Gran Bretagna: è scontro aperto per la guida del Partito Conservatore, dopo le dimissioni della May. Sullo sfondo ancora la questione della Brexit e le autonomie locali

Di Pierpaolo Piras

Londra. Nel Regno di Elisabetta II crescono i dissidi e la tensione politica, per almeno due ragioni, attualmente cruciali nella vita politica inglese: la successione a Theresa May, dimissionaria sia dalla direzione del Partito Conservatore (Tory) che dalla carica di Primo Ministro e la fuoriuscita dell’Inghilterra dalla Unione Europea.

Il primo punto vede la strenua competizione tra Boris Johnson e Jeremy Hunt, entrambi personaggi di spicco dei Tories.

Boris Johnson

Il primo, 55 anni, nato a Nuova York da famiglia inglese, è stato sindaco di Londra per due mandati, esponente di punta del Partito Conservatore e segretario di Stato per gli Affari Esteri inglese e del Commonwealth fino al 2018.

Dai modi eccentrici e linguaggio “bombastic”, come viene talvolta definito, ha da sempre mostrato abile opportunismo e lucide capacità politiche, specie negli ultimi anni, così travagliati, della politica interna britannica.

Jeremy Hunt

Jeremy Hunt, 53 anni, membro conservatore di spicco, alla Camera dei Comuni dal 2005, laurea in economia ad Oxford, attuale ministro degli Esteri e del Commonwealth dal 2018, si pronuncia in termini più moderati e garbati.

Entrambi dovranno confrontarsi per convincere i circa 160 mila soci del Partito Conservatore ad eleggere il successore di Theresa May alla carica di leader dei Tories e di conseguenza a quella di Primo Ministro.

Theresa May alla Camera dei Comuni

Alla base della propaganda di ognuno sta il cronico e urente problema della “Brexit”, ovvero come realizzarla e come conciliare la tutela dei dazi odierni con la libera circolazione di merci e persone tra le due Irlande, del Nord e del Sud.

Non per ultimo se potrà essere rispettata la scadenza del 31 ottobre prossimo, come limite massimo di rinvio per la fuoriuscita del Regno Unito dalla Unione europea.

A tale proposito Hunt si è detto più ottimista, proponendo che l’Inghilterra mantenga l’unione doganale con l’UE fino alla definizione di ulteriori ed esaustivi accordi commerciali, evitando così l’odiato e divisivo confine “duro” (backstop) tra le due Irlande, ovvero dotato di infrastrutture murarie con controllo fisico e di polizia di persone e merci.

E’ una soluzione rispolverata tra quelle già esposte dalla premier Theresa May a Bruxelles e sonoramente bocciate sia dalla Camera dei Comuni che dal parlamento comunitario.

Si tratterebbe di una soluzione difficile, tra l’altro, da realizzare per l’ardua impossibilità di conciliare questa sorta di “Brexit a metà” con la possibilità per l’Inghilterra di stipulare liberi accordi in campo commerciale, specie con gli USA, come auspica Donald Trump, Presidente degli USA.

Theresa May e Donald Trump

Boris Johnson è più radicale: “Do or die”(o fai o muori), egli dice, riguardo alla fuoriuscita britannica prevista per il 31 ottobre, mentre rifiuterebbe di versare i 39 miliardi di euro che il Regno Unito dovrebbe versare all’Unione europea come parte dell’accordo di recesso, convenuto con la May.

Dopo che il mondo industriale ha ripetuto il danno enorme che la Brexit provocherebbe, i due hanno calmierato toni e modi nei loro discorsi.

Comunque andranno le trattative, va da sé che senza un accordo ratificato dalla House of Commons, la “Brexit no deal”, ovvero senza accordo con Bruxelles sarà l’unica strada percorribile con tutte le conseguenze negative per l’economia e commercio inglesi.

Nel frattempo, Theresa May muove gli ultimi colpi di coda del suo mandato, ora provvisorio ed in scadenza.

Nel suo ultimo discorso da premier in Scozia, ha avvertito severamente il suo successore a non arrecare danni alla nazione con politiche avventurose, già da tempo considerate fallimentari ed inutili come la Brexit senza accordo.

Sullo sfondo di tali diatribe sta anche la conciliazione con l’indomito separatismo gallese e scozzese.

Nicola Sturgeon, primo ministro scozzese, ha già anticipato di voler rimanere nell’Unione Europea e reclama quanto prima un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese, da svolgersi entro il 2020.

La leader scozzese Nicola Sturgeon

“È per il popolo scozzese, non un Primo Ministro Tory – ha detto – prendere in considerazione e decidere quale futuro vogliamo per il nostro parlamento e il nostro Paese”.

In questi ultimi anni, tutti i principali protagonisti politici inglesi hanno dato prova di inaffidabilità, mediocrità e d’irresponsabilità, come è raro vederne anche in Italia. E pure di maleducazione , dopo il voltaschiena all’ “Inno alla Gioia” a Strasburgo.

Tengano almeno in considerazione che il Regno Unito senza l’Europa non sarebbe mai esistito.

E’ la Storia a dirlo!

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