ROMA. I Balcani, con l’antica lotta tra serbi e kosovari, hanno riproposto all’opinione pubblica italiana e internazionale una questione che non è stata mai risolta.
Tantissimi popoli, tanti Stati spesso in contrasto perenne. Chi è entrato nell’Unione Europea e chi ci vorrebbe entrare. Tra chi è nell’orbita dell’Alleanza atlantica e tra chi la contrasta.
Una questione, quella balcanica, appunto che non sembra trovare una soluzione.
Report Difesa ne ha discusso con Andrea Carteny, docente all’Università di Roma “La Sapienza” (attività di ricerca e didattica presso la Facoltà di Filosofia Lettere Scienze Umanistiche e Studi Orientali, Dipartimento di Storia Culture Religioni, Storia e culture dell’Europa centro-orientale, balcanica e caucasica).
Professore, a distanza di un secolo, si è aperta una nuova Questione Balcanica? Con quali prospettive?
Sulla scia dello scoppio del conflitto russo-ucraino, ormai in piedi da quasi un anno, ma con radici più lontane, rinomate zone di conflitto “freddo”, di fatto zone “calde”, sono tornate a farsi sentire o potrebbero farlo, non solo nel Caucaso ma anche nella vicina regione balcanica.
La maggiore preoccupazione riguarda la regione kosovara di Kosovska Mitrovica, dove già la scorsa estate era esplosa la cosiddetta “guerra delle targhe”, con scontri, proteste e manifestazioni da parte della comunità serba di Kosovo.
Nelle ultime settimane la questione è tornata in auge, per l’arresto di un ex agente serbo, Dejan Pantic, che aveva scatenato blocchi e proteste da parte dei serbi locali, a cui il governo serbo rispondeva con la mobilitazione dell’Esercito nelle regioni di confine.
Solo le pressioni USA-UE per una de-escalation, accolte con buona volontà da entrambe le parti – con Belgrado che incassava il sostegno nel comunicato congiunto USA-UE alla propria richiesta immunità per i serbi protagonisti delle proteste e Prishtina che concedeva i domiciliari all’arrestato – hanno permesso l’allentamento della tensione e la riapertura dei valichi di frontiera.
Il grande movimento della Serbia nell’area è “figlio” di consigli che provengono da Mosca? La sua entrata nella UE potrebbe portare ad una soluzione delle problematiche?
Asserire che quanto stia accadendo al confine tra la Serbia e la regione kosovara di Kosovska Mitrovica sia “figlio”, frutto di consigli provenienti da Mosca, sembra essere una forzatura.
Si può ragionare invece su come il rischio sempre più vicino, nonostante i numerosi tentativi di distensione, di una nuova guerra serbo-kosovara rappresenti un focolaio probabilmente tornato ad accendersi, insieme a quello della Transnistria e di Kaliningrad, sulla scia del conflitto russo-ucraino e nei confronti del quale si è alzata l’attenzione di molti osservatori.
A tal proposito si potrebbe analizzare, invece, il ruolo della Federazione russa nei Balcani occidentali e sul volere di quest’ultimi.
Mosca per quanto possa contare su elementi ortodossi, panslavisti, su legami con partiti e movimenti dell’area e su collegamenti culturali, deve fare i conti con la ricerca da parte dell’area balcanica, Serbia in testa, di sviluppare una strategia multidimensionale dove il Cremlino rappresenta solo uno dei tanti punti di riferimento al quale rivolgersi.
La Russia, allo stato attuale delle cose, mirerebbe più che altro a disturbare i piani della NATO e dell’Unione Europea, non ad essere una reale alternativa: in questo contesto una possibile (e in qualche modo “auspicabile”) entrata della Serbia nell’Unione Europea potrebbe non essere la reale soluzione a queste problematiche, in quanto Belgrado è sì candidata UE ma non certo desiderosa di adesione all’Alleanza Atlantica.
Il Kosovo rivendica a gran voce una sua propria indipendenza (fatto salvo che molti Paesi dell’Unione europea non lo hanno riconosciuto come Stato) annunciando richieste di entrare nella NATO e nella UE. Questo potrebbe essere un ostacolo per la stabilizzazione dell’area?
Il Kosovo ha proclamato la sua indipendenza ufficiale dalla Serbia nel 2008 e tra i governi europei furono Regno Unito, Germania, Francia e Italia ad assicurare un rapido riconoscimento al neonato Stato.
Altri Paesi europei “sensibili” al timore della secessione di minoranze interne ai propri Stati (come Spagna, Romania, Slovacchia), invece, non hanno proceduto al riconoscimento ufficiale mentre Serbia e Russia espressero la loro decisa contrarietà, ritenendo che questa auto-proclamazione costituisse una violazione delle norme di diritto internazionale.
Al pari del Kosovo, che ha presentato ufficialmente la sua richiesta di adesione all’Unione Europea il 15 dicembre 2022, vi sono altri candidati all’UE in tutta la regione, mentre l’integrazione nord-atlantica nei Balcani è già più avanzata (con l’ultima membership di Skopje nel 2020): i processi di allargamento, in questo senso, sono da vedere e analizzare in un contesto regionale più che bilaterale, a maggior ragione in un contesto internazionale polarizzato dalla guerra russo-ucraina sul fattore sicurezza/minaccia della membership NATO.
