, per equità con analoghi concorsi in altre Forze Armate, dove probabilmente tali requisiti potrebbero avere minore importanza operativa, aveva decretato che essi dovessero essere lasciati da parte per il momento, almeno per questo concorso. Una decisione di quelle che fanno tremare vene e polsi, ma che danno il segno del collasso in termini di valori e principi che sta affliggendo la Difesa. Ripeto, parere di un cittadino che paga le tasse.

Ecco, l’Esercito non ha bisogno di tutto questo.

Si avvicina il 4 maggio, festa dell’Esercito. Per la circostanza, oltre a festeggiare, auspico che non solo i rappresentanti delle Commissioni Difesa leggano questo Rapporto Esercito 2018, e pongano la loro attenzione anche sui numeri e vadano un po’ oltre le eleganti parole, ma che lo leggano tutti, dal Presidente della Repubblica al Governo e agli altri in Parlamento.

Spero si convincano di queste dolorose sfide che incidono tanto sull’immediato quanto nel medio e lungo termine e, pertanto, si rendano conto di come sia necessario investire ora per disporre, quando potrà essere necessario un domani, di uno strumento adeguato agli eventi da fronteggiare e per i quali già ci si addestra e ci si esercita, oggi con sacrifici inimmaginabili. A meno che non si preferisca, come sempre fatto, di investire dopo che ci sono stati i primi funerali.

Come diceva un mio vecchio comandante “prevedere è potere”, il resto è ozio dorato! E sappiamo bene cosa dicessero i romani in proposito al volere la pace.

 ATTO DI INDIRIZZO PER L’AVVIO DEL CICLO INTEGRATO DI PROGRAMMAZIONE DELLA PERFORMANCE E DI FORMAZIONE DEL BILANCIO DI PREVISIONE PER L’E.F. 2020 E LA PROGRAMMAZIONE PLURIENNALE 2021-2022 (Edizione 2019).

“Duplice uso e Resilienza” – DOCUMENTO DI INTEGRAZIONE CONCETTUALE DELLE LINEE PROGRAMMATICHE DEL DICASTERO (Edizione 2018)

*Generale di Corpo d’Armata Esercito (Ris)

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