Di Daniela Lombardi
Kabul. Piangono, chiamano la loro mamma, ma alla fine si arrendono perché conoscono il destino riservato a quasi tutti i ragazzini afghani.
Il loro volto diventa quello di chi sa che già amici, cugini, fratelli, sono un giorno scomparsi, portati via dai talebani, per non fare più ritorno al villaggio.
Le immagini che arrivano dal confine tra Pakistan e Afghanistan, diffuse proprio oggi da giornalisti di Radio Azadi https://www.azadiradio.com,) sono crude, senza fronzoli.
Un gruppo di venticinque ragazzini, prelevati da villaggi della provincia di Ghazni, viene spinto, da trafficanti di uomini legati ai talebani, in una direzione che i jihadisti percorrono spesso. E’ la strada che porta a Quetta, città del Pakistan dove proliferano i campi di addestramento per gli “shahid”, i martiri del Jihad, quelli che l’occidente definisce “kamikaze”.
Tra loro, come riferito dal governatore di Ghazni, Abdul Karim Mateen, c’era anche un bimbo di quattro anni. Le età degli altri andavano fino a massimo 14. I ragazzi, almeno quelli del gruppo specifico, sono stati “intercettati” e salvati, su segnalazione di alcune organizzazioni umanitarie, dalla Polizia locale e dall’Esercito regolare afghano, spinto sempre più verso il contrasto agli estremisti dalla politica del presidente Ashraf Ghani. Ghani ha fatto a gran voce proclami sulla lotta senza quartiere che verrà riservata ai “nemici dell’Afghanistan”, intendendo con la definizione tutti coloro i quali non si allontaneranno da talebani e Daesh per stringere accordi con il Governo.
I ragazzini del video, diffuso anche sui social, sono stati salvati in extremis, dopo essere stati caricati su due furgoni che dovevano portarli a Quetta. I talebani avevano già alterato la loro psiche con sostanze allucinogene per renderli più docili e loro apparivano storditi, confusi, incapaci di rispondere a qualsiasi domanda. Proprio per l’impossibilità di avere notizie da loro, i bambini sono stati messi in un orfanotrofio e si è alla ricerca delle famiglie.
Una storia quasi a lieto fine, almeno finché durerà, poiché i taliban potrebbero tornare in qualunque momento a minacciare questi piccoli di morte e ritorsioni varie, se nessuno continuerà a proteggerli. Altre storie, invece, non hanno la stessa conclusione. Così, a quel pianto disperato non segue la liberazione, ma la deportazione nei campi in cui queste piccole vittime impareranno a sparare e verrà loro spiegato il metodo migliore per farsi esplodere in mezzo ad un mercato o per piazzare un ordigno esplosivo improvvisato lungo una strada, provocando il maggior numero possibile di morti.
Questo percorso infernale lo conosce bene Gul (nome di fantasia), che in un campo ha dovuto vivere per tre mesi, prima che la famiglia riuscisse a trovare il modo per pagare agli aguzzini una somma per il suo riscatto. E’ questo un metodo che spesso, infatti, viene accettato dai talebani per lasciare libero il ragazzo e finanziare il jihad globale. “Quando ero lì (nel campo ndr) – spiega – mi ripetevano ogni giorno che dovevo ammazzare gli americani. Io ho imparato a pensare che tutti quelli che indossano una divisa da soldato sono americani. Distinguevo solo i soldati afghani dagli altri, perché hanno la nostra bandiera, ma tanto i talebani dicevano che dovevo ammazzare anche loro perché sono dei traditori, amici dell’America”.
Gul ora vive in Europa e soffre a ricordare quei momenti. “Mi dicevano che un giorno avrei indossato una cintura e loro mi avrebbero ordinato dove andare a farmi esplodere. Mi ripetevano che sarebbe stato un giorno bellissimo, che tutto l’Afghanistan mi sarebbe stato grato e che avrebbero riempito di regali e soldi la mia famiglia per sempre”. Per fortuna, quei soldi con i quali i talebani comprano e vendono la vita altrui, la famiglia di Gul è riuscita a racimolarli, tra molte difficoltà, per tentare di contrattare con i suoi rapitori. “Loro non sempre vogliono i soldi – aggiunge il ragazzo -. Se il denaro offerto è davvero tanto, ci pensano. Ma altre volte, quando c’è un ragazzo che obbedisce sempre ai loro ordini e che loro definiscono un buon combattente, preferiscono tenerlo. Io non ero molto obbediente, mi ribellavo spesso e qualche volta mi hanno preso a botte, minacciato, pure drogato per farmi stare buono”.
Oggi Gul e la sua famiglia, come si diceva, sono lontani dall’Afghanistan. Ma le immagini di bambini portati via con la forza per inseguire un destino buio e crudele sono ordinaria amministrazione, in Afghanistan. Anche quando non c’è nessuno a mandarle in onda. Anche quando non c’è un liberatore a determinare un lieto fine per queste orribili storie.