Afghanistan: Disagio e malumori, le uniche certezze nei negoziati per la pace

Di Daniela Lombardi

Doha. Il Presidente Ashraf Ghani è sempre più a disagio rispetto agli accordi che è chiamato a prendere con i Talebani.

Il Presidente Ghani cerca di difendere la Costituzione

In questi giorni è cominciata la seconda sessione dei negoziati intra-afghani, in cui Ghani – pur non essendo personalmente presente perché la gestione è affidata al presidente dell’Alto Concilio per la Riconciliazione nazionale, Abdullah Abdullah – manifesta tutta l’insofferenza di chi è costretto a giocare una partita che non ha scelto.

Se l’incertezza regna in merito agli accordi Talebani-Usa, quelli intra-afghani sono infatti ancora più travagliati.

L’aspetto che maggiormente frena il Governo rispetto a possibili concessioni è la richiesta degli “studenti coranici” di tornare a chiamare l’Afghanistan “Emirato islamico dell’Afghanistan”.

Già il nome, in cui la definizione di “Emirato” sostituirebbe quella di “Repubblica”, fa capire quali siano le intenzioni dei Taliban e quali sarebbero le conseguenze di una simile scelta.

Milizie Talebane

Il Presidente Ghani vuole difendere la costituzione afghana che, pur prendendo spunto dagli insegnamenti della scuola hanafita, la più moderata tra le quattro dell’Islam sunnita, ne assimila gli aspetti maggiormente compatibili con una moderna democrazia, ovvero la giurisprudenza che incoraggia l’uso della ragione e del discernimento nell’interpretazione della legge, rifuggendo al contempo l’impiego delle punizioni corporali.

Già così appaiono forti le differenze con i Talebani che si sono fatti contaminare dalle ideologie deobandi (pur aderendo formalmente alla scuola hanafita, i deobandi se ne distaccano ben presto e si dedicano a una lettura fondamentalista delle Scritture) e i risultati si sono visti già, quando hanno imposto all’Afghanistan il loro Emirato fino al 2001, con le gravi violazioni dei diritti umani e in particolare delle donne che ben si conoscono.

Insomma, ciò che teme il Governo e che del resto temono anche gli osservatori internazionali, è il ritorno al periodo dei Talebani al potere e il successivo tentativo di mettere mano alla Costituzione. I punti di “rottura” col Governo sono anche altri.

Se l’accordo con gli Usa prevede il rilascio di 5 mila prigionieri Talebani, Ghani ne ha via via rilasciato un numero inferiore e, tra l’altro, pure le loro identità non erano quelle indicate dai portavoce del movimento.

Insomma, il Governo ha liberato chi riteneva meno pericoloso e ciò ha innervosito non poco la parte avversa.

D’altro canto i Taliban, non hanno mai rispettato quella che era la “contropartita” della liberazione dei guerriglieri e cioè il “cessate il fuoco”.

Anzi, da quando sono iniziate le trattative, la violenza e gli spargimenti di sangue sono aumentati notevolmente.

Nel corso dei difficili colloqui, in definitiva, si stanno affrontando questioni che gli Usa non hanno tenuto in considerazione, impegnati come sono a focalizzare i loro accordi sul ritiro o meno delle truppe.

La primavera del 2021 dovrebbe infatti, in teoria, segnare la svolta per la guerra in Afghanistan, con il ritiro dei soldati americani in cambio del ripudio, da parte dei Talebani, degli storici legami con Al Qaeda.

Militanti di Al Qaeda

Sarà ancora così, ora che al comando degli Usa c’è Biden? Il solco tracciato da Trump verrà seguito o si assisterà ad un’inversione di rotta?

I Talebani, che si erano posti in attesa di conoscere i risultati delle votazioni per capire se l’interlocutore sarebbe cambiato e se l’agenda già programmata a Doha potesse avere seguito, continuano ad aspettare, consapevoli che al momento Biden è alle prese con difficili situazioni interne, come ha dimostrato la rivolta dei sostenitori di Trump all’atto della proclamazione del nuovo presidente.

I patti con Trump si basavano su pochi punti ma ben precisi. I talebani si impegnavano nel “cessate il fuoco” e nel controterrorismo che implica la rottura con Al Qaeda.

In cambio ottenevano non poco: la liberazione di prigionieri talebani da parte del governo afghano (sulla quale si è già detto), il ritiro delle truppe Usa che si riservavano la possibilità di rimanere con un contingente ridotto a garanzia che i patti venissero rispettati e, soprattutto, la concessione di poter tornare in gioco come forza politica, eleggibile in Parlamento.

Come già detto, quest’ultimo aspetto è motivo di particolare inquietudine per la parte afghana e turba i sonni del Presidente Ashraf Ghani.

Ora anche lui attende di capire cosa farà Biden in merito ai patti avviati da Trump, ma la speranza non proprio segreta è quella che vengano rivisti almeno in parte. Proprio questa differenza di vedute tra gli Usa di Trump e il Governo afghano aveva creato una storica presa di posizione dei talebani, che si erano spinti a dichiarare che ormai il jihad, col suo carico di attentati e offensive, sarebbe stato diretto solo contro il governo afghano e non più conto gli americani, considerati a questo punto “amici”.

Le pretese dei Talebani e l’insofferenza del governo afghano, escluso dalle prime fasi delle trattative e richiamato in ballo solo poco prima delle elezioni americane, quando era un po’ tardi per essere determinante, sono quello che Biden eredita della politica americana in Afghanistan. Tutti gli occhi sono puntati su ciò che intenderà fare nel territorio che rappresenta già da tempo, per gli Usa, una sconfitta pari a quella del Vietnam.

Disfatta che si cerca di occultare con un’uscita di scena il più possibile dignitosa. Finora l’Amministrazione Trump ha rispettato i patti di Doha.

La storica firma degli accordi con Talebani

Le truppe erano 13 mila a febbraio scorso ed entro fine gennaio verranno probabilmente ridotte a 2.500: l’accordo del Qatar prevede il ritiro completo entro il 31 aprile 2021.

Ma Biden sarà d’accordo a proseguire su questa strada? Il governo afghano cerca di spingere per il mantenimento di una forza Usa di contro-terrorismo in Afghanistan.

Altri esponenti politici, come il vice-presidente Sarwar Danesh, hanno poi provocatoriamente ricordato che il governo non ha sottoscritto l’accordo di Doha tra Usa e Talebani e “non ha responsabilità e obblighi giuridici”.

Di tutti questi aspetti Biden dovrà tenere conto quando riprenderà in mano il dossier Afghanistan. In ogni caso, la violenza da parte degli insurgents non è diminuita ma, anzi, è cresciuta a danno dei civili e militari afghani.

Di certo i Talebani si mostrano sicuri di sé e determinati a non arretrare di un centimetro rispetto agli accordi. Ogni tanto le esplosioni che devastano Kabul e le diverse province, sembrano un monito a chi voglia modificare i patti.

Una parte del movimento -che come si sa non è unitario ma presenta diverse “anime”- sembra addirittura voler boicottare gli accordi e riportare con la violenza il Quartier generale talebano in Afghanistan (dal Pakistan), una volta che le truppe internazionali dovessero andare via.

Certamente la recente visita del portavoce talebano alla componente pakistana del movimento, col sibillino incoraggiamento “nessuno dei nostri sforzi andrà perduto”, getta un’ombra inquietante tanto sull’ipotesi del successo dell’accordo, quanto su quella contraria.

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