Tuttavia il fatto che negli ultimi giorni, in funzione della soluzione della crisi di Natale, le cancellerie occidentali sembrino aprire ad un sostegno USA-UE alla creazione di un organismo di coordinamento delle municipalità serbe del Kosovo, osteggiato da Prishtina ma previsto dagli accordi di serbo-kosovari del 2013, potrebbe indurre ad un atteggiamento serbo più morbido nei confronti di eventuali membership euro-atlantiche del Kosovo.
Ad ogni modo rimane ufficialmente, per ora, la posizione decisamente euro-atlantica di Prishtina, e una posizione solo filoeuropea (e non filo-atlantica) di Belgrado con cui fare i conti.
C’è un ruolo della Chiesa ortodossa? Se sì come potrebbe essere definito?
Di certo in Serbia la cristianità orientale, ortodossa, è parte della cultura nazionale, mentre in Kosovo la comunità albanofona è musulmana sunnita: non a caso la Chiesa ortodossa durante l’intervento militare in Kosovo, nel 1998-99, è stata importante istituzione di supporto al governo, poi alla difesa del Paese sotto attacco NATO.
Dal febbraio 2021 la Chiesa ortodossa serba ha eletto il quarantaseiesimo patriarca Porfirije: l’elezione di questi, già metropolita di Zagabria e Lubiana, secondo alcuni sarebbe stata favorita dallo stesso Presidente serbo Vucic, quale fondamentale alleato di controllo di tutti i segmenti della società, compresa la Chiesa, istituzione che gode di grande fiducia da parte dei cittadini.
La Chiesa ortodossa, infatti, si oppone al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo e a qualsiasi divisione della regione kosovara, dichiarandosi preoccupata per le sorti della comunità serba in Kosovo, per il Patriarcato di Péc e per le molte chiese e monasteri ortodossi presenti nell’area.
In questo senso il conflitto in Ucraina e i legami storici con gli ortodossi russi ne fanno un attore sicuramente critico nei confronti dell’Occidente e culturalmente più filorusso.
Nella vicenda del Kosovo, l’Albania riveste un ruolo importante. I kosovari, ho avuto modo di constatarlo recentemente, restano molto vicini al Paese delle Aquile. Questo potrebbe essere un ostacolo ad una eventuale pacificazione?
Già nel corso di precedenti scontri tra albanesi e serbi in Kosovo, l’Albania ha preso posizione al fianco del governo di Prishtina.
Anche se rimane ufficialmente un tabù una futura un’unione federale tra Kosovo e Albania, di fatto l’affinità etnica e la storia comune mettono sempre Tirana e Prishtina l’uno al fianco dell’altro: tuttavia il ruolo dell’Albania e del primo ministro albanese Edi Rama è sempre prioritariamente orientato al rafforzamento della cooperazione regionale, in una prospettiva di sviluppo economico e infrastrutturale che sembra essere la vera strada “funzionalista” capace di mantenere la pace e facilitare l’integrazione comunitaria.
In questo senso il ruolo dell’Albania, più che essere destabilizzante, potrebbe essere di stabilità in una regione sempre in cerca di nuovi equilibri.
La NATO e le altre missioni internazionali controllano dal punto di vista militare e giuridico il Kosovo per far rispettare la risoluzione ONU 1244 del 1999. Secondo Lei, KFOR è ancora una missione che ha il suo valore o dovrebbe essere cambiata? Se sì, quale potrebbe essere il nuovo ruolo dell’Alleanza Atlantica ma anche dell’Unione Europea?
Le forze NATO della missione KFOR (Kosovo Force) sono presenti in Kosovo dal 12 giugno del 1999 con diverse missioni e nel corso di quest’ultimo anno sono stati potenziati i pattugliamenti nella regione di Kosovska Mitrovica.
Il comando della missione è passato lo scorso 12 ottobre dal Comandante ungherese Ferenc Kajari nelle mani del Generale italiano Angelo Michele Ristuccia: il comandante italiano, assumendo l’incarico, ha auspicato un sempre maggiore lavoro sinergico con l’Ufficio UE in Kosovo, EULEX e UNIMIK, e una stretta collaborazione con le Organizzazioni per la Sicurezza del Kosovo e con il capo delle forze armate serbe.
La presenza sul campo è fondamentale per mantenere – e non solo invocare – la pace tra le comunità etno-nazionali: se necessario è dunque interesse della comunità internazionale di mantenere e rafforzare queste forze il cui ruolo “neutrale” è sostanzialmente riconosciuto dalle fazioni in campo.
A distanza di 30 anni dalla guerra in Bosnia-Erzegovina anche qui si registrano spesso tensioni, quali potrebbero essere le soluzioni che, secondo Lei, la comunità internazionale potrebbe e dovrebbe prendere?
