Di Vincenzo Santo*
Roma. Insomma, anche il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta(1) non ha probabilmente resistito a produrre in un’audizione alle Commissioni congiunte di Difesa ed Esteri della Camera e del Senato un discreto numero di lastrine. E lo ha fatto riferendosi al contratto di governo (approccio poco elegante!) nel quale i due vice di se stessi si sarebbero impegnati a “migliorare e rendere più efficiente il settore della Difesa”.

Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta nel corso della sfilata del 2 giugno
Brutto documento. Lo dico subito. Il fatto che trattasse di linee programmatiche non ne giustifica, secondo me, la mancanza di profondità e l’eccesso di retorica.
Intanto, in ossequio alla moda dei termini che prendono piede facilmente perché assonanti con il corrispondente anglosassone (anche se la radice è latina, da resilire, saltare indietro, rimbalzare), è da sottolineare l’enfasi immaginifica posta sulla parola resilienza. Un termine veramente brutto, ma fa fashion, e che entra ora a pieno titolo nell’ambito della Difesa. Bisognerebbe capire se nell’accezione di capacità di ripresa dopo una deformazione oppure di resistenza alle intemperie. E di deformazioni e intemperie le nostre Forze Armate ne hanno subite negli anni molte, pertanto di resilienza ne vantano una grande expertise!
Evidentemente, l’influsso delle “moderne” lezioni condotte dai docenti presso i nostri istituti di formazione di più alto livello ha marcato il pensiero delle nuove generazioni di ufficiali. E il segno si vede, lasciato da chi queste righe del documento, unitamente alle slides di accompagnamento, ha veramente prodotto.
A parte la malcelata vergogna di mantenere nella Difesa la sua naturale funzione, tanto da dare dignità all’accattivante dual use, nella relazione non ho riscontrato altro se non, e non credo di sbagliare, un diligente compitino da scuola di guerra. L’elaborato redatto da un giovane e rampante ufficiale di Stato Maggiore, con il signorsì perenne nel DNA, scritto bene nella forma, ricco apparentemente di bei contenuti, soprattutto di belle foto nelle diapositive. Foto che devono incantare gli ascoltatori ma che probabilmente devono anche distrarli dalla noiosa lettura, direi metafisica, che deve averne fatta la Trenta. E lungo, troppo lungo. Chissà quanto deve essere durata questa sessione, se dopo ci sono state anche domande da parte dei parlamentari.
Passare al setaccio e commentare ogni singola riga sarebbe cosa pesante, da fare e da leggere. Ma garantisco che ce ne sarebbero di cose da dire. Mi adopero per sintetizzare il mio pensiero.
Con l’obiettivo strategico (credo) di migliorare e rendere più efficiente il settore della Difesa, sono stati recitati 7 indirizzi che andrebbero letti attraverso due filtri: la resilienza appunto, il primo, e il “duplice uso”, come anticipato, cioè militare ma non solo e, temo, non troppo.
E qui, casca la solita stucchevole retorica della necessità di cambiamento. Non che non si debba cambiare, ovvio. Ma benedetto iddio, come detto, sono secoli che lo strumento militare si adatta a tutto quello che accade e alle minacce individuate. E anche molto bene, date anche alcune schizofrenie che l’hanno investito in determinati momenti.
Si parla di minacce.
Avrei chiesto al ministro, fossi stato presente, quali e da chi sono rappresentate queste minacce. Una minaccia si definisce quando un qualcuno che abbia gli strumenti per fare del male abbia anche manifestato l’intenzione di farlo. Alcuni filosofeggiano su questo per rimarcare l’impossibilità di identificarli, ma è solo pigrizia mentale. E questo vale per tutti, anche per lo stupido lupo solitario che viva nei sobborghi di Parigi. È un’entità, detto in termini strategici, non un evento. Gli eventi non hanno intenzioni, sono solo accadimenti. Al bar possiamo dirci che minaccia pioggia, che minaccia temporale, ma in genere sappiamo che queste cose prima o poi possono accadere, e senza la volontà di alcuno. Pur considerando che comunque è la realtà che si rivela come un’emergenza laddove non si sia pensato a come fronteggiarla, in termini strategici, per minaccia si intende ciò che può materializzarsi per volontà umana, il resto sono condizioni del momento.
