Di Giuseppe Gagliano
PECHINO. La notizia è di quelle che scuotono i palazzi del potere e fanno tremare le fondamenta di un sistema che si vuole impenetrabile.
Un ufficiale di alto rango dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA), il gigantesco apparato militare della Repubblica Popolare Cinese, è stato condannato a morte per spionaggio a favore degli Stati Uniti.

Un reparto di soldati cinesi in parata
Una vicenda che, come un sasso gettato in uno stagno, sta generando onde di interrogativi e tensioni, non solo tra i vertici di Zhongnanhai, ma anche nei corridoi della diplomazia internazionale.
Le autorità cinesi non hanno lesinato dettagli, almeno quelli che hanno scelto di rendere pubblici.
L’ufficiale, il cui nome non è stato ancora ufficialmente divulgato – si parla solo di un “Generale di spicco” – sarebbe stato inchiodato da prove schiaccianti: documenti riservati, intercettazioni e, si dice, una rete di contatti con agenti della CIA che avrebbe coltivato per anni. Il processo, celebrato a porte chiuse come vuole la prassi in casi del genere, si è concluso con una sentenza che non lascia spazio a interpretazioni: pena capitale. Nessuna clemenza, nessuna esitazione.
Un messaggio chiaro, tanto al pubblico interno quanto ai rivali oltreoceano: chi tradisce la Cina, paga con la vita.
Ma dietro il sipario di questa condanna si agitano ombre che non è facile dissipare.
L’Esercito Popolare di Liberazione, con i suoi oltre due milioni di effettivi e una crescente influenza globale, è sempre stato un pilastro del potere del Partito Comunista cinese.
Un tradimento a questi livelli non è solo un colpo alla sicurezza nazionale, ma una crepa nell’immagine di invincibilità che Pechino ha costruito con cura.
E allora ci si chiede: come è stato possibile? Quali segreti sono finiti nelle mani di Washington? E, soprattutto, quanto è profonda la falla che ha permesso a un uomo così vicino al cuore del PLA di voltare le spalle al Dragone?
Fonti anonime, che circolano tra i media internazionali e i pochi coraggiosi reporter cinesi disposti a sussurrare fuori dal coro, parlano di un ufficiale che avrebbe avuto accesso a informazioni sensibili sulle operazioni militari nel Mar Cinese Meridionale e sulle capacità missilistiche del PLA.
Si vocifera di dossier scottanti, forse legati ai recenti movimenti di truppe vicino a Taiwan o ai progressi nei sistemi di difesa ipersonica, che la Cina considera un asso nella manica nella sua partita con gli Stati Uniti. Se confermato, sarebbe un duro colpo per Xi Jinping, che ha fatto della modernizzazione militare e dell’autosufficienza tecnologica i cardini della sua visione per il “sogno cinese”.
Eppure, non mancano le perplessità.
In un sistema dove la sorveglianza è capillare e la lealtà al Partito è un dogma, come ha potuto un tradimento di questa portata sfuggire per tanto tempo?
C’è chi ipotizza che la condanna possa essere anche una mossa politica, un sacrificio calcolato per placare un’opinione pubblica sempre più nazionalista o per regolare conti interni al PLA, dove le rivalità non mancano mai. Altri vedono invece un monito diretto agli Stati Uniti, in un momento in cui le tensioni tra le due superpotenze – dal commercio allo spazio – sono a un passo dal punto di rottura.
Washington, dal canto suo, tace.
Nessun commento ufficiale dal Pentagono o dal Dipartimento di Stato, solo un silenzio che sa di prudenza, ma che non placa le speculazioni. La CIA, abituata a operare nell’ombra, difficilmente confermerà o smentirà il proprio coinvolgimento. Ma il precedente non manca: negli ultimi anni, diversi casi di spionaggio cinese a favore degli USA sono emersi, spesso con ex funzionari o scienziati coinvolti. Questo, però, è un altro livello. Un generale del PLA non è un pesce piccolo, e la sua caduta potrebbe essere solo la punta di un iceberg ben più grande.
Intanto, a Pechino, la macchina della propaganda è già al lavoro. I media di Stato parlano di “giustizia trionfante” e di “nemici esterni” che cercano di minare la sovranità cinese. La condanna a morte, in un Paese dove le esecuzioni sono ancora frequenti ma spesso avvolte nel mistero, diventa un simbolo: la Cina non perdona, né dimentica. Ma dietro la retorica ufficiale, resta il sospetto che questa storia non sia ancora finita. Altri nomi potrebbero emergere, altre verità potrebbero affiorare.
In un mondo dove la guerra si combatte sempre più con l’informazione e meno con i cannoni, la vicenda di questo ufficiale senza nome ci ricorda una cosa: anche i giganti hanno i loro talloni d’Achille. E quando cadono, il rumore è assordante.
©RIPRODUZIONE RISERVATA