COVID-19: CALMIERARE LE REAZIONI ACUTE DA STRESS QUANDO SI INDOSSANO DISPOSITIVI DI PROTEZIONE. ANALISI DELL’APPROCCIO iCOVER

Di Sara Palermo*

Torino. Gli operatori coinvolti nel contenimento dell’emergenza sanitaria, nel presidio delle strade e nel mantenimento della sicurezza si trovano ad affrontare una situazione senza precedenti, fronteggiando quotidianamente situazioni di rischio e stressors ambientali e psicologici che sollecitano al massimo la tenuta psicofisica e le performance individuali.

Attenzione all’uso delle mascherine

Vi è un rischio concreto di manifestazioni individuali e collettive di burn out, ossia di una sindrome da stress lavorativo caratterizzata da astenia, apatia, irrequietezza, depersonalizzazione, distacco pervasivo dagli altri, ansia (soprattutto nell’approccio alla popolazione civile e ai pazienti con sintomi conclamati o in stato febbrile), senso di frustrazione, diminuzione dell’efficienza cognitiva (con scarsa concentrazione e indecisione paralizzante), scadimento dei livelli di performance, e riluttanza nei confronti del proprio lavoro.

Si associano sovente anche parasonnie e sintomatologia psicosomatica.

In prima linea si combatte. Questo comporterà un acutizzarsi di sintomi subdolamente presenti ma ancora non avvertiti in misura tale da destare preoccupazione o inficiare la funzionalità dell’individuo.

Né chi ne soffre né l’Istituzione o l’organizzazione per cui lavora monitorano portata e possibili conseguenze.

Ad oggi è come se il problema fosse negato o, perlomeno, considerato secondario rispetto al mantenimento della operatività sul campo.

L’uso delle mascherine crea problemi anche agli operatori di Polizia e ai militari

Siamo nella fase dello “svuotamento psichico” del personale, le cui energie sono, al momento, tutte indirizzate al lavoro e al perseguimento degli obiettivi di efficacia richiesti.

Elementi acutizzanti sono poi la paura del contagio ed i sensi di colpa nei confronti dei familiari trascurati da lungo tempo.

Se questa fase sarà mal gestita, alla lunga si rileveranno un aumento dei casi di burn out e di disturbi post-traumatici da stress.

La prevenzione primaria parte da un’attenta riflessione sulle modalità effettive con cui si opera sul campo.

In questi mesi, ad esempio, tanto si è detto circa la necessità di indossare i dispositivi di protezione individuale.

Poco si è detto circa le difficoltà che producono in chi è costretto ad indossarli continuativamente.

Nella sanificazione dei locali, l’Esercito mette a disposizione la sua esperienza acquisita all’estero 

Tra le immagini iconiche della risposta eroica alla pandemia di Coronavirus ci sono i volti del personale medico tumefatti dalle mascherine durante i lunghi turni di ospedale.

Come sanno i militari addestrati per operazioni di guerra non convenzionali (NBC –  nucleare batteriologica chimica) questo tipo di equipaggiamento può essere estremamente scomodo da indossare e provoca disagio, limita i movimenti fini e le comunicazioni non verbali.

Con l’aumentare della temperatura la respirazione si fa faticosa, la gola si secca.

Carabinieri in servizio in un’area rossa per l’emergenza Covid-19

I portatori di occhiali lottano con l’appannamento delle lenti. La pressione delle mascherine determina inoltre una cattiva ossigenazione dei tessuti, con danno al trofismo e al benessere dei vari strati cutanei, innescando un meccanismo di infiammazione.

L’uso protratto nel tempo provoca arrossamenti, abrasioni, lesioni della pelle. Prurito e dolore arrivano al cervello tramite le stesse terminazioni sensitive.

Vi è una associazione significativa tra deflessione del tono dell’umore, irritabilità ed esperienza dolorifica.

Soggetti con disturbi d’ansia o di depressione vanno incontro ad un aumento dei sintomi annessi al dolore e alla quantità di dolore percepito.

Tra i soggetti con lesioni dei tessuti molli poi, l’astrazione selettiva (prestare attenzione solo al dettaglio di una situazione, generalmente negativo, piuttosto che considerare il quadro complessivo) e la catastrofizzazione (predire negativamente il futuro o comportarsi senza considerare altri esiti, legittimamente probabili) sono significativamente associate all’intensità del dolore riferito, alla disabilità percepita e allo stato occupazionale.

