Attacco a Siria, considerazioni tattiche per i Tomahawk americani

Di Denise Serangelo*

Gli Stati Uniti hanno deciso, in linea con le prime forti dichiarazioni del presidente Donald Trump, di reagire militarmente agli attacchi chimici di martedì scorso condotti (presumibilmente) dal presidente Assad in Siria contro ribelli e civili nella città di Idil.
Gli attacchi, condotti con gas Sarin, hanno ucciso una novantina di persone intossicandone qualche centinaia.
La dinamica dell’attacco rimane poco chiara, una situazione che si pensava potesse cristallizzarsi dopo qualche giorno ma che in realtà è rimasta avvolta da una nebbia piuttosto fitta.
Le dichiarazioni di Russia e Siria, certo non aiutano a mettere le cose in chiaro, tutte le versioni proposte, compresa quella ufficiale del Cremlino che vuole colpita per sbaglio una fabbrica di pr
odotti chimici da parte dell’aviazione siriana, non sono prive di dubbi tecnici.

Una partita importante in questo campo nebuloso l’ha giocata unilateralmente la figura di Donald Trump, che a discapito di quanto dichiarato in campagna elettorale, ha perso il suo rinomato nazionalismo per riconquistare la posizione, abbandonata dal suo predecessore Obama, di gendarme e difensore delle popolazioni in difficoltà.
Un attacco chimico condotto con agenti nervini altamente letali, sembra un pretesto tattico ideale per accusare il regime siriano di crimini contro l’umanità che hanno spinto il presidente ad intervenire nella mattinata del 7 aprile.

Gli Usa hanno pianificato, non con molta cura, considerate le tempistiche tra dichiarazione di attacco e messa in opera della stessa, un’azione militare contro il regime di Assad iniziata alle 20.30 ora americana le 2,30 nella regione del Mediterraneo.

Le attività militari piuttosto intense sono partite da due navi da guerra americane di stanza nel Mediterraneo, la USS Ross e la USS Porter da cui sono stati sparati ben 59 missili Tomahawk di cui solo pochi hanno raggiunto l’obbiettivo.
I missili da crociera, avevano come obiettivo la base siriana di Al Shayrat, da dove, secondo l’intelligence americana, sarebbero partiti i jet di Bashar al Assad carichi di armi chimiche che hanno provocato le vittime del 4 aprile. 

Questa base è considerata la seconda più grande base aerea della Siria, dove si trovano velivoli Sukhoi-22, Sukhoi-24 e Mig-23. Fino ad oggi non vi sono state segnalazioni di uso di armi chimiche nella base e nemmeno vi sono mai stati report d’intelligence che potessero far pensare ad un attacco dall’alto a carattere chimico.

Al di là del mero sconcerto provocato da un attacco inaspettato da parte delle forze armate statunitensi, questo evento è da analizzarsi con cura in diversi suoi profili.

Il primis il profilo militare.
È da comprendere come la scelta di usare un missile Tomahawk per condurre l’attacco sia stata l’espressione di una linea d’intervento che potremmo definire ‘soft’ o semplicemente leggera.

Nel corso della giornata del 6 aprile, era trapelata notizia che il Pentagono stesse pianificando un intervento militare in Siria. L’opzione scelta da Trump, ovvero l’attacco mirato da una portaerei con missili da crociera, è stata la più restrittiva (o soft come la si è definita prima) tra le scelte che sono state poste sul tavolo dello Studio Ovale dal dal segretario alla Difesa, James Mattis.
Il Pentagono, ma anche diversi analisi, temevano che l’uso di aerei da combattimento avrebbe fatto scattare la risposta della contraerea e dell’aviazione russa.
Scenario di previsione assolutamente plausibile e concreto, considerato che la Siria, sino a completa destituzione del presidente Assad, è ancora uno Stato Sovrano il cui spazio aereo non può essere violato senza previa autorizzazione dei vertici politici e militari del Paese.

Il presidente Trump è intervenuto con un’operazione unilaterale, non solo perché non è stata chiesta né coinvolta alcuna aviazione alleata, ma soprattutto perché le procedure sono state avviato sena senza chiedere l’autorizzazione del Congresso, come consentono di fare le leggi approvate dopo l’11 settembre.

