Di Pierpaolo Piras
Roma. La vasta diffusione intercontinentale del coronavirus, ha fatto presto parlare di endemia.
Oggi, la parola “endemico” è diventata una delle più utilizzate e abusate dai mezzi di informazione.
Si sentono e si leggono molte ipotesi per lo più errate e talune anche fantasiose che manifestano persino un compiacimento, del tutto fuori luogo.

La diffusione intercontinentale del Covid-19
Che cosa è l’endemia?
Per la dottrina epidemiologica, l’infezione diventa endemica quando i parametri che rappresentano la sua diffusione sono “statici”, ovvero né in aumento né in calo.
Per descriverla più in dettaglio, indica che la percentuale di persone che possono ammalarsi bilancia, ovvero sta in equilibrio, con il “parametro di riproduzione e diffusione di base” del virus.
Seguendo lo stesso criterio scientifico, anche il raffreddore comune potrebbe essere definito come endemico. E così la malaria e la poliomielite nel mondo. Allo stesso modo è stato il vaiolo, fino a quando il vaccino di Jenner non lo ha eliminato.
La storia dell’umanità ci insegna che una malattia endemica può essere nel contempo sia diffusa che mortale. La malaria ha ucciso più di 600.000 persone nel 2020. Dieci milioni si sono ammalati di tubercolosi nello stesso anno, con effetto letale su 1,5 milioni di loro.
L’attribuzione di “Endemico” non significa che l’evoluzione biologica abbia in qualche modo domato un agente patogeno in modo che la vita umana torni semplicemente ad uno stato di “normalità”.
Piuttosto, al contrario, significa che il virus è qui per rimanerci.
Affermare che un’infezione diventerà endemica descrive sicuramente una delle caratteristiche della epidemia , ma dice molto poco su quanto tempo potrebbe essere necessario per raggiungere la stasi epidemica, quali saranno i livelli di morbilità (numero dei casi di malattia registrati durante un periodo dato in rapporto al numero complessivo delle persone prese in esame) o i tassi di mortalità o, ancor più ambiziosamente, quale percentuale della popolazione – e quali settori – sarà maggiormente suscettibile ad ammalarsi.
L’endemia non afferma neanche una stabilità della diffusione secondo parametri affidabili. In quanto ci possono ancora essere ondate di contagi endemici, come ha segnalato (2019) l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in occasione dell’epidemia di morbillo negli Stati Uniti.
Saranno semmai le politiche sanitarie e il comportamento individuale a determinare di volta in volta quale forma – tra molte possibilità – assumerà il COVID-19 endemico.
Bisogna tener conto, come abbiamo potuto notare nell’epidemia in corso, che lo stesso virus può causare infezioni endemiche, epidemiche o pandemiche: tutto dipende dall’interazione del comportamento degli individui di una data popolazione, dalla struttura demografica, dalla suscettibilità individuale e dai livelli d’immunità sociale (dovuta o meno dalla diffusione delle vaccinazioni. E per finire dalla imprevedibile comparsa delle varianti virali.
Condizioni come queste, variabili da una parte all’altra del mondo, possono consentire alle varianti di maggior successo biologico di evolversi, seminando ulteriori ondate epidemiche.

Uno scalo aeroportuale in tempi di Covid
Il COVID-19 non è, ovviamente, la prima pandemia che ha imperversato in questo mondo. Il fatto che il sistema immunitario si sia evoluto per far fronte a infezioni costanti spiega l’esistenza delle tracce di materiale genetico virale incorporato nei nostri genomi da antichissime infezioni virali, come testimonianza di tali ancestrali battaglie evolutive.
È probabile anche che alcuni virus si siano “estinti” da soli e abbiano causato alti tassi di mortalità all’uscita come esistenza biologica.
C’è un malinteso diffuso e del tutto apodittico, che i virus si evolvono nel tempo per diventare più benigni.
Questo non è proprio il caso del Covid-19: non esiste un risultato evolutivo predestinato affinché un virus diventi più benigno. Questo è ancora più vero per virus come il SARS-CoV-2, in cui la maggiore virulenza contagiosa si manifesta prima che il virus causi la malattia grave.
E’ sufficiente ricordare che le varianti Alpha e Delta sono più virulenti del ceppo originale trovato per la prima volta a Wuhan, in Cina.
Oppure, la seconda ondata della pandemia influenzale del 1918 (la Spagnola) fu molto più letale della prima.
Che cosa si può fare?
Intanto possiamo fare quattro cose:
Uno. Dobbiamo mettere totalmente da parte quel certo ottimismo pigro e sine materia doctrinae.
Due. Dobbiamo accettare con maggiore realismo i probabili livelli di letalità, disabilità e malattia dovuti al virus.
Tre. Dobbiamo usare – a livello globale – le formidabili armi terapeutiche già rese disponibili dalla ricerca scientifica di questi due anni di pandemia: vaccini efficaci, farmaci antivirali, test diagnostici sempre più precisi, una migliore comprensione di come fermare il virus presente nell’aria attraverso l’uso della mascherina, l’osservanza del distanziamento, la ventilazione e la filtrazione dell’aria.
Quattro. E’ d’obbligo investire in vaccini polivalenti che proteggano da una gamma più ampia di varianti.
Più un virus si replica, maggiore è la possibilità che sorgano varianti problematiche, molto probabilmente dove la diffusione è o è stata più elevata.
La variante Alpha è stata identificata per la prima volta nel Regno Unito, Delta venne primieramente intercettato in India e Omicron in Africa meridionale. Tutti luoghi nei quali la diffusione virale era dilagante.
Pensare che l’endemicità sia inevitabile è più che sbagliato, è pericoloso: prepara l’umanità a molti altri anni di malattia, comprese ondate imprevedibili di epidemie.
È più produttivo considerare quanto potrebbero andare male le cose se continuiamo a dare al virus l’opportunità di superarci in astuzia.
Solo allora potremmo fare di più per assicurarci che ciò non accada.
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