Trattare le pelli così sofferenti e le ferite migliora decisamente la sopportabilità delle mascherine e la tenuta psicologica degli operatori.

La cicatrizzazione è un processo spontaneo ma va coadiuvata. I dermatologi consigliano l’applicazione di creme lenitive e antinfiammatorie che prevengano anche le infezioni, quindi che includano nella formula anche attivi disinfettanti.

Un operatore della CRI con indosso i DPI utilizzati nell’emergenza coronavirus

Ad esempio, è possibile utilizzare creme ed emulsioni cicatrizzanti impiegate per la cura dell’eczema atopico nei bambini o per dermatiti da pre-decubito. Questi composti hanno forti caratteristiche emollienti, riparatrici e lenitive, non bruciano e non hanno conservanti.

Applicati sulla pelle lesionata, stimolano la rigenerazione tissutale, aumentando la capacità cicatrizzante, ed alleviando – di conseguenza – prurito e dolore.

Vi è un altro aspetto da tenere in considerazione rispetto all’uso prolungato delle mascherine. In alcuni casi, la respirazione attraverso dispositivi di protezione individuale può provocare attacchi di panico e altri sintomi claustrofobici.

Quando un individuo viene completamente sopraffatto dallo stress, può sperimentare una reazione acuta da stress.

I sintomi di solito si sviluppano rapidamente (in minuti o ore) come reazione all’evento stressante. Tra i principali: reazioni dissociative e immobilismo (apparire “congelato” e distaccato da ciò che sta accadendo); mostrare emozioni estreme (panico, paura, rabbia); comportarsi in modo irregolare o agire senza considerare eventuali pericoli.

Operatori sanitari al lavoro con i DPI indossati

A questo quadro, già a partire dall’immediatezza dell’evento stressante, si possono associare sintomi di natura fisica: palpitazioni, dolore toracico e dolori addominali, nausea, mal di testa e difficoltà respiratorie.

Questi sintomi sono causati da ormoni dello stress come cortisolo e catecolamine (adrenalina) che vengono rilasciati nel flusso sanguigno, e dall’iperattività degli impulsi nervosi nelle varie parti del corpo.

Le reazioni acute da stress possono portare alla mancata osservanza delle linee guida per l’uso di dispositivi di protezione individuale e/o alla temporanea incapacità di agire sulla base dei protocolli e dei regolamenti, con conseguenze importanti per la sicurezza individuale/collettiva ed una diminuzione della prestazione lavorativa.

Coloro che per lavoro si affidano l’uno agli altri per garantire il massimo dell’efficacia e della protezione collettiva hanno bisogno di gestire nell’immediato queste situazioni.

Una reazione acuta allo stress può infatti pregiudicare il funzionamento e la tenuta di unità e sottounità. Sono pertanto al vaglio diversi protocolli di intervento.

IL PROTOCOLLO iCOVER

I ricercatori del Walter Reed Army Institute of Research (WRAIR) hanno recentemente sviluppato un intervento per affrontare le reazioni acute da stress: il protocollo iCOVER, un intervento basato sull’aiuto fra pari che richiede circa un minuto per essere completato.

Un trial controllato randomizzato su soldati statunitensi e Marines (Adler et al., Psychol Trauma, 2020) ha da poco dimostrato che l’apprendimento del protocollo è rapido e che è immediatamente applicabile in scenari realistici di addestramento ad alto impatto stressogeno (simulazione live).

Il WRAIR sta inoltre monitorando le potenzialità di iCOVER durante il dispiegamento di forze. I risultati sono promettenti.

Innanzitutto, i soldati stessi ne ravvisano l’utilità. Considerata l’esperienza con iCOVER di unità che si preparavano a schierarsi in Afghanistan l’anno scorso: il 95% ha riferito che apprendere iCOVER è stato utile; il 93% ritiene che sia importante; il 93% ritiene che le procedure da seguire siano semplici e chiare; circa il 40% dei soldati riferisce di aver visto almeno un commilitone in reazione acuta da stress durante un’esperienza di combattimento.

In secondo luogo, l’atteggiamento dei soldati è nei confronti delle situazioni stressogene è cambiato in positivo.