Quindi, caro ministro, fuori l’elenco di queste minacce, perdio! Siamo in Parlamento, non al bar! Nomi e cognomi! In un’audizione di tale livello io me ne aspetterei un elenco, non vuote parole.
Naturalmente, oramai nella narrativa “strategica” ha preso piede l’idea della minaccia ibrida che può comprende tutto. Quindi non ci si sbaglia. E aiuta ad apparire pensatori.
Come se nel passato tale ibridità non fosse mai esistita o non fosse comunque adeguata alle tecnologie e alle pazzie dei tempi. Come è stata la guerra in Vietnam? E quella di Corea? Ma è la moda che fa premio, purtroppo. L’annessione della Crimea ci ha regalato un nemico e si doveva tirar fuori un nuovo, si far per dire, concetto. Anzi, era necessario dare un nome nuovo e affascinante a un vecchio concetto.
Qui la Trenta non si è salvata, non è riuscita a resistere ai diavoli tentatori di cui probabilmente è circondata.
Credo fosse Aristotele a dire che la migliore manifestazione di intelligenza è capire quando bisogna smettere di pensare. Purtroppo non è quasi mai così. A proposito di hybrid, riporto qui, ancora una volta, cosa ha scritto tempo fa il NATO Defence College in un suo lungo documento: “… in the absence of an official and reliable definition of hybrid warfare, one can agree that the key word is indeed hybrid: the true combination and blending of various means of conflict, both regular and unconventional, dominating the physical and psychological battlefield with information and media control, using every possible means to reduce one’s exposure. This may include the necessity of deploying hard military power, with the goal of breaking an opponent’s will and eliminating the population’s support for its legal authorities”.
Ecco l’acqua calda, l’abbiamo finalmente scoperta.
Ma la pazzia cervellotica raggiunge l’apice con quanto prodotto dall’European Parliamentary Research Service che, sulla base della EU-NATO joint declaration, adottata nel luglio 2016 ai margini del Summit di Varsavia, ha precisato che “… taking into account different levels of intensity of a threat and the intentions of actors involved, it is useful to introduce a conceptual distinction between hybrid threat, hybrid conflict and hybrid war”. Pazzia pura, ma pazzia che lentamente, come una goccia d’acqua, entra nei nostri corsi di formazione lavando i pur brillanti cervelli e massificandoli sul niente.
Io denuncio l’imbecillità di queste elucubrazioni mentali. E la minaccia, ci viene detto dal ministro, non è più solo hybrid ma anche poliedrica. Signori miei, mi fa impazzire.
Sulla medesima linea si pone l’architettura del cyber, sul quale non intendo ugualmente perdermi in considerazioni se non quelle legate al fatto che, forse per un pizzico di pragmatismo andreottiano che mi influenza, quando sento parlare di cyber, mi vengono in mente le tante compagnie antivirus e di sistemi operativi, soprattutto di provenienza anglosassone. Voglio confermarlo, sia chiaro, non nego il problema ma sono preoccupato dall’enfasi che se ne fa. Eccessiva, secondo me. E spero sempre che a nessuno venga in mente di associare un attacco informatico all’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico.
Comunque, sarei seriamente interessato nel capire come passino le giornate quelli del neo-costituito CIOC (Comando Interforze per le Operazioni Cibernetiche) nazionale. Anche altri lo hanno creato, per carità, ma la curiosità rimane.
E poi, mi chiedo, ma come è mai possibile che gli hacker, quelli che penetrano le reti dei Paesi baltici o degli Stati Uniti, che rubano bitcoin in giro per il mondo, e coloro che influenzano le elezioni democratiche di chicchessia siano o russi, o nord coreani oppure iraniani? Ce l’avremo anche noi un citrullo di hacker che finalmente riesca a spegnere le luci di New York o a far eleggere un novello Trump? E che cavolo!
