Confine Egitto-Israele: La tendopoli di Rafah: strategia di contenimento o detonatore geopolitico?

Di Cristina Di Silvio*

WASHINGTON D.C. Nel settore meridionale della Striscia di Gaza, lungo un confine che ha cessato da tempo di essere mera linea di separazione, prende corpo un’infrastruttura che segna una discontinuità potenziale: una “città umanitaria” pensata per concentrare, gestire e neutralizzare il movimento di centinaia di migliaia di sfollati palestinesi.

Profughi palestinesi

Presentata come risposta a un’emergenza eccezionale, questa configurazione campale si situa all’incrocio tra controllo territoriale, pressione demografica e logica securitaria.

Il linguaggio impiegato – umanitario, funzionale, operativo – suggerisce temporaneità.

Ma la retorica dell’assistenza, quando impiegata in assenza di un chiaro mandato multilaterale, tende a slittare verso l’ingegneria del contenimento.

Civili intenti a lasciare la zona di Rafah

La grammatica dell’urgenza sospende la responsabilità della durata; nel frattempo, la trasformazione materiale avanza.

Sul piano egiziano, la risposta è stata immediata e densa di segnali: il dispiegamento di assetti corazzati e sistemi d’artiglieria nel Sinai orientale indica una soglia oltre la quale non si intende retrocedere.

La posizione ufficiale de Il Cairo si muove lungo una traiettoria di autodifesa preventiva.

Il riferimento agli Accordi di Camp David, la cui rigidità nella Zona C vincola la proiezione militare egiziana, viene superato da una lettura funzionale della minaccia.

Menachem Begin, Jimmy Carter e Anwar al-Sadat, protagonsiti degli Accordi di Camp David

La sovranità, qui, non è solo rivendicata: è operativamente esercitata.

Lo scenario demografico prefigurato – una presenza palestinese permanente nel Sinai settentrionale – implica uno stress sistemico: fragilità tribali, rischio di infiltrazioni jihadiste, disequilibri etno-politici, vulnerabilità infrastrutturale.

L’intersezione tra pressione migratoria e deficit di governance si traduce in un rischio strategico strutturale.

La stabilizzazione di una popolazione non integrata in un’area di confine storicamente instabile genera un attrito difficilmente reversibile.

Parallelamente, il quadro giuridico internazionale produce tensione senza capacità di vincolo.

L’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 vieta espressamente il trasferimento forzato di popolazioni civili da territori occupati.

Lo Statuto di Roma definisce tale pratica, a seconda della sua sistematicità, come crimine contro l’umanità (art. 7.1.d) e come crimine di guerra (art. 8.2.b.viii).

Ma la riproduzione dell’eccezione in assenza di enforcement consolida una prassi: la violazione diviene configurazione.

La tendopoli non è quindi una risposta, ma un vettore: produce un nuovo assetto, genera effetti giuridici, altera geografie del potere.

Il valico di Rafah

La gestione dello spazio coincide con il controllo dei corpi, la delimitazione fisica con una soglia politica.

Il tempo, elemento critico, amplifica il rischio: la temporalità sospesa dell’“emergenza” cristallizza configurazioni permanenti.

La logica del fatto compiuto è già in atto, espressa attraverso una progressione amministrativa più che attraverso annunci formali.

Israele, in questo senso, non innova: prosegue una metodologia collaudata.

Zone cuscinetto, check-point temporanei, insediamenti provvisori hanno storicamente anticipato processi di consolidamento de facto.

L’architettura militare e amministrativa costruisce la permanenza attraverso l’iterazione di pratiche transitorie.

La tendopoli si inserisce in questa logica: dispositivo scalabile, adattabile, potenzialmente irreversibile.

L’Egitto risponde su tre livelli: diplomatico, tramite il coordinamento multilaterale con Stati Uniti, Qatar e ONU, per ridefinire il margine di manovra politico; logistico, con la predisposizione di forme di assistenza umanitaria sotto controllo sovrano diretto; militare, rafforzando la postura difensiva nel Sinai e testando i limiti funzionali degli accordi bilaterali.

Il sistema internazionale, in parallelo, registra un grado crescente di disfunzionalità.

Le convenzioni, prive di strumenti coercitivi, operano come enunciazioni simboliche più che come vincoli operativi.

Il principio di non-refoulement (Convenzione del 1951, Protocollo del 1967), così come i criteri di proporzionalità e distinzione del Primo Protocollo Addizionale (artt. 51 e 52), restano formalmente in vigore ma operativamente disattivati.

Se la tendopoli dovesse stabilizzarsi al di fuori di un mandato multilaterale, sotto controllo militare e in assenza di meccanismi di verifica, ciò che ne deriverebbe sarebbe una rottura sistemica.

L’epicentro del conflitto si sposterebbe: non più confinato alla linea di contatto tra Gaza e Sinai, ma collocato nel vuoto normativo generato dall’incapacità di far rispettare l’ordine giuridico.

È qui che il diritto internazionale, privato della sua funzione regolativa, rischia di ridursi a narrazione residuale.

La trasformazione di un dispositivo temporaneo in fatto strutturale non è un incidente: è una traiettoria.

E in assenza di reazione multilaterale efficace, la soglia di Rafah potrebbe diventare, più che una soluzione, un precedente.

Difficile da disinnescare, impossibile da ignorare.

*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

 

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