Di Alessandro Margottini
COSENZA. È stata un’attività investigativa congiunta tra la Guardia di Finanza e la Polizia di Stato di Cosenza quella che ha consentito di svelare un sistema imprenditoriale illecito, nel quale i diritti dei dipendenti erano stati annichiliti e dove gli stessi lavoratori si erano trovati costretti ad accettare condizioni retributive inique pur di preservare il proprio impiego.
Ad indagare sull’inquietante vicenda, più nel dettaglio, sono stati i poliziotti della locale Squadra Mobile ed i finanzieri del Nucleo Polizia Economico-Finanziaria cosentino, affiancati dai colleghi della Sezione di Polizia Giudiziaria oltre che dal personale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e dell’INPS di Reggio Calabria.
L’attività in cronaca ha tratto origine da un normale controllo amministrativo effettuato dagli agenti della Questura di Cosenza che aveva interessato un istituto di vigilanza della zona, successivamente acquisito da altro istituto avente sede ad Avellino. Controllo a seguito del quale erano però cominciate ad emergere alcune “anomalie” meritevoli di ulteriori approfondimenti tecnici, sviluppatisi poi con l’ausilio delle fiamme gialle.
Le conseguenti attività tecniche hanno iniziato dunque a prendere in esame la documentazione contabile dello stesso istituto ma anche ad assumere le sommarie informazioni dei lavoratori, i quali hanno iniziato a descrivere agli investigatori uno scenario lavorativo fatto d’indebite costrizioni e di diritti più che compromessi.
Come accertato nel corso delle indagini, alle guardie giurate dipendenti era infatti stato proposto una sorta di accordo transattivo finalizzato ad imporre l’accettazione di meno d’un decimo del credito vantato dagli stessi lavoratori nei confronti della società, derivante questo da straordinari non pagati, ferie e riposi non goduti nonché altri emolumenti mai corrisposti.
Una vera e propria condizione-capestro dunque, esposta senza mezzi termini durante un incontro tenutosi alla presenza dei rappresentanti legali della società nonché di un rappresentante sindacale, ma che – qualora non fosse stato accettato – avrebbe comportato “disagi” con tanto di possibile trasferimento della propria sede lavorativa in altre regioni.
Le retribuzioni “fallaci”, ovvero quelle non regolarmente corrisposte dall’istituto in parola, hanno interessato un periodo che va dal 2016 al 2021, ma non è tutto giacché gli investigatori hanno altresì scoperto un’evasione dei contributi da circa 500.000 euro; evasione alla quale però si erano affiancati 470.000 euro che la società aveva incamerato grazie agli sgravi contributivi conosciuti come “Decontribuzione Sud”, un’agevolazione introdotta dalla Legge di Bilancio 2021 in favore dei datori di lavoro privati operanti nel Mezzogiorno.
All’esito delle investigazioni sono state così acclarate le condotte di tre rappresentanti legali delle società coinvolte nella vicenda, nonché quelle del rappresentante sindacale; condotte che per gli inquirenti si sono sostanziate in veri e propri episodi di estorsione, caporalato nonché d’indebita percezione di finanziamenti pubblici, con tanto di omessa responsabilità amministrativa da reato contestata all’istituto di vigilanza irpino.
Alla luce dei dettagliati elementi probatori forniti dagli investigatori della GDF e della PS, il GIP del Tribunale cosentino – in accoglimento di specifica richiesta formulata dalla locale Procura della Repubblica – ha dunque disposto l’applicazione di misure cautelari interdittive nei confronti di due rappresentanti legali.
Gli stessi operatori della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza hanno inoltre provveduto al sequestro di disponibilità finanziarie per 470.000 euro ritenute profitto del reato.
Resta in ogni caso intesto che, per il principio della presunzione d’innocenza, nessun addebito penale può essere dichiarato in capo agli indagati prima che nei loro confronti sia stata pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna.
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