Ad esempio, il numero di soldati che hanno dichiarato di essere sicuri di poter aiutare i commilitoni a gestire una reazione allo stress da combattimento è aumentato del 23%.

Il protocollo si è quindi mostrato efficace per riportare al funzionamento basale soldati che, durante una azione od un intervento, si bloccano a causa di una reazione allo stress da combattimento.

Per tale ragione, il WRAIR e il Psychological Health Center of Excellence (PHCoE) ritengono che la metodologia possa rivelarsi efficace anche per chi è in prima linea nella lotta alla pandemia di COVID-19.
I sei passaggi del protocollo seguono l’acronimo iCOVER:

    • Identificare la persona che sta vivendo una reazione acuta da stress
    • Connettersi per riportare il soggetto al tempo presente, pronunciandone il nome, entrando in contatto visivo e scuotendogli un braccio
    • Offrire il proprio supporto per ridurre il senso di isolamento, facendo sapere al soggetto che non è solo
    • Verificare la situazione con semplici domande per far ripartire il pensiero razionale e l’esame di realtà (“Con quale unità presti servizio? Con quale ruolo?” “Dove ci troviamo?”)
    • Elencare l’ordine degli eventi per riorientare il soggetto, radicandoli nel momento presente, affermando cosa è successo, cosa sta succedendo e cosa deve accadere in tre semplici frasi. (“Hai indossato il tuo DPI. Stiamo effettuando un trasporto di emergenza in bio-contenimento. Stiamo per controllare il paziente”.“Hai indossato il tuo DPI. Stiamo pattugliando la strada. Stiamo per effettuare un controllo”)
    • Richiedere l’intervento attivo del soggetto (azione mirata) per riportarlo ad un comportamento intenzionale (“Controllare la saturazione di ossigeno del paziente e riferire”; “Verificare le generalità di quel soggetto e riferire”).

L’iCOVER prevede che ogni comunicazione sia data in modo autorevole e chiaro, senza urlare e senza manifestare eccessiva emotività.

Sotto stress estremo, infatti, l’amigdala si sovraccarica ed impedisce alla corteccia prefrontale (implicata nei comportamenti cognitivi complessi, nell’espressione della personalità e nella moderazione della condotta sociale) di funzionare in maniera ottimale.

È bene quindi non stimolarla ulteriormente. Laddove non funzionasse al primo tentativo, è sufficiente riavviare i passaggi.

Se il soggetto non dovesse entrare in relazione e dare risposte congrue, sarebbe opportuno portarlo in sicurezza e chiedere supporto aggiuntivo.

Massimizzare e preservare l’efficacia degli operatori sanitari è una parte cruciale della lotta contro COVID-19.

Di recente, diversi hotspot negli Stati Uniti hanno chiesto informazioni sull’utilizzo del protocollo iCOVER per il personale ospedaliero che inizia ad essere emotivamente sopraffatto o manifesta attacchi di panico a causa delle difficoltà respiratorie nell’uso dei dispositivi di protezione individuale.

Queste esperienze sul campo suggeriscono come iCOVER possa essere efficace anche in tali contesti. Tale approccio, definito iCOVER-Med, si basa su un protocollo sviluppato dalla Difesa Israeliana e adattato dal WRAIR, con un eccellente grado di accettabilità da parte del personale.

Si tratta di un ottimo esempio di come tecniche inizialmente sviluppate per il combattimento ed il controllo dello stress in scenario operativo possano svolgere un ruolo chiave nella gestione delle emergenze, anche in ambito civile.

In questa fase non è possibile fermarsi. L’emergenza sanitaria, le necessità dei cittadini e l’impegno necessari per affrontare la situazione sono troppo intensi per lasciare spazio alle proprie necessità. quando il picco emergenziale inizierà a scendere, lo farà anche la tensione emotiva degli operatori.

Allora il supporto psicologico diventerà uno strumento necessario per monitorare e gestire le situazioni di rischio.

È necessario che tali servizi vengano predisposti e si rendano disponibili sin da ora.

*M. Sc. in Clinical Psychology and Ph.D. in Experimental Neuroscience
PostDoctoral Research Fellow
Assistant Specialty Chief Editor for Frontiers in Psychology – Neuropsychology

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