E poi c’è il dual use. Cioè se ho un qualcosa che ha il sapore di “per la difesa” è importante che si sappia che serve anche per altro. Cittadini, non preoccupatevi, siamo un Paese democratico e “pacifico”, come messo in apertura al documento.
Pertanto, se mi viene la voglia di comprare una bellissima portaelicotteri/portaerei, è importante che siano soldi ben spesi perché quella nave può servire a fare qualcosa di altro, che so, recuperare profughi? Io lo leggo così. E una fregata? O un F35? Cosa c’è sotto? Forse la volontà che nei fatti, la difesa non sia troppo “difesa” ma principalmente funzioni come una sorta di Organizzazioni non Governative? Supporto a tutti? In barba alla reale destinazione d’uso del soldato, ormai in via di trasformazione in operatore? E come operatore/lavoratore, degno di essere rappresentato da un bel sindacato. Finalmente, dice il ministro. Dio mio!

In Italia la questione degli F35 è sempre aperta
Purtroppo, è vero che l’essenza dell’esser soldato va via via perdendosi, e il materialismo dei nostri giorni poco spazio lascia alla spiritualità che persino trasuda dalle parole del nostro Giuramento e che traccia inequivocabilmente gli ambiti della dedizione e delle rinunce in cui si esplica il sacrificio silenzioso del vero soldato. Non migliore degli altri, solo diverso. E questa nobile diversità la stiamo massacrando.
Inoltre, mi chiedo, non è che sotto sotto esiste l’intendimento di eliminare un’organizzazione che credo sia e sia stata il fiore all’occhiello nazionale del soccorso in caso di eventi calamitosi e no, cioè la Protezione Civile? Struttura alla quale come corretto sia, le Forze Armate sono sempre state chiamate a fornire il proprio supporto?
Mi auguro di leggere male tra le righe, ma temo seriamente dove potranno portarci queste affermazioni. Del resto, se viene anche detto che “… in merito alle fasce d’età più elevate, darò invece mandato allo Stato Maggiore della Difesa affinché venga approfondita la possibilità, di impieghi in apposite unità organizzative dislocate su tutto il territorio nazionale e per esigenze riconducibili ad attività di prevenzione ed emergenza. Il progetto potrà essere realizzato utilizzando le strutture già esistenti, mediante l’introduzione di specifici elementi organizzativi appositamente strutturati e addestrati per consentire alla P.A. di usufruire delle competenze e professionalità proprie della Difesa nello svolgimento di compiti non militari e al personale militare anziano di poter essere impiegato in aderenza alle esigenze familiari…”, un pur piccolo dubbio mi viene.
Dietro la semplicissima e modernissima frase “… resilienza e duplice uso dunque, affinché la Difesa non sia considerata più solo uno strumento militare, bensì un vero e proprio Sistema: integrato, connesso e a più livelli …” cosa si nasconde? E soprattutto che cavolo vuol dire? “Integrato”, “connesso” ed a “più livelli” sono le trite e ritrite parolone utilizzate da un sistema che le necessità comunicative spinge nel buio dell’autoreferenzialità, volte a creare sensazione, fingendo di creare il nuovo ma nascondendo molto di più di quello che viene detto apertamente.
Questo è quello che io leggo.
Poi, se questa resilienza debba anche essere di vari colori, come riportato in modo ridicolo in una slide, a inquadrare un’altra bella e inutile frase: “… uno sforzo sistemico per un approccio sistemico …”, cari pochi e stanchi lettori, siamo davvero in lista di attesa per farci vedere da un buon medico.
E gli scenari di rischio? Un’altra perla.
Il rischio esiste quando, conoscendo la minaccia potenziale, ripeto in termini strategici, non si provvede a fronteggiarla o a fronteggiarla del tutto. Infatti, si dice che un qualcuno si assume il rischio di non fare o non adottare un provvedimento ovvero di ritardarlo. Quindi gli scenari di rischio ce li creiamo noi non facendo nulla, non di certo la minaccia stessa. E ancora, lo ripeto, se il ministro ci dice che “… gli scenari di rischio per il nostro paese sono diversi, da un possibile attacco armato, ad un attacco cibernetico, arrivando ad altre azioni potenzialmente destabilizzanti, senza escludere la dimensione economica …” dovrebbe, dinanzi a senatori e deputati, non solo elencare quali siano queste minacce, ma anche indicare quali obiettivi stiamo rischiando di non riuscire a proteggere e cosa si dovrebbe fare per sopperire a queste carenze. Se non rientra in una linea programmatico questo, what else?