Altra considerazione è da farsi sul missile Tomahawk che rientra nella categoria dei missili da crociera (o missili cruise). Dopo il lancio effettuato mediante un razzo sui lati del Tomahawk si aprono delle alette che ne permettono la stabilizzazione in traiettoria.
Mentre il Tomahawk sfreccia a ottocento chilometri l’ora, con una gittata massima di 2500km coperti, il suo sistema di guida lo mantiene sul bersaglio con l’ausilio di un radar-altimetro. Seguendo una traiettoria computerizzata, raggiunge rapidamente il suo primo punto di navigazione, da qui il TERCOM (sistema di navigazione) di bordo lo dirige da un punto all’altro, con strettissime virate, brusche impennate e vertiginose picchiate per evitare di essere intercettato dalle batterie contraeree nemiche.
Il Tomahawk è un missile che ha una precisione calcolata in modo complesso e i suoi obbiettivi sono raggiunti con una dispersione del tiro non troppo importante, ne consegue che se su 60 missili lanciati solo quattro hanno raggiunto l’obbiettivo, andando a colpire punti non vitali della base siriana le considerazioni da fare sono diverse.
Esiste una possibilità che questa dimostrazione di forza, in termine tecnico show the forces, serva a mostrare la propria forza militare per impressionare il nemico al fine di modificarne il comportamento tattico o politico.
Nelle componenti militari moderne si usa molto questa tecnica che per quanto dispendiosa, è molto efficace.

Trump ha così dimostrato che sarà intransigente con coloro che mettono a repentaglio le vite della popolazione civile soprattutto con attacchi chimici o biologici, che rappresentano a livello militare, la massima espressione della volontà di sottomettere il nemico.

A livello strategico le riflessioni da farsi sono diverse, una tra tutte se esistevano azioni diverse da quelle intraprese dall’amministrazione Trump per ripagare il presunto gesto di Assad.

Seguendo quando affermato in campagna elettorale il presidente americano avrebbe dovuto seguire una linea distensiva nei confronti della politica estera verso la Russia di Vladimir Putin situazione che con il bombardamento repentino di una base dove si trovava anche personale militare russo è stata accantonata.
Seguendo le sue classiche linee di intervento i vertici americani hanno avvisato dell’imminente attacco, l’aviazione russa che ha potuto mobilitare le sue forze presenti al fine di evitare perdite.

La linea politica comune avrebbe sicuramente giovato ad una maggior trasparenza d’intenti con la Russia e probabilmente avrebbe dimostrato ad Assad che gli attacchi non convenzionali sono da ritenersi esclusi per un futuro al potere che preveda anche la sua figura nello scenario siriano.
Le attività militari unilaterali, come già accaduto in passato, tendono a fossilizzare le posizioni strategiche delle potenze coinvolte aumentando il circolo di violenza nel Paese.

Le dichiarazioni russe che sostengono il bombardamento di una fabbrica di prodotti chimici erroneamente colpita è già una violazione rilevante degli accordi di non proliferazione che Assad firmò con il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, una situazione che avrebbe portato ad un possibile accordo congiunto per la lotta alle fazioni terroristiche comune.

Sempre sotto un profilo meramente politico è difficile leggere il rapido cambio di rotta dell’amministrazione Trump sulla figura del presidente Assad, alla luce dei fatti avvenuto il 4 aprile.
Una reazione così sentimentalista e strategicamente impopolare sarebbe dovuta scaturire da una riflessione politica e dal dialogo con altre potenze internazionali, facendo pressione perché si arrivasse ad una destituzione di Assad per violazione della Convezione di Ginevra che proibisce l’uso di armi chimiche usate con attacchi che non discriminano tra popolazione civile ed obbiettivi militari.

Violazione che perdura da diversi anni è che non ha mai scatenato le reazioni di grave indignazione a cui si è assistito in questi ultimi giorni.
La presenza o meno di civili o di fazioni terroristiche, è alla base di una disquisizione politica che si tende ad ignorare ma che dovrebbe rimanere al centro delle azioni politiche future.
La Convenzione di Ginevra e diversi altri trattati, seppur molto vaghi, concordano nel bandire l’uso di gas sia verso la popolazione civile che verso unità combattenti nemiche (che in una guerra asimmetrica sono quasi irrintracciabili, dunque ancora meno consigliato l’uso di armi chimiche), chiunque abbia applicato questo armamento si trova in aperta violazione dei regolamenti internazionali e dunque dovrebbe perseguito.

Allo stato dell’arte è tatticamente e strategicamente impopolare utilizzare lo strumento militare senza una linea politica e militare perseguita da tutte le forze schierate in Siria, soprattutto tenendo in considerazione che le prove della responsabilità di Assad sono solo in mano a coloro che per primi hanno lanciato la rappresaglia.

*Analista Militare Alpha Institute

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