Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. Oggi, si segna una svolta brutale e definitiva nel conflitto israelo-palestinese.
L’offensiva di terra lanciata oggi da Israele su Gaza City non è soltanto una manovra militare: è l’avvio dichiarato di una cancellazione urbana e umana pianificata.
Due divisioni delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) sono penetrate da nord, mentre una terza ha completato l’accerchiamento da est. Nel frattempo, artiglieria, aviazione e supporto navale continuano a martellare i quartieri centrali della città.
Il comando israeliano dichiara che l’obiettivo è “sradicare Hamas”. Ma i rapporti e le immagini dal terreno raccontano altro: scuole, ospedali, campi profughi e aree residenziali sono sistematicamente distrutti o resi inagibili.

La guerra urbana è cominciata — e il bersaglio è l’intera città. Se l’offensiva prosegue con l’attuale intensità per 30‑60 giorni, il risultato sarà una catastrofe umanitaria senza precedenti nella storia recente del Mediterraneo. Le proiezioni sono spietate: le ONG internazionali stimano tra 38.000 e 52.000 nuove vittime civili.
La rete ospedaliera, già al collasso, sarà completamente inattiva entro metà ottobre: il 95% delle strutture mediche è destinato alla chiusura per danni diretti, carenza di carburante, personale o forniture sanitarie.
L’accesso all’acqua potabile, già sotto il 5%, scomparirà del tutto.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità avverte: epidemie di colera e tifo sono “altamente probabili” entro tre settimane. Gli sfollati interni supereranno 1,9 milioni — ovvero il 90% della popolazione della Striscia.
Non esistono zone sicure. Rafah è già sovrappopolata, mentre i corridoi umanitari sono sotto attacco. Il costo stimato per la ricostruzione, se mai fosse possibile, supera i 120 miliardi di dollari — tre volte il PIL palestinese pre-bellico. Questa non è una guerra nel senso classico. È una macchina di distruzione urbana calibrata. Israele impiega armamenti progettati per la devastazione profonda: bombe a penetrazione, missili ad alta carica, droni kamikaze. Gli obiettivi? Abitazioni civili, ambulanze, rifugi ONU.
Non si tratta di errori o danni collaterali: è una strategia deliberata.
L’obiettivo è la degradazione completa delle funzioni civili — sanitarie, educative, logistiche — fino alla paralisi totale. È una dottrina militare che punta all’annichilimento psicologico e sociale, non alla vittoria tattica. I rapporti umanitari sono inequivocabili: bambini uccisi mentre fuggono, spesso sotto bandiere bianche. Le comunicazioni sono interrotte.

La fame è divenuta un’arma strategica. Il quadro giuridico è altrettanto netto: siamo davanti a un genocidio in corso. La Commissione d’inchiesta ONU, guidata da Navi Pillay, ha pubblicato oggi un dossier che accusa Israele di violare apertamente la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio.
Secondo il rapporto presentato al Palazzo di Vetro: “Israele sta compiendo atti che violano direttamente la Convenzione per la Prevenzione del Genocidio. I fatti dimostrano l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale.
“Gli atti elencati — uccisione di membri del gruppo, danni gravi alla salute fisica e mentale, imposizione di condizioni di vita insostenibili, impedimento alla nascita di nuove generazioni, ostacolo deliberato agli aiuti — corrispondono punto per punto alla definizione legale di genocidio. Nel gennaio 2024, la Corte Internazionale di Giustizia aveva già imposto a Israele l’obbligo di “prevenire ogni atto genocida”. La risposta? Un’escalation militare pianificata.

L’Unione Europea tenta ora di reagire, ma il rischio è che sia troppo tardi. Il 17 settembre la Commissione Europea presenterà un pacchetto di misure eccezionali: sospensione dell’accordo commerciale di associazione con Israele, restrizioni ai programmi di ricerca a doppio uso (civile e militare), pressioni diplomatiche coordinate.
Ma queste azioni arrivano dopo undici mesi di devastazione. E restano ambigue: nessun embargo completo sulle armi è stato attivato. Diversi Stati membri si rifiutano ancora di usare il termine “genocidio”, per evitarne le implicazioni legali. Intanto proseguono trasferimenti tecnologici, licenze militari, cooperazioni universitarie.
L’Europa rischia non solo l’irrilevanza geopolitica, ma una complicità giuridica e morale. Le società civili reagiscono più rapidamente delle istituzioni. Le proteste nelle capitali europee aumentano.
Migliaia scendono in piazza ogni settimana per chiedere la fine del massacro, il boicottaggio totale, la rottura delle relazioni con Israele. Alcuni segnali sono già concreti: RTVE, la radiotelevisione pubblica spagnola, ha annunciato il ritiro da Eurovision 2026 in caso di partecipazione israeliana, seguendo Islanda, Irlanda, Slovenia e Paesi Bassi.

La pressione dell’opinione pubblica è divenuta impossibile da ignorare. Ma la politica — quella reale — si muove ancora con il freno a mano tirato. Il contesto regionale, nel frattempo, si deteriora rapidamente.
Le dichiarazioni di Hezbollah si fanno più aggressive, l’Iran alza il livello della minaccia indiretta, milizie sciite si muovono da Siria e Iraq. I flussi migratori verso Egitto e Giordania si intensificano: la capacità di assorbimento è al limite.
Il rischio di una guerra regionale non è più una minaccia astratta, ma una variabile operativa.
L’inerzia europea non è solo immorale: è strategicamente suicida. Questo è il punto di non ritorno. L’assedio urbano non distrugge solo edifici: demolisce un’intera idea di umanità.
Ogni ora che passa, Gaza viene svuotata non solo fisicamente, ma simbolicamente. Sta scomparendo una città, un popolo, una cultura, un futuro. I bambini nati sotto le bombe non avranno scuola, né ospedale, né casa. Le famiglie smembrate non si ricomporranno. E le istituzioni che oggi tacciono — europee, occidentali, multilaterali — non potranno domani rifugiarsi nella retorica della complessità. Perché ciò che accade è chiaro, documentato, e sempre più irreversibile.
Se le misure del 17 settembre non saranno drastiche, se non si bloccherà immediatamente ogni forma di sostegno diretto o indiretto all’apparato militare israeliano, l’Europa perderà non solo il proprio ruolo geopolitico, ma ogni residuo di credibilità morale. Gaza non sarà solo una tragedia del nostro tempo.
Sarà una condanna storica per chi ha avuto il potere di fermarla – e ha scelto il silenzio.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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