Altrimenti il suo dire è davvero un gioco a non dire nulla di sostanziale, ma solo un indirizzo verbale per colpire l’immaginazione di chi ascolta con tante lastrine colorate e parole importanti, solo per riempire uno spazio sulla propria agenda.
Tralascio quanto riferito in merito alla tutela del personale. Dicevo anch’io, nella mia azione di comando, che dietro a ciascun soldato c’è un sistema famiglia ed è vero che per anni di questo ce ne siamo disinteressati, soprattutto perché chi da “bambino” si è fermato al caldo dei posti romani poco sa dei problemi che affronta chi invece deve trasferirsi, e ripetutamente con famiglia al seguito, in giro per l’Italia. Magari ne scriverò un’altra volta. Per ora prendiamo per buono l’impegno programmatico.
Sorvolo anche sul labirinto riguardante l’impegno dichiarato per l’industria per la difesa; impegno che, mascherato da bei concetti quali “multipurpose by design” e “whole-of-gov-approach”, si avvia purtroppo verso le trappole europee della PESCO2, dell’EUSG3, dell’EDF4 e dell’EDIDP5, in piena illusione di poter avere un piede in due staffe, la NATO e l’UE.
Immagino che i senatori e deputati saranno rimasti impressionati da queste sigle/slogan. Devono sapere i nostri carissimi parlamentari che ogni qualvolta si riunisce la NATO, con il suo Segretario Generale, Jens Stoltenberg, in quella occasione bisogna dover presentare un qualche concetto nuovo, spesso mal pensato, ma che impressioni. E l’Europa in questo ha copiato l’Alleanza atlantica. L’inventiva o, se si preferisce, la capacità visionaria di quegli staff è impressionante. Ma dietro, fin troppo spesso c’è il vuoto, oppure la trappola nascosta del 2%.

Il Segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg
Come ho già scritto in passato, la NATO è un mercato. Questo deve essere chiaro, altrimenti cadiamo e lasciamo cadere tutti i cittadini nell’imbroglio delle percentuali. Siccome mercato, ci si vende e ci si compra. Vince chi vende di più, naturalmente, magari pressando gli altri perché comprino di più, magari spendendo questo ormai famoso 2%. E perché di grazia? E per fare cosa? Quali obiettivi?
Il tutto condito miseramente da un altro luogo comune: “no duplication, no competition”, spacciato per principio, che fa pendant con il nostro ormai secolare: razionalizzare l’impiego delle risorse nelle spese militari. Ma che cosa veramente significa? Qual è la traccia “razionale” da seguire? La traccia, caro il mio ministro, è definita dagli obiettivi che ci si prefigge di conseguire a supporto degli interessi nazionali, con i mezzi che si intendono utilizzare. Nella messa in sistema di aspirazioni e mezzi sta la Grande Strategia. Il resto è fuffa.
Eppure ci eravamo vicini.
E nuova, effettivamente, è l’idea di questa “Strategia Nazionale Sistemica per il potenziamento della Sicurezza Collettiva e della Resilienza Nazionale”. Troppe parole ancora una volta. Non servono. Basterebbe dire Strategia Nazionale di Sicurezza. Tuttavia, mi rendo conto che questa più semplice dicitura implicherebbe il coraggio di identificare, evitando approcci dogmatici del tipo “… il nostro Paese è membro fondatore della NATO …” oppure “… per noi (la NATO – Ndr) è l’organizzazione di riferimento per garantire un’adeguata cornice di sicurezza all’intera regione euro-atlantica ed esercitare la dissuasione, la deterrenza (qual è la differenza tra le due le avrei chiesto – Ndr) e la difesa militare contro qualunque minaccia …”, gli obiettivi che ci proporremmo per motivare la nostra appartenenza all’Alleanza. Coraggio che mi pare manchi. A meno che non ci sia anche l’incapacità di vedere le cose dall’alto e, quindi, di poter condurre un’analisi geopolitica.