La questione bosniaca rimane sempre la cartina di tornasole delle tensioni e della stabilità in Europa sudorientale.
Anche in questo caso la situazione di convivenza può avere prospettive di stabilità solo in un contesto di progressiva e completa integrazione europea, per poter dare una cornice di appartenenza e di sicurezza agli individui e ai gruppi etno-nazionali.
A Mostar, ad esempio, gli abitanti vivono divisi fisicamente sui due lati del fiume Neretva e l’opposizione tra i partiti bosgnacco-musulmano e croato-cattolico ha impedito la formazione di una giunta comunale per anni.
Nel 2020, però, grazie all’assistenza dell’ufficio di Sarajevo del Consiglio d’Europa, si sono tenute dopo dodici anni a Mostar le prime elezioni comuni e nel 2021 è stato inaugurato il progetto “GradiMO”, un’assemblea cittadina che riunisce un gruppo rappresentativo di 48 cittadini selezionati in maniera casuale e che in più sessioni ha prodotto 32 raccomandazioni sulla pulizia della città e la manutenzione degli spazi pubblici.
Grazie agli esperti del Consiglio d’Europa ed alla visione progressista del nuovo sindaco, il lavoro dell’Assemblea è stato utilizzato dall’amministrazione civica per poter rispondere alle richieste della popolazione, in un modello di democrazia partecipativa e della convivenza che ora potrebbe estendersi ad altre municipalità della Bosnia Erzegovina, incluse quelle della Republika Srpska e della Federazione.
Gli Stati Uniti sono stati gli “azionisti di maggioranza” della pacificazione dei Balcani post guerre dei primi anni ’90. Lo sono ancora? O in conflitto in Ucraina ha spostato l’asse in Europa?
Il conflitto in Ucraina ha geopoliticamente spostato ad Est la tradizionale competizione e confronto sul campo tra Washington e Mosca: tuttavia l’Europa sudorientale conferma avere un’importanza strategica nel rapporto di forze soprattutto come proiezione di zone di influenza.
L’attrazione filorussa che da Mosca arriva – magari passando per Budapest – fino a Belgrado proietta sulle zone di conflitto (come il Kosovo e la Bosnia) l’ombra di un magnete capace di fornire un polo di attrazione alternativo a quello euro-atlantico.
Per tale motivo l’amministrazione americana, pur identificando negli ultimi anni il ruolo di primo competitore globale alla Cina in Asia, mantiene un focus di interesse per l’Europa orientale e i Balcani, dove pur con tutte le cautele il processo di integrazione (in primis atlantica) è andato avanti negli anni, dopo la membership di Albania e Croazia nel 2009, con quella del Montenegro nel 2017 e della Nord Macedonia nel 2020.
Il 24 gennaio è in agenda a Trieste una Conferenza sui Balcani, organizzata dal Governo italiano. Un’altra si tenne nel 2017. I risultati però non sono stati eclatanti. Quanto queste Conferenze, a livello politico- diplomatico possono portare, secondo Lei, un valore
aggiunto o quanto è più importante una diplomazia diretta tra le parti in causa?
Queste conferenze sono assolutamente necessarie per portare allo stesso tavolo le parti, che spesso non si incontrano ed evitano i contatti per non dare a vedere alle proprie fazioni più nazionaliste di essere in qualche modo “deboli” perché dialoganti con l’ex nemico.
In realtà la maggior parte dei risultati negoziali si è raccolta grazie alla conoscenza, anche personale, delle delegazioni e dei leader che nei corridoi e nelle cene sociali a latere degli incontri ufficiali: in questo senso l’Italia, che ha nel suo approccio di politica estera l’interesse “permanente” del dialogo e della cooperazione per la regione adriatica e balcanica, può offrire un contesto molto favorevole di distensione e collaborazione.
Come ha ben confermato il ministro degli Affari Esteri e Cooperazione internazionale Antonio Tajani, l’Italia oltre ad impiegare i propri soldati per mantenere la pace e la sicurezza nelle regioni di maggiore tensione, come il Kosovo, vuole essere in prima linea anche per negoziare e aprire maggiori prospettive di cooperazione in tutta l’area.
I Balcani per l’Italia sono come il “giardino di casa”. Le recenti missioni dei ministri Antonio Tajani e Guido Crosetto hanno cercato di ribadirlo. Ma quanto il nostro Paese può contare qualcosa nell’area? O quanto si deve unire ad altri?
Il ruolo dell’Italia è tradizionalmente importantissimo nella regione adriatica ed europeo-sudorientale, considerata dalla diplomazia italiana la direttrice degli “interessi permanenti” di Roma.
I buoni rapporti mantenuti degli ultimi decenni dall’Italia con tutti i player locali ne fanno un mediatore naturale e un facilitatore di sviluppo regionale, supporter dell’integrazione comunitaria dell’intera regione.
L’attuale governo italiano ha confermato questa priorità strategica, prospettando una presenza importante sui tavoli negoziali e un sostegno convinto alla membership europea degli Stati ex jugoslavi e dei Balcani occidentali.
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