Una rivelazione, caro ministro, esistono scenari strategici, esistono posizioni geo-strategiche (concetto solo descrittivo) ed esistono analisi geo-politiche. Non esistono invece scenari geopolitici, semplicemente non ha senso, in quanto uno scenario geopolitico sarebbe semplicemente riconducibile a una teoria della geopolitica. E di teorie in materia ce ne sono già abbastanza. Esse, ci sono necessarie come riferimenti di grande importanza, a condurre analisi che poi, come ho scritto più volte, portano alla definizione di una strategia. Strategia che infine, se siamo bravi, decliniamo in varie politiche. Noi seguiamo questo processo? Non mi pare.
Ma anche quel “sistemico”, ci mancava. Chissà perché mi viene in mente la diagnosi di uno stato febbrile endemico. Mi viene il prurito, inizio a grattarmi.
E comunque, questa “Strategia Nazionale Sistemica per il potenziamento della Sicurezza Collettiva e della Resilienza Nazionale” (e temo solo al pensiero all’acronimo che ne verrebbe fuori) non è suo compito strutturarla, caro ministro. Come ho già annotato in altro scritto, va anche bene l’idea (non il nome per carità), ma intanto la si chiami per quello che dovrebbe essere, senza il timore di apparire presuntuosi. Quindi si crei un organismo in grado, questo sì, di tracciare gli obiettivi strategici per i vari componenti, evitando che ogni ministro si inventi i suoi, adagiandosi alla tattica giornaliera e al piacere di lanciare slogan ogni santo minuto via twitter. Nessuno può assegnarsi i compiti per casa da sé, sarebbe troppo facile! Un organismo che riesca più di altri a guardare le cose dall’alto.
Pertanto, fossi stato io presente in questa audizione, mi sarebbe piaciuto sapere chi sia in grado di definire, come leggo, l’utilità, ai fini dei nostri interessi (quali? – Ndr), delle operazioni militari in atto e, inoltre, quali siano quelle vitali e il perché. Inoltre, avrei chiesto il perché quella in Afghanistan debba essere rivista e sulla base di quale cambiamento. Insomma, io ritengo che in un’audizione parlamentare non dovrebbe bastare una semplicistica sintesi, come mi pare di poter cogliere, si dovrebbe spiegare il perché senza aspettare che venga richiesto. Quindi, linee programmatiche di che cosa? Basta enunciarle? Mi pare ben poco.
Deluso. Come al solito, qualcuno dirà. Ma io ho letto il testo dell’audizione e ho tracciato solo alcune osservazioni delle tante che avrei potuto mettere in risalto. Vero è che non conosco le domande fatte dai parlamentari, se fatte. Pertanto, è assai probabile che molti dei miei dubbi saranno stati chiariti. E anche su questo ho dei dubbi.
In definitiva, ho letto un documento dallo scarso spessore concettuale. Se questa è la base di un ulteriore sviluppo, siamo messi male. Il Libro Bianco dell’ex ministro della Difesa, Roberta Pinotti rischia di divenire un capolavoro.
Documento vago, pieno di luoghi comuni e di concetti comprati dal mercato esterno, non elaborati autonomamente e criticamente. In un’audizione di questo livello non credo bastino cenni e paroloni ricamati. Troppi spunti che ormai, dopo tanti anni di vita militare, trovo veramente noiosi e improduttivi. Quindi, un bel compitino ma un inutile esercizio di scrittura da parte, è la mia convinzione, del solito ufficiale di staff, brillante e carrierista, che non bada alle conseguenze.
Quasi offensivo, direi, nei confronti dei parlamentari delle due Commissioni.
Comunque, visto l’impegno, “diciotto accademico”. I militari metterebbero, invece un “diciotto e palla””.
NOTE
1 https://www.difesa.it/Primo_Piano/Documents/2018/Luglio/20180726_Linee_programmatiche_Difesa.pdf
2 Permanent Structured Cooperation
3 European Union Global Strategy
4 European defense Fund